L’allargamento della famosa forbice che, in modo figurato, traduce il malessere diffuso di un Paese rappresenta oggi l’accertato fallimento del neoliberismo selvaggio. Un tema globale e dunque anche italiano. Metodo neoliberista che chiama in causa la responsabilità di una certa politica assai debole nel contrastarlo. Tuttavia, come dimostra proprio il caso Italia, vi è una società civile che, seppur ferita, attraverso forme di aggregazione del basso non rinuncia a collaborare per il bene comune. Fatti che attestano come le comunità siano una risorsa indispensabile per contribuire allo sviluppo del Paese. E come la cultura sussidiaria sia quel motore “mobile” in grado di generare luoghi di partecipazione attiva e relazionale della società civile. Analisi, riflessioni, contributi dopo un articolo del presidente della Fondazione per la Sussidiarietà Giorgio Vittadini, uscito sul quotidiano “la Repubblica”.
Questo numero di Nuova Atlantide, che avvia gli approfondimenti della rivista per il 2023, raccoglie qualificati contributi sollecitati dalla redazione a seguito di un articolo di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ospitato su la Repubblica nel contesto di un dibattito avviato da quel quotidiano sul futuro del Partito Democratico dopo l’esito insoddisfacente delle elezioni dello scorso 25 settembre.
Alla lettura, ci è parso evidente che le riflessioni di Vittadini, per le questioni poste e le ipotesi su cui invita a lavorare, andassero oltre il pur importante dibattito interno alle sorti di un partito centrale della politica italiana.
Un testo preoccupato, il suo; ma non costruito su una preoccupazione che chiude le porte alla possibilità di promuovere un corso diverso delle cose.
Vittadini attribuisce le responsabilità della crescita di povertà e ineguaglianze nel nostro Paese all’affermazione del cosiddetto neoliberismo selvaggio, cioè quella cultura pervicacemente ostentata del “laissez faire” che ha determinato una globalizzazione della frattura. Con tutte le conseguenze critiche del caso.
Ma altresì appare evidente come un nuovo indirizzo, in decisa controtendenza rispetto a una visione che vede percorsi autosufficienti dettati dal “duo” Stato e mercato, abbia preso piede nel riconoscere il ruolo costruttivo delle comunità locali. E nella cultura sussidiaria un innovativo lievito per far crescere il valore del contributo di tutti al bene di tutti. Nessun massimalismo, nessuna forma di contrasto assoluta. Piuttosto una cultura dinamica e dialogante che viene a esaltare i luoghi di partecipazione della società civile. Una società civile quale soggetto collaborativo, plurale, relazionale. Un protagonismo dal basso che, come si dice, alza l’asticella delle sfide poste (e imposte) dalla complessità di questo presente.
Tutti gli scritti che arricchiscono il numero della rivista centrano l’obiettivo di non limitarsi a un puro commento all’articolo di Vittadini. Ciascuno, dalla propria prospettiva culturale e dalle proprie competenze, ha aggiunto elementi alla riflessione, una sorte di “avanzamento dei lavori”. Volendo individuare un possibile filo rosso che accumuna i contributi, senza per questo ridurre il portato dei pensieri espressi, è possibile sottolineare tre aspetti di sintesi: il riconoscimento del ruolo sempre più decisivo del Terzo settore seppur ancora in presenza di trascuratezze istituzionali; il permanere di criticità nell’attuazione legislativa proprio in merito al soggetto Terzo settore; l’incisività della cultura sussidiaria quale veicolo virtuoso che riporta al centro della scena la persona.
La società “pulsante” e pensante
La dolorosa esperienza della pandemia ha detto con grande chiarezza che le molteplici espressioni del Terzo settore rimangono realtà decisive nelle forme di contrasto, anche nelle situazioni di emergenze più dure. Si tratta di quel sommerso che esiste, opera, interviene con risultati.
Non pochi lo avevano dimenticato, più o meno colpevolmente. Il Terzo settore non è un’alternativa allo Stato. Non è un’opposizione al mercato. Il Terzo settore è un anello di quella catena del valore che contribuisce a rispondere ai bisogni, certo non sostituendosi alla politica, alle istituzioni centrali e territoriali. Nei focus, proprio questo emerge con grande forza.
Tali realtà sono punti di ricchezza e anche di monitoraggio della criticità. Fanno “i fatti” e producono numeri che parlano, provocano, suggeriscono. I loro giudizi possono risultare fastidiosi solo a chi vede nella società non un cuore che pulsa e che domanda riconoscimento per poter costruire, bensì uno storico problema, un nemico da tenere a distanza. Ecco cosa inceppa: una cultura dell’accentramento che tende a escludere vs una cultura dell’inclusione vera. Diversi contributi mettono a nudo proprio le ragioni di un’incomprensione che, dati alla mano, non ha più ragion d’essere se mai l’ha avuta. La sussidiarietà, viene scritto secondo puntuali argomentazioni, non è un problema, ma un percorso di soluzione.
Relazioni vs paura
Potremmo dire che la sussidiarietà è una scuola di speranza – per parafrasare Martha C. Nussbaum che affronta la crisi da un punto vista originale e condivisibile nel libro La monarchia della paura (Il Mulino, 2020) – che educa nella vita di tutti i giorni alla prolificità della relazione.
La sussidiarietà è una scuola di speranza che contrasta le paure di questa contemporaneità confliggente. Perché insiste sulla persona, sul valore del pensiero critico, sulla creatività delle comunità, sulla politica come esercizio di carità, sulla bellezza in tutte le sue manifestazioni.
L’allora presidente degli Stati Uniti Roosevelt ebbe a pronunciarsi così: “Non abbiamo nulla da temere eccetto la paura stessa”. Già, la paura è un problema serio per la democrazia. La paura è il più efficiente freno a mano tirato sulla vita che, per sua natura, è movimento. La paura genera deficit umano. Determina il successo dei pochi (che dominano sia politicamente, sia socialmente, sia economicamente) sui molti. Produce ineguaglianze a tutti i livelli. Il campo è minato quando le persone hanno paura l’una dell’altra. L’Italia della sussidiarietà è sul quel campo per fare il suo, cioè contribuire a sminarlo.