La promozione di un modello di sviluppo sostenibile interpella le realtà del mondo cooperativistico. Si tratta di una sollecitazione provocante. Che richiama certamente la nobiltà di una storia; ma che suggerisce oggi un lavoro in profondità per animare un protagonismo al passo con le sfide che questo presente pone con forza. Questo in considerazione delle gravi criticità prodotte negli anni dalla pratica dicotomica tra Stato e mercato, alternativamente alla ricerca ossessiva di una leadership miope e coerente solo con la propria visione distorta delle cose. La crisi strutturale di tale modello “muscolare”, oltre ad aver allargato il fossato delle disuguaglianze, ha permesso però di comprendere che un altro impegno con lo stato delle cose è possibile. In chiave nazionale e internazionale. La persona, le comunità, la società chiedono un’inversione. Non una retromarcia. Ma una marcia. Un procedere sensato per assumere un grande impegno con la collettività: cioè, far proprio il desiderio di soddisfazione dei bisogni che il nuovo mutualismo riassume ed esprime.
La sollecitazione a riflettere insieme sull’esigenza e sulle modalità di promuovere un nuovo modello di sviluppo, che oltre al “pubblico”, sempre più malconcio, e soprattutto a un mercato che in questi decenni ha mostrato gli effetti di una cieca avidità, sappia valorizzare in chiave sussidiaria i valori, le idee e le pratiche del privato sociale, è davvero gradita. Legacoop, del resto, proprio in queste settimane chiamata a congresso si sta interrogando nei tanti territori e settori coinvolti, proprio su questi argomenti.
L’intruso fastidioso: la “perma-crisi”
Questo decennio non ci ha risparmiato nulla, tanto da avere ispirato non solo il concetto di “grande incertezza”, ma pure l’efficace neologismo “perma-crisi”. Crisi finanziarie, economiche, istituzionali, ambientali, demografiche, migratorie, sociali.
Un incremento generalizzato delle disuguaglianze che generano l’allargamento dei divari tra i segmenti più ricchi e più poveri della popolazione e disparità di reddito, di genere, di accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria: gli effetti combinati di tutti questi fattori continueranno a rappresentare le sfide sociali, economiche e politiche più importanti per il prossimo futuro.
Questi stessi aspetti rilanciano la necessità di un modello di redistribuzione del reddito più vicino al benessere delle persone e indicano l’urgenza di un nuovo modello per lo sviluppo sostenibile.
Il modello economico prevalente che ha guidato le politiche economiche e sociali dei Paesi occidentali si è basato per lungo tempo su un rapporto dicotomico tra Stato e mercato, in cui l’intervento dell’uno ha prevalso alternativamente su quello dell’altro.
Nell’ultimo decennio, il sopraggiungere delle citate grandi crisi ha progressivamente messo in discussione tale modello, mostrando i limiti di un approccio basato sull’idea che lo sviluppo economico e il benessere sociale fossero dipendenti soprattutto dal libero gioco delle forze di mercato. A partire dalla crisi finanziaria, e in Europa lungo un decennio di austerità, perfino la pandemia ha messo in luce le disfunzionalità di quel modello, le sue ingiustizie, la cattiveria con cui alimentava la cultura dello “scarto”, anche umano.
Due anni di pandemia, poi, hanno minato alle fondamenta la globalizzazione, modificando gli assetti di vita delle persone e delle imprese. Di fronte a un unico bene comune – la vita – si è assistito al recupero di logiche territoriali e locali, sia di livello nazionale che comunitario. Al sistema globalizzato e senza governance, sviluppato con l’incentivo delle istituzioni alla libera circolazione di merci e persone, infatti, si è contrapposto il bisogno di realizzare finalità di interesse collettivo, anche in nome di una maggiore tutela pubblica, attraverso un intervento più decisivo dello Stato.
La sola logica mercantile non salva la pace
Gli effetti della guerra alle porte dell’Europa hanno definitivamente posto l’attenzione sulla incapacità dell’economia di mercato – oltre a garantire fattori essenziali quali l’accesso all’energia – di tutelare la pace e la democrazia.
E qui si chiude il cerchio del modello che ha preso piede nel secondo dopoguerra: la ricostruzione, l’integrazione europea, l’interconnessione dei mercati internazionali, prima occidentali e poi sempre più su scala globale, si basavano su una sola inequivocabile precondizione: la pace.
Senza la pace non ci sono mercati, globalizzazione, benessere globale e il mercato, ovviamente, non solo ha confermato di non essere l’agente in grado di assicurare la pace ma, anzi, ha mostrato la propensione ad acuire le tensioni sovente riallocando in modo ingiusto e diseguale le risorse fondamentali al benessere delle persone.
Quindi, le crisi menzionate, con il loro comune denominatore – il fallimento dell’idea di predominanza del profitto sul benessere sociale, economico e ambientale –, hanno fatto emergere una maggiore attenzione alle politiche sociali ed economiche sostenibili e orientate alla cooperazione economica, al fine di favorire la crescita attraverso meccanismi di solidarietà, anche nel modo di stare nel mercato.
Si sono diffusi, di conseguenza, il bisogno e la ricerca di alternative fondate su una maggiore socialità, intesa come capacità collettiva di rispondere ai rischi e alle minacce sperimentate in questi anni recenti.
A tutto ciò si è provato a rispondere in un primo momento attraverso surrogati tecnologici di reti sociali, secondo l’idea che le nuove tecnologie potessero risolvere le problematiche sociali facendosi funzionali alla sostituzione dei rapporti tra le persone. Il tentativo – alimentato dall’iniziale successo della cosiddetta sharing economy – ha prodotto però contraddizioni importanti, causando spesso l’affermazione di interessi economici monopolistici evidenti, per esempio, nell’economia di piattaforma, piuttosto che un autentico orientamento all’espressione di nuove forme di socialità.
Politiche sociali ed economiche sostenibili
In secondo luogo, come risultato alle crisi e ai fallimenti del mercato, si è assistito a un ritorno sulla scena dei poteri pubblici, nella convinzione che lo Stato potesse rimediare alle fratture della società, esclusivamente attraverso la propria capacità di investimento e l’utilizzo di ingenti risorse pubbliche. L’intervento delle istituzioni, tuttavia, non può contare oggi sulle stesse leve del passato, essendosi intanto notevolmente indebolito per effetto della carenza di nuove risorse, dell’implosione del welfare pubblico, delle liberalizzazioni effettuate in campo economico e di un diffuso, minore consenso culturale. Nel contesto di radicale cambiamento descritto, è ormai chiaro che serve il concorso di risorse, idee e valori che sono fuori dalla portata dei soli meccanismi governati dallo Stato e dal mercato e si pone l’esigenza di un nuovo modello di crescita orientato a politiche sociali ed economiche sostenibili.
Serve, cioè, una visione diversa dell’economia, che sappia promuovere la sostenibilità, conciliando attività economiche, sviluppo sociale e salvaguardia ambientale, anche in un’ottica di rispetto delle generazioni future. Un modello che aiuti anche a superare la disaffezione verso la vita pubblica e a rimotivare la fiducia nelle istituzioni democratiche. Tale esigenza trova conferma anche dal significativo mutamento di tendenza delle principali istituzioni sovranazionali o internazionali quali l’UE e l’OCSE, attraverso, per esempio, il riconoscimento dell’importanza e del nuovo ruolo dell’economia sociale, intesa come potenziale leva del cambiamento delle politiche economiche e sociali.
Sulla spinta del crescente bisogno di un cambio di paradigma economico, l’Unione Europea e la comunità internazionale hanno recentemente riconosciuto il valore di modelli imprenditoriali e organizzativi che promuovono uno sviluppo economico e industriale sostenibile, creano e mantengono posti di lavoro di qualità, contribuiscono all’inclusione sociale e nel mercato del lavoro dei gruppi svantaggiati e offrono pari opportunità a tutti favorendo la partecipazione attiva dei cittadini nelle società. E proprio su questo punto si gioca il ruolo che il movimento cooperativo, con la sua storia, i suoi principi e le sue dimensioni può svolgere.
La storica affermazione del soggetto cooperativo
Il movimento cooperativo e mutualistico si connota, infatti, fin dalle sue origini, come soggetto intermedio finalizzato a rappresentare i valori e le istanze dei ceti minacciati di esclusione, favorendone l’inclusione attraverso la produzione di beni e servizi in forma associata, auto-organizzata e mutualistica. Inoltre, essi si distinguono nella promozione della redistribuzione dei profitti in modo da creare valore sul territorio e per le comunità, consentendo una crescita economica equa e solidale. L’associazione autonoma di persone, poi, si sviluppa in processi democratici di gestione dell’impresa, aiutando il contesto sociale nel quale si colloca a stimolare la partecipazione civile attraverso l’inclusione.
Nella sua storia, anche quando non si è posto esplicitamente in antagonismo all’impresa capitalistica, il movimento cooperativo è stato infatti capace di proporre valori, visioni e proposte radicalmente alternativi, che ne hanno fatto un soggetto indispensabile e costitutivo del mondo dell’economia sociale e hanno anzi contribuito alla sua affermazione nel panorama nazionale e globale.
Di questo settore, quindi, il movimento cooperativo può e intende rappresentare il pilastro, interpretando un nuovo protagonismo e alleandosi con altri soggetti che condividono l’intenzione di contribuire al sogno di una società più giusta.
L’esigenza di un maggior protagonismo in tal senso, del resto, è risposta a una domanda che pur latente si è via via delineata in modo più esplicito. In questi anni, Legacoop ha potuto costantemente monitorare e analizzare gli andamenti crescenti di tali opinioni e il consolidarsi di segnali significativi, ormai certamente non più “deboli”. Analizzando l’adesione dell’opinione pubblica a valori di cooperazione, condivisione e mutualismo si rileva, per esempio, che nell’ultimo anno – il primo dopo la pandemia – tre italiani su quattro manifestano una crescente esigenza di mutualismo, soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione. La consapevolezza nei confronti di questo concetto è cresciuta ed esso è fatto coincidere con un’economia incentrata prima di tutto su un principio di “assistenza reciproca”.
Lo spazio di sviluppo di questo tipo di prassi, in questi anni, si è ampliato proprio per la loro propensione ad agire in una logica cooperativa e non antagonistica rispetto allo Stato e al mercato. E per la loro capacità di trasformare radicalmente i mercati concorrenziali, affermando la dignità del lavoro e la ripartizione equa tra i soci del valore prodotto.
Il ruolo rivitalizzato del privato sociale
In conclusione, quindi, proprio a sostegno sia del valore, sia della prassi della “sussidiarietà”, appare necessario riaffermare l’utilità e la consonanza con un sentimento crescente – anche nell’opinione pubblica –, di un nuovo ruolo del privato sociale non in concorrenza ma a sostegno di un più efficiente ruolo sia del pubblico che del mercato.
Dopo oltre due secoli di pratiche quotidiane e affermazione nei mercati competitivi, alla luce dell’attualità, il punto non è più capire se il mutualismo regga o meno alla prova della concorrenza nel mercato, ma costruire con forza tutte le condizioni – istituzionali, legislative, economiche, ma soprattutto culturali – che permettano la soddisfazione dell’emergente “domanda di mutualismo”, anche attraverso la forma cooperativa.
Per questo, Legacoop – nell’ambito del proprio 41° Congresso – ha posto l’attenzione soprattutto a un tema: il movimento cooperativo italiano, e Legacoop in particolare, sono adeguati a intercettare questa nuova domanda di mutualismo? Noi riteniamo che la risposta sia affermativa, che ci sia molto lavoro da fare in tal senso, ma pure che questa fase debba rivitalizzare tradizionali alleanze e promuoverne di nuove; a meno che non si intenda perdere un’altra occasione, come già si fece un quindicennio fa dopo la crisi del 2007.