In Italia un milione e quattrocentomila bambini vivono in regime di povertà assoluta. In pratica, più degli abitanti di Milano. Un dato drammatico, assai spesso dimenticato. Eppure, occuparsi delle ragioni dell’infanzia trascurata dovrebbe essere in cima ai pensieri dei decisori pubblici. È una questione di responsabilità; è la vera sfida per il rilancio del sistema Paese. Perché ancora oggi “si nota un evidente disallineamento delle politiche pubbliche rispetto a quanto invece il mondo del non profit e del privato sociale riesce a fare ormai da più di un decennio, con un’attenzione e interventi mirati in maniera specifica al contrasto della povertà, materiale ed educativa, dei minori”.
Le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre relazioni, si basano sul linguaggio che utilizziamo ma, molte volte, rischia di perdere corpo e realtà: per questo è necessario ridare senso profondo alle parole e collegarle in maniera concreta a ciò che significano e rappresentano.
Quando diciamo che in Italia sono in situazione di povertà assoluta circa 5,6 milioni di persone, e fra queste un milione e quattrocentomila bambini, stiamo affermando che un numero di bambini superiore a tutti gli abitanti di Milano non può permettersi quotidianamente lo stretto indispensabile per vivere in maniera dignitosa: cibo, istruzione, cure sanitarie, cultura, abbigliamento, sport, informazione. Questo nascondono le parole e i numeri. E ci devono preoccupare ancora di più perché, mentre gli indicatori generali di povertà sono registrati stabili dall’Istat nel 2021, quelli relativi ai minori invece continuano a crescere, nello specifico dello 0,7%, indicando chiaramente come la forbice generazionale vada allargandosi e come, ancora una volta, a essere colpiti più direttamente sono i bambini e le bambine.
Bambini: segno “diagnostico”
Per queste ragioni l’infanzia, intesa qui in maniera aggregata fino al raggiungimento della maggiore età, merita di essere considerato un target autonomo, un soggetto collettivo o blocco sociale, del quale prendersi cura in maniera specifica dal punto di vista politico, sociale e di analisi. Attitudine, questa, che, in realtà, raramente è dato reperire, con i risultati pericolosi che si osservano. L’infanzia, infatti, rischia di essere intesa o come un problema di quadratura familiare o come un “di cui” degli interventi a favore delle donne e dei genitori.
Affrontare l’emergenza infanzia, evidente dai numeri sopracitati, significa invece individuare il target specifico, sviluppare analisi dedicate e produrre politiche trasformative non esclusivamente emergenziali per migliorare la situazione dei bambini in Italia. Pensare all’infanzia intervenendo sui genitori lascia decisamente fuori fuoco la questione; e in questo si nota un evidente disallineamento delle politiche pubbliche rispetto a quanto, invece, il mondo del non profit e del privato sociale riesce a fare ormai da più di un decennio con attenzione e interventi mirati in maniera specifica al contrasto della povertà, materiale ed educativa, dei minori.
Le parole di Papa Francesco, pronunciate durante la Santa Messa nella piazza della Mangiatoia a Betlemme il 25 dicembre 2014 sono, al riguardo, di una spaventosa attualità: “I bambini sono un segno. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno ‘diagnostico’ per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo intero”. E lo stato di salute per i bambini e le bambine oggi in Italia è, sempre con grande attenzione al valore delle parole, drammatico.
Si deve quindi ripartire proprio da loro: dalle bambine e dai bambini, dai ragazzi e dalle ragazze e dalle loro famiglie. Perché il loro benessere, la salute, i diritti, l’educazione di qualità sono per noi la sfida più grande da vincere in questo tempo, e rappresentano la sfida di rilancio per l’intero Paese.
Costruire oggi un mondo a misura di bambino significa costruire un futuro sicuro, protetto, ricco di opportunità, che ne tuteli i diritti. Ripartire dall’infanzia significa cambiare prospettiva sul mondo e sulla vita, significa leggere i processi e la società con una prospettiva che consideri bisogni, diritti e opportunità dei bambini, andando oltre la sensibilizzazione emergenziale che muove a compassione passeggera quando accadono tragedie di gruppo o individuali che coinvolgono direttamente i bambini. Questa tragedia si perpetua quotidianamente su un milione e quattrocentomila bambini che non possono accedere a pasti sani e con adeguato contenuto nutritivo, non hanno strumenti materiali e di supporto per apprendere, non praticano sport né attività formative, vivono in case piccole e malsane, non beneficiano di cure sanitarie e hanno genitori indigenti o inoccupati.
La drammaticità di questa situazione non esplode sotto forma di bomba sociale solo perché, come aggravante, i bambini non hanno voce, non votano, non scendono in piazza, non fanno lobby.
Ma ignorare questa emergenza ben documentata, per noi adulti coinvolti nella gestione della cosa pubblica a vario titolo, è diventato ormai eticamente e politicamente inaccettabile.
Per questo si deve ripartire dall’infanzia, per ricostruire il Paese e per costruire un futuro che sia degno di questo nome, e che aspiri a essere giusto, sostenibile e inclusivo.
Del resto, di quale ascensore sociale parliamo se questo parte dal diciottesimo piano e lascia sistematicamente a piedi tutti coloro che si trovano ai piani più bassi?
Lotta contro le ingiustizie
Non solo occuparsi, ma intervenire sull’infanzia povera e a rischio comporta uno scarto concettuale e sanamente politico importante, che riguarda il passaggio dal contrasto delle disuguaglianze alla lotta contro le ingiustizie. Non si tratta di una questione meramente lessicale: una situazione di povertà educativa produce minori opportunità di sviluppo e successo, di salute e felicità per i bambini che ne sono vittime. Produce sostanzialmente ingiustizie sociali che colpiscono in maniera indiscriminata i più piccoli, per una serie di ragioni e concause che nulla hanno a che fare con la volontà o le scelte del minore, ma che ricadono sulle loro teste in maniera fatalistica. Questo risultato è allarmante e pericoloso tanto per il singolo bambino, che si trova escluso dal progresso sociale e vede limitate le proprie opportunità, quanto per l’intera collettività che si sviluppa perdendo porzioni via via più ampie del proprio corpo, che rimangono prima marginalizzate e poi escluse, riproducendo in maniera inevitabile queste ingiustizie a cascata sulle generazioni future fino a una radicale polarizzazione fra ammessi ed esclusi, partendo da una base assolutamente casuale che riguarda il luogo di nascita e la famiglia di appartenenza.
In un contesto sociale così a rischio, nel quale l’analisi della realtà complessa sembra essere prerogativa di pochi a beneficio dell’ipersemplificazione di molti, la mancanza di attenzione e cura per l’infanzia creano dei vuoti enormi che tendono a essere riempiti in maniera pericolosa.
Prendersi cura dell’infanzia, per la collettività, significa offrire un welfare adeguato. Quando questo manca, il rischio che lo spazio vacante venga occupato da quello che non esito a definire un “welfare criminale” è tutt’altro che remoto: criminalità e mafie lucrano sulle mancanze colpevoli dello Stato, dal punto di vista economico guadagnando e dal punto di vista sociale affiliando. La responsabilità di non lasciare ulteriormente scoperte l’infanzia a rischio e le famiglie è centrale per il futuro: gli esempi di welfare criminale in periodo pandemico sono evidenti ed hanno sfasato la percezione di prossimità e di presa in carico dello Stato a favore della criminalità in molte zone del Paese.
Dalla cura individuale alla cura di comunità
Anche per contrastare questa deriva, abbiamo una grande responsabilità, individuale e collettiva: rimettere al centro del discorso pubblico, dell’agire politico, della responsabilità collettiva il tema della cura dell’infanzia. Questa, però, non può più essere intesa in maniera conservatrice come accudimento o assistenza, ma necessita del coinvolgimento di tutti. Siamo chiamati a porre al centro i diritti e i bisogni dei bambini e delle bambine proponendo alle famiglie, alle istituzioni, al volontariato, alla scuola, agli enti del Terzo settore un nuovo patto sociale e culturale per costruire insieme le risposte migliori nel più breve tempo possibile.
Un nuovo patto sociale che raccolga tutte le forze, nessuna esclusa, con l’obiettivo di passare dalla cura individuale alla cura di comunità perché i bambini sono un bene comune e sulla capacità di garantire il loro sviluppo si misura il livello di progresso di una società.
Presa in cura di comunità che significa uno Stato capace di dialogare con spirito sussidiario con comuni e regioni, affinché questi siano in grado di intercettare in maniera precoce e multidimensionale tutti i bisogni e i fattori di rischio che le famiglie manifestano già prima della nascita, coordinando e valorizzando grazie a una regia pubblica gli interventi del Terzo settore e del volontariato che sono capillari, di qualità e preziosi, coinvolgendo nella progettazione degli interventi le comunità territoriali e i cittadini.
Questa forma di cura collettiva è in grado di aggregare le migliori forze, contemperare innovazione ed emergenza, valorizzare la presenza di prossimità e la partecipazione attiva, risparmiare risorse. E produce una forma di potenziamento delle comunità locali, vero perno della trasformazione che, basandosi sulla voglia di generare bene per gli altri, di confrontarsi e attivarsi per mettere in atto le migliori soluzioni possibili, di farsi coinvolgere, di attuare strategie di coesione sociale e territoriale, portano alla ricucitura di quella rete sociale sussidiaria capace di proteggere e valorizzare tutti, a partire dai più piccoli e indifesi.