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Vittadini su la Repubblica giudica la proposta Calderoli

Autonomia differenziata?
Così non si aiuta il rilancio del Paese

Servono unità e coesione, e una visione strategica condivisa. Per risolvere i conflitti fra Stato e Regioni e combattere le diseguaglianze non basta ridistribuire le deleghe. E, nota bene: questa non è sussidiarietà

L’autonomia differenziata senza una visione

L’autonomia differenziata è stata spesso erroneamente confusa con la sussidiarietà.

La proposta del ministro Roberto Calderoli, che rivoluzionerebbe gran parte del nostro apparato legislativo e amministrativo, arriva in un momento di forte rischio di disgregazione, in cui il Paese è chiamato a far fronte a tante sfide, nazionali e mondiali, e per questo ha bisogno di unità e coesione, con un processo di riforma largamente condiviso. E soprattutto ha bisogno di coltivare una visione a cui ispirarsi per il suo rilancio. Visione che, certo, richiede di precisare le funzioni dei diversi livelli di governo, risolvendo l’annoso problema delle materie concorrenti, ma anche di fare scelte che riguardano la tutela dei bisogni fondamentali delle persone.

Quindi, il rapporto Stato-regioni non può essere semplicemente risolto precisando le deleghe da attribuire a livello locale. I vent’anni trascorsi dalla riforma costituzionale del 2001 mostrano che materie come l’istruzione, la sanità, il welfare, le infrastrutture richiedono un rapporto continuo tra Stato e Regioni per evitare conflitti, sovrapposizioni, e soprattutto disuguaglianze.

 

Pensare a chi sta peggio

è questo il compito della nuova sinistra

 

 

L’emergenza Covid ne ha dato una dimostrazione: l’iniziale mancanza di strategia a livello nazionale e l’inadeguata gestione a livello locale avrebbero potuto essere meglio affrontate con un rapporto più stretto tra i diversi livelli di governo.

Oggi lo strumento di tale rapporto è la Conferenza Stato-Regioni, troppo debole per uno scopo così importante. Occorrerebbe piuttosto che, come accade in Germania, vi fosse una delle Camere, il Senato delle Regioni, riservata al dialogo stabile e continuo tra i due livelli istituzionali. Ma tutto questo richiede una riforma ben più profonda.

Non solo, le regioni sono realtà del tutto disomogenee. Alcune sono più grandi di molti Stati dell’Unione Europea e sono quelle più interessate all’autonomia differenziata. Altre sono più piccole di quartieri di grandi città.

L’Italia è già sufficientemente divisa e bloccata. Ciò che serve è un nuovo impulso per il suo sviluppo e, per questo, occorre ancora più coesione e solidarietà. Anche perché il problema della crescente diseguaglianza sociale è come un macigno rispetto a ogni disegno riformatore.

 

Con la terza lezione concluso il corso 2023

Scuola di Sussidiarietà
Un confronto tra esperienze

 

Il tasso di minori in povertà assoluta ha raggiunto il 14,2% (circa 1,4 milioni), quasi triplicato negli ultimi 10 anni. La capacità di spesa per istruzione nelle famiglie residenti nel Mezzogiorno è in media circa 5 euro al mese a fronte dei 33 spesi da una famiglia più abbiente (elaborazioni di Save the Children su dati Istat).

Un progetto unitario di rilancio del Paese avrebbe la forza di valorizzare le differenze territoriali: il Nord potrebbe più utilmente rapportarsi con la Mittle Europa, il Sud potrebbe diventare il centro del Mediterraneo e, in questo modo, rilanciarsi. Se il progetto dell’autonomia differenziata non si muoverà in questo senso e non garantirà la solidarietà verso le zone più in difficoltà, perpetuerà le divisioni senza cogliere il vantaggio delle differenze.

Fondamentale a questo scopo è che si arrivi a una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) in modo ponderato e condiviso.

E se le regioni più ricche incrementeranno il loro sviluppo, occorreranno meccanismi perequativi che porteranno questi benefici anche alle zone più in difficoltà. Certamente, la linfa di uno sviluppo, equilibrato e duraturo, deve venire il più possibile “dal basso”, dai territori e dall’iniziativa delle persone. A questo ci si riferisce quando si parla di sussidiarietà.

Quello che si trascura, però, è che tale principio non implica un arretramento del potere pubblico, ma un suo salto di qualità perché venga garantita la migliore risposta possibile ai bisogni delle persone, da qualunque ente provenga.

La partecipazione dal basso ad attività finalizzate al bene comune, per ampliare il suo effetto a tutto il sistema-paese, richiede un’amministrazione pubblica migliore, meno burocratica, più efficiente, più capace di leggere la complessità della realtà.

Senza uno sguardo d’insieme sul Paese, senza una visione a lungo termine, senza risorse pubbliche, senza una pubblica amministrazione efficace ed efficiente, la sussidiarietà diventa la foglia di fico di un presenzialismo inconcludente oppure opportunista.

* L’autore è presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

* Per gentile concessione del quotidiano la Repubblica

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