Oggi i decisori pubblici, siano essi centrali o territoriali, si trovano a vivere una sfida assai impegnativa: come immaginare e governare il cambiamento. La domanda di un’alternativa è nelle cose. Urge. “È giunto il momento di tentare il salto dalla ‘diagnosi’ alla ‘terapia’, avanzando proposte meno timide e in grado di stimolare l’immaginazione di scenari realmente differenti”. Laddove un ripensamento della centralità dell’intermediazione diventa un’opportunità concreta di sviluppo sistemico. Eco-sistemico. Nell’epoca del presunto trionfo della disintermediazione s’avanza paradossalmente l’esigenza della novità comunitaria, appannaggio di quei soggetti fautori di una dimensione politico-economica “altra” rispetto alle ingerenze del neoliberismo e di uno statalismo invasivo e fuori sincrono con la realtà. Novità comunitaria che significa persone che si pensano e agiscono per legami, per relazioni.
Economia civile come “sguardo” per alimentare una visione trasformativa
A conclusione del 2022, nel consueto discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica ha scelto di aprire la riflessione sottolineando in particolare un tema, ovvero quello del cambiamento. Ad esso ha poi unito altri due temi chiave: futuro e innovazione. Queste le parole di Mattarella: “Pensare di rigettare il cambiamento, di rinunciare alla modernità, non è soltanto un errore: è anche un’illusione. Il cambiamento va guidato, l’innovazione va interpretata […]”. Se in un primo momento possono sembrare riferimenti scontati afferenti alla semplice retorica istituzionale, riflettendo con più attenzione e ripensandoli alla luce di quanto avvenuto negli ultimi anni, diventa invece chiaro quanto essi testimonino di un’urgenza sempre più crescente.
La principale difficoltà che tanto i governi, quanto le organizzazioni sul territorio, si trovano oggi ad affrontare è infatti la sfida di come immaginare e governare il cambiamento.
Diversi studiosi, ad esempio, hanno iniziato a utilizzare il concetto di “policrisi” per riassumere il tratto distintivo dei contesti societari odierni, ed è proprio all’interno di questo orizzonte di complessità e mutamenti che emerge una grande domanda di alternativa. È giunto il momento di tentare il salto dalla “diagnosi” alla “terapia”, avanzando proposte meno timide e in grado di stimolare l’immaginazione di scenari realmente differenti. In primis bisogna superare quella polarizzazione che ancora attanaglia le analisi di sistema e che riesce a concepire solo due direzioni: da un lato una definitiva presa di potere da parte delle istanze neoliberiste, guidate da un’idea di mercato pensato unicamente come spazio per la realizzazione di profitto e osservato da una prospettiva puramente individualistica; dall’altro, la riaffermazione del ruolo dello Stato, quale unico garante per gli interessi della collettività e unico attore in grado di domare le logiche produttive e di accumulazione della ricchezza.
Ecco perché diventa interessante, proprio in questo momento, rilanciare il tema del ruolo di intermediazione che può e deve svolgere l’economia civile nel nostro Paese. Il primo passo diventa dunque quello di portare a riconoscimento la rilevanza di quello che l’ex governatore della banca centrale indiana Raghuram Rajan ha chiamato il “terzo pilastro” (the Third Pillar), ovvero la dimensione comunitaria che oggi non coincide più con la semplice società civile, ma descrive una vera e propria terza dimensione politico-economica che apre alla possibilità di disegnare scenari per lo sviluppo, dove l’elemento dell’interesse pubblico e l’elemento della creazione di valore economico trovano convergenze del tutto inedite.
La centralità del “terzo pilastro” nei processi di sviluppo sostenibile
Ad essersi persa è infatti la consapevolezza che sono le comunità a reggere il funzionamento dello Stato e ad alimentare il mercato, non il contrario. Di conseguenza, l’ecosistema dell’economia civile si trova tra le mani un’importante occasione, e cioè quella di agire un ruolo di intermediazione nei confronti delle tradizionali istituzioni afferenti alle due polarità sopra descritte, per avanzare la concreta proposta di costruire un nuovo paradigma per lo sviluppo, a partire dalle istanze valoriali e dalle esperienze realizzate sui territori di cui essa è portatrice.
Anche a livello internazionale, nel 2022 si sono registrati alcuni importanti eventi che dimostrano un lento ma effettivo cambio di prospettiva da questo punto di vista. Tra i tanti, tre in particolare meritano di essere almeno citati: il primo è la pubblicazione del Social Economy Action Plan1 promosso dalla Commissione Europea, il secondo e il terzo sono frutto di un lavoro congiunto dell’International Labour Organisation (ILO) e dell’Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) che ha portato all’approvazione della risoluzione in merito a Decent work and the social and solidarity economy2 e alla Recommendation of the Council on the Social and Solidarity Economy and Social Innovation3.
Questi documenti possiedono non soltanto una valenza simbolica, ma acquistano un’autentica rilevanza segnaletica, indicando l’avvio di un processo che in primis è culturale e pone le basi, anche a livello internazionale, per guardare al cambiamento da una diversa prospettiva.
L’Italia, da questo punto di vista, possiede poi un ulteriore vantaggio, che si traduce anche in una maggiore responsabilità, è cioè quello di aver costruito un ricchissimo ecosistema attorno al paradigma dell’economia civile, caratterizzato da un’ampia biodiversità in termini di organizzazione, attori coinvolti, forme di creazione del valore e soluzioni inventate per rispondere ai bisogni della collettività. Se si adotta il punto di vista territoriale, lì appare già chiara la direzione da intraprendere, e cioè quella di una convergenza di tutti i soggetti (pubblici, privati, di Terzo settore e civici) verso la costruzione di modelli di sviluppo che prendono le mosse dal riconoscimento di una sempre più marcata interconnessione reciproca e dal fatto che, per rispondere a sfide sistemiche, è necessario mettere in campo risposte sistemiche. Chi più degli attori dell’economia civile è rivolto, per propria natura, a ragionare in un’ottica di collaborazione allargata tra più attori, secondo i principi della co-progettazione e co-creazione? Chi più di loro ha esperienza nella formulazione di attività in grado di tenere insieme la necessità della sostenibilità economica con le istanze legate alla sostenibilità di carattere sociale, ambientale e antropologico?
Ecco allora a ciò a cui deve ambire l’economia civile, non più a una funzione meramente compensativa nei confronti dei fallimenti di Stato e mercato, ma agire un ruolo trasformativo che intenda la funzione di intermediazione certamente in termini di rappresentanza di determinate istanze comunitarie e, ancora di più, in termini di istituzione di un nuovo patto sociale che rinnovi gli assunti su cui è venuta crescendo la nostra democrazia dal Dopoguerra a oggi. Il primo piano su cui agire è dunque, senza ombra di dubbio, quello politico di livello nazionale, dove ancora lo scenario qui velocemente abbozzato non viene visto, mentre si vuole sottolineare ancora una volta come a livello locale la consapevolezza è assai diversa.
Eppure, pensare di agire unicamente su questo fronte sarebbe riduttivo, e vi sono almeno altri due piani verso cui agire la propria funzione di intermediazione intesa in termini trasformativi: il primo ha a che fare con le nuove generazioni e i giovani, i quali non trovano interlocutori con cui confrontarsi e nemmeno canali o spazi per esprimere le proprie forme di partecipazione. Senza un coinvolgimento sistematico di costoro, nessuna idea di cambiamento potrà mai prendere realmente piede.
Il secondo riguarda un aspetto ancora troppo sottovalutato dagli stessi soggetti afferenti al mondo dell’economia civile, e cioè il promuovere un’azione culturale che parli al di fuori dei soli addetti ai lavori e attivi conversazioni con tutti gli altri soggetti, anche apparentemente lontani. Se non si riesce a entrare nel dibattito pubblico, ad accrescere la presenza nelle università, a invertire certe narrazioni mainstream del tutto fuorvianti, l’impatto di quanto fatto quotidianamente per le comunità e la possibilità di aprire un ragionamento corale per una trasformazione radicale dei paradigmi di sviluppo verranno drasticamente ridotte.
Il successo delle politiche del “dopo”, di questa acclamata “ri-partenza”, passerà infatti da un’azione inclusiva, collaborativa, una nuova stagione di partecipazione che stimoli la creazione di nuovi contesti di conversazione economico-sociali. Allora è vero che, per contrastare alla radice le povertà educative, servono “comunità educanti” ossia reti fra scuola, istituzioni, Terzo settore e famiglie; per rilanciare lo sviluppo servono nuovi ecosistemi, filiere, patti. Un processo, questo, che necessita di una forte e diversa intermediazione, di nuove logiche.
Sembra un paradosso, ma proprio nella società della disintermediazione non è mai stata così forte la domanda di intermediari, ossia istituzioni e reti capaci di legare l’intelligenza collettiva alle policy, di connettere la giustizia sociale dentro le politiche, di accompagnare gli irreversibili processi d’innovazione digitale, di potenziare economie di luogo e di redistribuire equamente il valore aggiunto.
Queste nuove reti, questo diverso modo di “fare territorio” e di articolare il rapporto tra istanze individuali e istanze collettive, sembrano poi – in molti casi – condividere un approccio comune che potremmo definire di “neomutualismo”4, cioè il mettere in campo risposte ai cambiamenti in corso che non si accontentano solo di generare valore sociale e valorizzare un apporto in termini di beni, servizi, lavoro dentro una dinamica collaborativa, ma che generano vere e proprie nuove economie sostenibili e condivise dall’alto valore comunitario, attraverso forme ibride e digitali.
Politica e sviluppo umano
Ciò che serve è una prospettiva sussidiaria capace di infrastrutturare questa spinta dal basso, rendendola parte di una architettura di luoghi e istituzioni che, senza chiedere il permesso, sono in grado di perseguire l’interesse individuale congiuntamente a quello comunitario. Una prospettiva politica capace di ridefinire in profondità la parola consenso, troppo spesso inteso come vago appeal o percezione positiva certificata dai sondaggi.
Occorre agire su questo riduzionismo, che ha come effetto la proliferazione di scelte che guardano solo all’interesse del presente, alimentando quella “distorsione dello sguardo” che va sotto il nome di corto-termismo.
È necessario restituire alla parola consenso il suo significato autentico, intendendolo come con-senso, ossia “tensione alla condivisione di significati”. Le politiche per tornare a impattare positivamente sulla vita delle persone, devono misurarsi con la “condivisione” e con la “generazione di significati”. Un processo che necessita di tempo, di luoghi e di istituzioni capaci di catalizzare e intermediare aspirazioni e bisogni di territori spesso vulnerabili, non per mancanza di risorse, ma per mancanza di riconoscimento. Ecco perché, per ridare spessore e dignità alla politica – e nutrirla di idee – è necessario includere le comunità, coinvolgendo il mondo della società civile in un processo di amministrazione condivisa e di co-produzione.
La politica (intesa come dimensione partitica) da sola non è in grado di costruire ricette di sviluppo integrale. In altre parole, se la dimensione del consenso politico si legittima e cresce nella misura in cui si condividono significati, è evidente la rilevanza di tutti quei processi e soggetti capaci di mettere “la persona al centro”.
La persona, nella sua irriducibilità e diversità, diversamente dall’individuo, può “essere al centro” solo se è in grado di esprimersi e di “poter scegliere” una prospettiva di realizzazione integrale. Il mainstream economico e il paternalismo politico troppe volte hanno preferito conversare con “individui” (portatori di bisogni o di istanze di consumo), piuttosto che con “persone” che aspirano alla felicità. Profondamente diverso è domandare a un cittadino “di cosa hai bisogno?”, dal chiedergli “cos’è per te una buona vita?”. Due domande che, messe all’origine delle politiche sociali (ma questa cosa si potrebbe tranquillamente estendere al lavoro, all’innovazione, allo sviluppo), disegnano due percorsi profondamente diversi: uno assistenziale e l’altro capacitante. In altri termini potremmo dire che misurarsi con la persona implica il prendersi il rischio di una relazione (motivo che amplifica il valore dei corpi intermedi) che si apra non solo ai bisogni ma anche alle aspirazioni di cui una persona è portatrice.
Misurarsi con la persona implica il misurarsi con l’umano e perciò le politiche che si propongono di mettere “la persona al centro”, alla prova dei fatti vanno misurate nella loro capacità di potenziare la relazionalità, l’iniziativa, la solidarietà, i luoghi in cui la persona è protagonista. Per rigenerarsi, la politica è chiamata a includere quelle realtà vive e intraprendenti che mettono il senso al centro della propria azione, valorizzando, in maniera non strumentale, le risorse tacite e le potenzialità inespresse presenti in questo Paese.
Serve un’azione maieutica e sussidiaria, guidata da una concreta visione di bene comune e non di bene totale. La differenza non è di poco conto, e quando si parla di politica assume una rilevanza enorme. Il bene totale, infatti, è la mera “somma” di beni individuali, il bene comune è, invece, il “prodotto” degli stessi; un passaggio sostanziale, poiché quella del bene comune è una logica che non ammette sostituibilità, non si può cioè sacrificare il bene di qualcuno per migliorare il bene di qualcun altro, e ciò per la fondamentale ragione che quel qualcuno ha un valore unico e irripetibile. Una prospettiva, questa, che pone al centro del dibattito il “come” si vogliono realizzare i programmi (cosa di cui non si parla mai) e il necessario passaggio dal “fare per” al “fare con”. La radicalità, infatti, non si persegue in solitaria, alimentando dicotomie (noi e loro, le istituzioni e i cittadini), ma attraverso un metodo cooperativo che, assumendo la complessità e l’interdipendenza come fattori strutturali, metta in campo alleanze di scopo intorno a sfide epocali come quelle ambientali, educative, lavorative e sociali.
Le politiche di qualità sono quelle che valorizzano la domanda che, dal basso, si auto-organizza, il welfare di qualità è quello che include il beneficiario, l’educazione di qualità è quella che si misura con la libertà dello studente, l’economia di qualità è quella che si nutre della biodiversità dei suoi attori. Passare dalla diagnosi alla terapia implica un diverso rapporto con la società, non solo “oggetto” dell’azione politica ma “soggetto” che la legittima diventando parte del cambiamento.
Dopo questi quasi tre anni di pandemia avremmo dovuto firmare tutti una “dichiarazione di interdipendenza” certificando così, sulla base dell’esperienza vissuta, il “valore di legame” che tiene insieme e innova una società. Le decisioni radicali che ci attendono, non devono mai sacrificare i legami ma devono metterli al centro delle trasformazioni, per renderle più sostenibili e umane, rilanciando nuovi corpi intermedi. Ciò che farà avanzare questo Paese, come la storia ci insegna, sarà chi saprà attivare fiducia, desiderio e intraprendenza. Un orizzonte da sempre presente nel codice sorgente dell’economia civile e che oggi abbiamo l’onere e l’onore di rilanciare.