Trimestrale di cultura civile

Il grande assente: il principio di responsabilità

  • MAR 2023
  • Giuseppe Guerini

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L’evidenza della fuga dalle responsabilità determina la fatica a riconoscere il valore collaborativo della cultura sussidiaria. Un deficit non solo da attribuire alla politica, ma anche a soggetti del Terzo settore che agiscono secondo pratiche che disattendono quelli che dovrebbero essere i motivi ideali caratterizzanti la loro intrapresa. E concorre a tale travaglio una riforma che non favorisce la libera espressione, bensì tende a bloccarla. Eppure, è proprio dal riconoscere la linfa vitale della cultura sussidiaria che potrebbe ripartire un percorso di ricostruzione; e prima di tutto della dimensione popolare della politica, quella che affonda le radici nel popolarismo di don Sturzo, nella questione morale di Enrico Berlinguer, nell’“I care” di don Milani, nella sostenibilità integrale di Papa Francesco. Si tratta di personalità che hanno scommesso e speso la propria vita investendo sulla centralità della persona. Una centralità concreta, da recuperare. E nel processo di recupero deve essere forte il richiamo all’assunzione di responsabilità. Questione che tocca tutti e ciascuno. Perché nessuno può chiamarsi fuori.

In un interessante articolo, comparso sul quotidiano la Repubblica lo scorso 9 dicembre 2022, Giorgio Vittadini esordiva con la domanda: “dove sono finite le realtà popolari, di ispirazione laica e cattolica, che hanno fatto grande l’Italia”? Una domanda dalla quale mi sono sentito interpellato e che mi ha risuonato dentro, come del resto risuonano gli argomenti sollevati dall’articolo, sui quali da tempo cerco di riflettere e di impegnarmi nel mio lavoro quotidiano: la crescita delle disuguaglianze, l’inarrestabile avanzare delle povertà, le grandi solitudini di famiglie e persone in situazione di bisogno a cui “lo Stato provvidenza” non riesce a offrire risposte né efficienti né efficaci, mentre il mercato può proporre soltanto una logica di consumo e, in ogni caso, mette in evidenza la fallimentare e inefficiente “allocazione ottimale” delle risorse, non solo nelle dinamiche ormai impazzite del mercato del lavoro, penso in particolare alla crescita esponenziale del “lavoro povero” e alle dinamiche “consumistiche” che stanno sempre più condizionando il mercato delle prestazioni sanitarie.

I risultati della “solidarietà organizzata”

Per molti anni, soprattutto in quasi tre decenni compresi tra la fine degli anni Settanta del secolo scorso e i primi anni Duemila, le formazioni sociali della “solidarietà organizzata” – cooperative, associazioni, fondazioni – hanno saputo farsi carico di molti bisogni emergenti dai mutamenti socio economici del Paese, portando uno straordinario contributo all’innovazione sociale che si è accompagnata all’implementazione di alcune straordinarie riforme: l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, l’inserimento delle bambine e dei bambini con disabilità nelle scuole dell’obbligo, il superamento della segregazione della malattia mentale, l’organizzazione delle prima comunità per la cura delle persone con tossicodipendenza.

Questa capacità di innovazione sociale si realizzò prevalentemente in forma sussidiaria, ovvero molte di queste organizzazioni iniziarono a farsi carico dei bisogni, prima, e delle persone che li esprimevano, poi, per iniziativa motivazionale e non a seguito di appalti o affidamenti disposti dalle istituzioni. Con modalità e significati simili a quelle della parrocchia del quartiere milanese di Baggio, descritta dall’articolo di Vittadini.

Le formazioni sociali si mobilitavano non in cerca di commesse o convenzioni, ma spinte da una carica ideale e dal desiderio di essere attori di una trasformazione sociale, non realizzavano servizi, cercavano di produrre cambiamento. Si assumevano responsabilità dirette, affrontavano rischi, erano l’espressione della cultura dell’impegno. Creavano e riconoscevano persone che appunto si definivano “impegnate”. Le istituzioni spesso, non senza animate discussioni o conflitti, riconoscevano questo ruolo e a loro volta accettando la sfida del cambiamento, hanno restituito riconoscimenti e “istituzionalizzato innovazioni”.

Nascono da questa dinamica leggi come la 266/1991 e la 381/1991 che, rispettivamente, istituzionalizzarono, riconoscendone il valore e l’importanza, la funzione del volontariato e delle cooperative sociali.

Questo processo ha cambiato rotta negli ultimi anni, paradossalmente; contrariamente alle intenzioni e alle attese, la recente riforma del Terzo settore, anziché portare al centro dell’attenzione delle istituzioni la libera iniziativa delle formazioni sociali, rischia di arrovellarsi nel formalismo dei codici, dentro i quali spesso si nasconde da un lato la pretesa di controllo delle autorità statuali (pensiamo ai decreto contro le ONG che operano i salvataggi nel Mediterraneo), dall’altro la difesa quasi corporativa delle rendite di posizione di parte delle organizzazioni della società civile.

Infatti, la riforma del Terzo settore lanciata con grande enfasi nel 2014, approvata nel 2017 dopo tre anni di gestazione, languisce ancora in una incompiutezza che mette in evidenza la debole propensione della politica e degli apparati della pubblica amministrazione a mettersi davvero su di un piano di pariteticità con le formazioni sociali, nel perseguire gli interessi generali.

La debolezza della riforma

Avendo partecipato direttamente al dibattito sociale e culturale che si svolse attorno alla riforma, rileggendo oggi quel percorso, credo proprio che la principale debolezza dell’impianto risieda proprio nel non avere accompagnato quella riforma con una adeguata e profonda valorizzazione della cultura della sussidiarietà, che trovava un riferimento importante nell’articolo 118 della Costituzione Italiana: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. È stata necessaria una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 131 del luglio 2020 a ricordare a tutti l’importanza di questo principio, proprio in relazione alla funzione delle formazioni sociali.

La riforma del Terzo settore, da questo punto di vista, è anche emblematica di quella difficolta della sinistra italiana di farsi interprete dei bisogni di chi sta peggio (sempre dall’articolo di Vittadini) riconducendo il Terzo settore in un perimetro che oscilla fra la supplenza e la fornitura, che nonostante le premesse dichiarate nell’articolo 1 della legge di riforma, continua a immaginare gli enti di Terzo settore come erogatori di servizi e non come attori di una sussidiarietà compiuta che ne valorizzi responsabilità e autonomia.

L’enfasi con cui si parla di co-programmazione e co-progettazione per la regolazione dei rapporti tra amministrazioni pubbliche e Terzo settore è il rovescio di una medaglia che riporta questi strumenti che dovrebbero essere veicoli di sussidiarietà a semplici varianti tecniche per gestire rapporti contrattuali. A difettare però non è lo strumento tecnico amministrativo.

Quello che manca è la riflessione politica, la direzione di senso che dia coerenza alle intenzioni legislative, l’articolo 1 della riforma del Terzo settore ha un alto valore e significato, che non trova però interpreti politici che vogliano o sappiano farsene carico.

Il problema delle relazioni di natura “contrattuale”

Certamente non è tutta colpa della politica, poiché anche le stesse organizzazioni del Terzo settore, in fondo, sembrano adagiarsi volentieri nella posizione di erogatori di servizi e contraenti delle articolazioni dello Stato, non solo nel caso del Terzo settore produttivo a vocazione imprenditoriale (cooperative sociali e imprese sociali in primo luogo) ma anche nel caso di molte associazioni di promozione sociale o di volontariato che, più che di “promozione” sociale, finiscono per essere enti di produzione di prestazioni. Quindi a prevalere finiscono per essere le relazioni di natura “contrattuale” su quelle di natura sussidiaria.

Questa mutazione modifica profondamente due elementi fondamentali che, a mio parere, qualificano e caratterizzano la sussidiarietà. Il principio di responsabilità e la libertà, soprattutto la libertà di iniziativa (art. 118 della Costituzione). Contratti e convenzioni sono ovviamente strumenti indispensabili – e sono stati anche veicolo fondamentale di crescita e qualificazione – ma definiscono anche chiari e vincolanti rapporti di potere che, per certi versi, spiegano anche il consolidamento delle capacità di risposta verso i bisogni più riconosciuti, gli utenti più visibili, gli strati di popolazione verso i quali è più convergente il “consenso sociale e politico” e, di conseguenza, si consolida una forma di conservatorismo del welfare disegnato da un rapporto di forza tra committenti ed esecutori, che riduce gli spazi di libera iniziativa e di innovazione.

Il principio di responsabilità è il grande assente di questo tempo, lo è in senso generale. Mi pare che viviamo una stagione di grande fuga dalle responsabilità con una politica che vorrebbe avere il potere ma sempre pronta ad attribuire le cose che non vanno ad altri, riconcorrendo narcisisticamente soltanto i meriti, basti osservare il dibattito sull’Europa. Ma lo vediamo nel piccolo delle dinamiche quotidiane: gli insegnanti che devono difendersi da genitori che contestano i voti, i sindaci messi sotto accusa se un bimbo cade da uno scivolo al parco, l’automobilista che fa causa al comune se urtando un marciapiede squarcia una gomma dell’auto sostenendo che gli spigoli erano taglienti. Lo vediamo nei media e in modo abnorme e drammatico nei social network dove si possono scatenare campagne di disinformazione, di cui nessuno vuole sentirsi responsabile.

La conseguenza di questa dinamica è che si scambia la ricerca dei “colpevoli” per il riconoscimento delle responsabilità. L’attribuzione di colpa si sostituisce all’assunzione di responsabilità. Accade così che, ad esempio, i fallimenti delle politiche di contrasto alla povertà non diano corso a un dibattito su come possiamo farci carico dei poveri, ma a una zuffa tra chi assegna colpe ai poveri o chi questa colpa la vorrebbe attribuire ai ricchi.

Ma non è l’individuazione delle colpe bensì l’assunzione delle responsabilità la via per affrontare i problemi complessi come la povertà o il fenomeno migratorio. Altro tema per il quale la disputa sull’attribuzione delle colpe cancella qualsiasi discorso serio sulle responsabilità.

La visione confusa dei diritti privatizzati

Questa fuga dalla responsabilità, a mio parere, è uno dei motivi per cui, per molti aspetti, in Italia in questa stagione si fa fatica a riconoscere il principio di sussidiarietà. Eppure, proprio da qui potrebbe partire un percorso di ricostruzione della dimensione popolare della politica, quella che affonda le radici nel popolarismo di don Sturzo, nella questione morale di Enrico Berlinguer, nell’“I care” di don Milani, nella sostenibilità integrale di Papa Francesco. Tutte figure che hanno difeso e difendono fino in fondo i “diritti” delle persone, ma anche i diritti delle persone sono fortemente ancorati a una dimensione di responsabilità assunta in prima persona da chi i diritti li difende, li proclama o li rivendica, non come principi astratti ma come socialmente condivisi, compresi e comprensibili e quindi, in quanto tali, legati anche alla dimensione della vita concreta delle persone nei contesti vitali e comuni.

Per certi aspetti la continua rincorsa, invece, ai diritti privatizzati, spesso confusi con il desiderio individualizzato, che a volte troviamo nel dibattito politico di una parte della sinistra, hanno contribuito ad allontanarla dal Paese reale. Del resto, se la proposta antropologica prevalente nella politica è quella della enfatizzazione del diritto rivendicato dal singolo, che nella prospettiva del populismo di destra si manifesta con la demonizzazione del diverso e arriva all’estremo della rivendicazione del diritto al possesso libero delle armi, nella prospettiva elitaria di una parte della sinistra intellettuale, si mostra nel promuovere come diritto un desiderio egoistico di genitorialità a ogni costo, anche laddove la natura non lo consente. In entrambi i casi a scomparire sono le responsabilità comuni e le responsabilità verso l’atro. Non è una novità certo, anche Caino, interrogato da Dio sulla sorte di Abele, risponde: “sono forse io responsabile di mio fratello?”.

Ma proprio dalla stigmatizzazione del comportamento di Caino nasce la vocazione sociale della civiltà. La responsabilità verso l’altro è il primo passo per riconoscere anche l’esistenza di beni comuni e quindi il primo passo per sentirsi sussidiariamente chiamati in causa in un movente d’impegno sociale e civile e, quindi, anche politico.

Giuseppe Guerini è presidente di Confcooperative Bergamo e membro del Consiglio Nazionale di Confcooperative. Rappresenta il settore della cooperazione di lavoro nel Board di Cooperatives Europe

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