Urgente avviare un serio percorso di riforma. Fondato su una profonda riflessione sui valori ideali e non su contrapposizioni strumentali e sterili. Utopismo e ideologia sono i due vizi capitali da cui liberarsi
Come risulta dalla lettura dei testi fondativi, ma ancor più perché scolpito nella pietra di quel deposito di verità non discutibili e non negoziabili che è diventato il web (si potrebbe dire: non è vero quel che è vero, ma è vero – purtroppo – quel che dice il web), il servizio sanitario del nostro paese è stato costruito attorno a tre principi fondamentali: “Il servizio sanitario nazionale è un sistema di strutture e servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini, in condizioni di uguaglianza, l’accesso universale all’erogazione equa delle prestazioni sanitarie, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione” (così nel sito web del Ministero della salute). Quindi:
- Universalità: estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione;
- Uguaglianza: i cittadini devono accedere alle prestazioni del Ssn senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche; salvo gli esenti può essere richiesto il pagamento di un ticket;
- Equità: a tutti i cittadini deve essere garantita parità di accesso in rapporto a uguali bisogni di salute.
Ammesso e non concesso che questi tre principi abbiano avuto, almeno all’inizio e/o nel corso di parte della vita del Ssn, qualche traduzione pratica e non abbiano solo descritto un immaginario paese delle meraviglie, è possibile oggi, 45 anni dopo la istituzione del Ssn, fare un check dello stato di salute di questi tre principi? E’ la domanda cui si intende rispondere, dati alla mano (almeno alcuni), con questo contributo.
IL PRINCIPIO DI UNIVERSALITÀ
Cominciamo dall’universalità (o universalismo), che con pochissime parole introduce due questioni: A) quali prestazioni; B) quale popolazione. Affrontiamo prima il “lato B” perché più facile e più breve.
- Quale popolazione
La popolazione interessata dal principio universalista è tutta la popolazione italiana (senza entrare in dettagli particolari, individualmente rilevanti ma limitati dal punto di vista pratico), il che ha una immediata conseguenza sul versante erogativo perché non pone vincoli rispetto al luogo di cura: ciò significa che le prestazioni di cui al successivo “lato A” possono essere erogate in qualsiasi regione indipendentemente dalla regione italiana che ha in carico il cittadino. E’ da questo principio che trae origine tutto il tema della mobilità sanitaria e della necessità di stabilire regole per la compensazione economica tra regioni delle prestazioni erogate.
Nord attrattivo, fuga dal Sud:
mobilità sanitaria irreversibile?
Poiché tale compensazione avviene con uno spostamento fisico di risorse economiche tra la regione che ha in carico un cittadino e la regione che ha erogato la prestazione, è comprensibile il tentativo delle regioni debitrici di introdurre regole per limitare l’esborso economico, regole che ovviamente potrebbero incidere in maniera negativa sulla applicazione del principio di universalità. I tentativi in questa direzione da parte delle regioni più esposte sono continui, gli esempi sono diversi (valgano per tutti i tetti economici alla erogazione delle prestazioni), ma ad oggi si può dire che l’effetto di limitazione dell’universalismo è presente ma in termini quantitativi la sua misura è piuttosto ridotta.
- Quali prestazioni
Del tutto diversa si presenta invece la situazione con riferimento al “lato A”, cioè le prestazioni oggetto del principio universalista. Su questo punto il nostro paese ha fatto una scelta precisa che prende il nome di Livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè l’elenco di prestazioni che sono sottoposte al principio di universalità. La gran parte delle attività sanitarie sono finite dentro i Lea ma alcune esclusioni (come gran parte delle prestazioni odontoiatriche) meriterebbero di essere discusse.
Il fondo sanitario nazionale
e il suo riparto tra le regioni
I LEA E LA SPESA "DI TASCA PROPRIA"
Se la definizione specifica dei Lea è solo la prima sfida del principio universalista, ben più grave è invece la sfida che pone l’erogazione pratica dei Lea. Da tempo le regioni e le autorità centrali si sono date una metodologia per misurare la capacità dei territori di erogare i Lea e, pur essendosi questa metodologia modificata nel corso degli anni, da tale percorso emerge un risultato pressoché costante: ci sono alcune regioni, quasi sempre le stesse, che non raggiungono la sufficienza nella erogazione dei Lea, invalidando di fatto l’esercizio reale del principio di universalità. Ma c’è un secondo aspetto pratico che mette in discussione l’universalismo. Ce ne dà conto la Ragioneria Generale dello Stato che nel suo rapporto n.10 del 2023 sul monitoraggio della spesa sanitaria segnala che i cittadini italiani nel 2022 hanno speso circa 40 miliardi di euro di tasca propria per acquisire al di fuori del Ssn prestazioni che in gran parte dovrebbero essere contenute nei Lea. Letti dal punto di vista della spesa pro-capite i 40 mld totali dicono che ogni cittadino italiano in media ha speso circa 680 euro, con valori che vanno dai 350 della Basilicata e 380 della Calabria agli 850 della Emilia Romagna e 940 della Lombardia.
Trattandosi di valori medi e considerando la quantità di persone che non avranno avuto bisogno di prestazioni sanitarie si può facilmente capire a che livelli di spesa di tasca propria si può arrivare per le persone più fragili e maggiormente bisognose di interventi. Non solo: questa spesa di tasca propria negli ultimi 6 anni è cresciuta di più del 40% passando dai circa 28 mld del 2016 ai circa 40 mld del 2022. Ecco perché alcuni degli osservatori più attenti del Ssn e più realisti stanno cominciando a parlare di universalismo “selettivo”, cioè della possibilità di escludere dai Lea (e quindi dalla pretesa universalista) quelle prestazioni per le quali già oggi vi è da parte di una elevata quota di cittadini la disponibilità a pagare la prestazione: naturalmente si tratterà di trovare adeguati criteri per questa eventuale selezione.
IL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA
Passiamo al secondo principio, l’uguaglianza, cominciando col prendere atto che alcuni aspetti della mancata adesione al principio di universalità hanno una evidente ricaduta anche in termini di uguaglianza e pertanto non vengono ripresi. Ci sono però almeno due aspetti specifici che devono essere esaminati con riferimento al principio di uguaglianza: il tema dei tempi di attesa e quello dei ticket.
- Tempi di attesa
La lunghezza dei tempi di attesa di gran parte delle prestazioni sanitarie, al di là dei vari tentativi messi in pista in diverse regioni per far fronte a quella che è diventata una piaga a cui nessuna regione sfugge, è probabilmente la questione più sentita dai cittadini che hanno un bisogno sanitario. In che senso la lunghezza dei tempi di attesa influenza il principio di uguaglianza? Perché introduce un doppio binario: chi ha le risorse può accedere a pagamento alle attività intramoenia (che hanno tempi di attesa molto ridotti) oppure può uscire dal Ssn (i 40 mld di spesa di cui in precedenza) con tempi di attesa quasi azzerati, chi non ha le risorse può solo aspettare oppure rinunciare alla prestazione. Si crea così una evidente disuguaglianza di accesso condizionata soprattutto dalle risorse disponibili (non solo economiche ma anche culturali, di conoscenza, di offerta sanitaria, …).
- La politica dei ticket
Sicuramente di minore rilevanza ma concettualmente significativo è anche l’effetto che ha sul principio di uguaglianza la politica dei ticket. Sia la politica della compartecipazione in sé, che attraverso il meccanismo delle esenzioni può mitigare o accentuare l’eventuale insorgenza di disuguaglianze, sia soprattutto il modello con cui alcune regioni hanno dovuto intervenire sulla politica di compartecipazione, in particolare aumentando i ticket, per far fronte ai deficit di spesa di queste regioni oppure hanno voluto intervenire abbassando (o annullando) i ticket per favorire, ad esempio, l’accesso ai farmaci. La conseguenza in termini di disuguaglianze è molto semplice: alla stessa prestazione erogata in regioni diverse il cittadino compartecipa in maniera quantitativamente diversa, venendosi così a creare disparità tra regioni nell’accesso alle prestazioni sanitarie di specialistica ambulatoriale (non ai ricoveri, però, che non sono soggetti a ticket) e nell’acquisto di farmaci.
IL PRINCIPIO DI EQUITÀ
- Condizione socio-econmica del paziente
Rimane da considerare il terzo principio, l’equità. E’ noto dalla letteratura di merito che uno dei fattori di iniquità di maggiore rilievo è la condizione sociale del cittadino bisognoso di servizi e prestazioni sanitarie: sono sempre più frequenti le segnalazioni di effetti avversi causati dalla bassa condizione sociale, dallo scarso livello di istruzione, dal minore accesso alle informazioni, e così via, che caratterizzano fette sempre più ampie di popolazione a corto di adeguate risorse e che porta a livelli più elevati di mortalità, al minore o ritardato accesso alle cure e ad esiti più sfavorevoli delle stesse, ad abitudini o condizioni di vita più nocive in termini di salute ed alla scarsa adesione alle attività programmate di prevenzione (screening, ad esempio, vaccinazioni, …).
- Diverso esito delle cure
Al di là delle azioni che si possono implementare per ridurre (o eliminare) le cause degli elementi di iniquità appena ricordati che traggono origine prevalentemente al di fuori del servizio sanitario (educazione, ambiente di vita e di lavoro, situazione economica, …), sono qui da considerare le cause di iniquità che nascono invece all’interno del Ssn e che non sono necessariamente legate alla condizione socio-economica del cittadino bisognoso. L’esempio più eclatante, ma anche meno considerato, ha a che fare con il diverso esito delle cure che si riscontra nei diversi ospedali del nostro territorio.
Il Programma nazionale esiti (Pne) documenta continuamente, attraverso l’uso di centinaia di indicatori, come l’esito delle cure sia fortemente condizionato dalle strutture (in particolare ospedaliere) nelle quali vengono curate le patologie o effettuati gli interventi chirurgici. Un paio di esempi possono aiutare a chiarire il problema.
Frattura del collo del femore in pazienti con più di 65 anni (Figura 1). Le indicazioni (DM 70/2015) suggeriscono che un intervento tempestivo debba avvenire entro 48 ore e che un ospedale adeguato (accettabile) dovrebbe effettuare il 60% degli interventi in maniera tempestiva (cioè entro 48 ore). L’ultima valutazione del Pne riguarda i ricoveri del 2022 e ci dice che solo 5 regioni rispettano la soglia del 60% mentre tutte le altre stanno al di sotto, con alcune che arrivano solo al 30% o addirittura al 20% (e si sta parlando di medie regionali e non di singole strutture).
Figura 1. Frattura del collo del femore in pazienti di età ≥65 anni: proporzione di interventi chirurgici effettuati entro 48 ore, per Regione/P.A. Italia, anno 2022. Fonte: Programma nazionale esiti, Agenas, Edizione 2023
Ricoveri per scompenso cardiaco. In questo caso l’indicatore è un segnale delle cosiddette ospedalizzazioni evitabili, in quanto si ritiene che una corretta gestione clinica dei pazienti a livello territoriale dovrebbe permettere di ridurre la progressione della patologia e di evitare il ricorso alla ospedalizzazione. Per lo scompenso cardiaco non c’è un valore suggerito come riferimento per il tasso di ricovero (mentre c’era per la frattura del collo del femore), ma i dati regionali (Figura 2) indicano chiaramente l’eterogeneità che caratterizza le diverse regioni, eterogeneità che significa maggiore o minore iniquità quanto a progressione della malattia ed a ricoveri evitabili.
Figura 2. Scompenso cardiaco: tassi di ospedalizzazione per Regione/P.A. Italia, anno 2022. Fonte: Programma nazionale esiti, Agenas, Edizione 2023
E di questi esempi i rapporti del Pne proposti in questi anni sono pieni e non si limitano ai confronti tra le medie regionali ma arrivano alle singole strutture, evidenziando una variabilità ancora maggiore (come già si intuisce dai due grafici proposti). Nel caso ne dovessimo avere bisogno non credo che saremmo contenti di essere ricoverati in un ospedale che avesse queste basse performance.
- Iniquità da pandemia
Eccezionale da segnalare in tema di iniquità, anche perché caso estremo ed atipico per il nostro paese, è quanto è successo in alcuni territori (e soprattutto in alcune strutture ospedaliere) nei primissimi momenti della recente pandemia da Sars-CoV-2, dove a causa della mancanza di strumenti di cura (respiratori nel caso specifico) e letti di terapia intensiva è stata documentata la selezione di pazienti da curare ovvero destinate semplicemente ad un “accompagnamento compassionevole” alla morte.
Tutto ciò premesso, non abbiamo dubbi che la costituzione del nostro servizio sanitario abbia trovato nei principi di universalità, uguaglianza, ed equità una guida fondativa fondamentale. Parimenti, però, non abbiamo dubbi che dopo 45 anni di vita il Ssn non ha più quei tre principi come faro. Ha senso continuare a sostenere che essi debbano rimanere un riferimento ideale, un desiderio più utopico che reale, forse un obiettivo da raggiungere ma per il quale non si ha la capacità o la volontà di applicarsi oppure chi li deve applicare non è messo nelle condizioni di farlo (si vedano gli esempi proposti sul covid, sul finanziamento, sulla spesa di tasca propria, …)? Sapendo che i principi fondamentali che costituiscono il Ssn sono così disattesi non è forse il momento di interrogarsi meglio su cosa deve essere realisticamente, e non utopisticamente (o ideologicamente), fondato il Ssn dei prossimi anni?
Solo un serio percorso di riforma sostenuto da una profonda riflessione sui principi può fornire una risposta fondata, possibilmente lontana, da una parte, dalle aprioristiche contrapposizioni ideologiche che sembrano caratterizzare l’attuale dibattito sanitario e vicina, dall’altra, alle esigenze pratiche dei cittadini, soprattutto i più fragili ed i più bisognosi di assistenza e servizi sanitari e socio-sanitari.