Calo delle nascite: si riduce la domanda di prestazioni pediatriche e ginecologiche. Boom degli anziani: multimorbilità e cronicità richiedono una presa in carico globale in ottica socio-sanitaria
A metà del secolo scorso, era da poco (6 anni) finita la seconda guerra mondiale, la distribuzione per età della popolazione italiana aveva quella classica forma geometrica che i demografi chiamavano “la piramide dell’età”, espressione che viene ancora utilizzata ma che non rappresenta più la nostra popolazione, che nel frattempo ha subito cambiamenti demografici rilevanti nella struttura per età, che non ha più la forma geometrica della piramide e che assomiglia piuttosto ad un pumo pugliese (bocciolo del fiore di acanto, simbolo di prosperità e di fecondità, ma anche di castità, immortalità e resurrezione), con una progressiva riduzione della base (nati) ed il conseguente emergere di una evidente pancia (classi intermedie).
La figura 1 presenta l’evoluzione che ha avuto in quasi 75 anni la distribuzione per età della nostra popolazione, sotto la spinta da una parte prima del baby boom che ha seguito il termine del conflitto mondiale e poi la successiva contrazione delle nascite, e dall’altra dell’allungamento costante della vita media. Non è cambiata invece la composizione di genere, con i maschi che sia allora che adesso risultano prevalenti nelle classi di età inferiori e le donne che, viceversa, prevalgono in quelle superiori.
Figura 1. Distribuzione percentuale per età della popolazione residente al 1 gennaio degli anni indicati. Italia, popolazione totale. Fonte Istat.
Già questo dice molto su come le variazioni demografiche possono influenzare la domanda di servizi e prestazioni del settore sanitario, ma la recente pubblicazione di Istat “Previsioni della popolazione residente e delle famiglie. Base 1/1/2023” del 24 luglio 2024 fornisce molte e ulteriori utili informazioni per completare il ragionamento e trarne le dovute conseguenze.
Dal secondo dopoguerra (nel 1951 eravamo 47,5 milioni) in poi la popolazione complessiva del nostro paese è cresciuta fino a raggiungere il valore di 60,3 milioni nel 2014, ma da questo picco è iniziata una discesa (59 mln nel 2024) che secondo le stime Istat ci porterà a 58,6 mln nel 2030, a 54,8 mln nel 2050, per arrivare a 46,1 mln nel 2080. Questa è la notizia che ha preoccupato tutti i media (non saprei dire se a torto o a ragione) ma non è quella che rileva di più dal punto di vista sanitario: ben più determinanti sono altri cambiamenti demografici in corso.
LE NASCITE
Terminato a metà degli anni ’60 del secolo scorso il boom delle nascite, che nel 1964 hanno superato un milione, con periodi di forte calo (1965-1987, 2009-2024) o di sostanziale stabilità (1988-2008) oggi siamo arrivati attorno a 400 mila nati ogni anno, e sebbene l’Istat prevede nei prossimi anni un aumento della fecondità non ne conseguirà un parallelo aumento delle nascite perché contemporaneamente si osserverà un progressivo calo delle donne in età fertile (15-49 anni), che dagli 11,6 milioni del 2023 diventeranno 9,2 milioni nel 2050 e 7,7 mln nel 2080.
In dieci anni meno ricoveri
e più assistenza territoriale
Registriamo quindi un primo sostanziale cambiamento per il Ssn: nei prossimi anni assisteremo ad una ulteriore riduzione della domanda di servizi e di prestazioni, ad esempio, dell’area pediatrica ed ostetrico-ginecologica, e più in generale di tutte quelle attività (sanitarie e sociosanitarie) che hanno a che fare con la popolazione più giovane (fino ai 45-50 anni). Se ne dovrà tenere conto nella allocazione delle risorse e soprattutto nella programmazione delle scelte professionali delle persone che intenderanno dedicarsi al comparto sanitario, che dovranno essere numericamente orientate verso quelle aree di specializzazione dove sarà maggiore la domanda. Non solo, il forte restringimento del bacino della potenziale popolazione in entrata nel mercato del lavoro aumenterà la competizione tra i diversi settori professionali per accaparrarsi il materiale umano disponibile e la sanità si dovrà attrezzare di conseguenza per risultare attrattiva.
GLI ANZIANI
Altrettante perturbazioni sono attese sul versante opposto della distribuzione per età, e cioè nell’area degli anziani (a prescindere dalla specifica età che li andrà a definire). Le buone prospettive sulla speranza di vita alla nascita, con un allungamento della vita al 2080 di circa 5 anni per gli uomini e 4,5 per le donne, e l’arrivo nelle età adulte e senili delle folte generazioni del baby boom, aumenteranno in maniera numericamente sostanziale il contingente anziano, un tipo di popolazione che risulta caratterizzato da diversi nuovi elementi di cui si dovrà tenere conto: l’insorgenza di patologie croniche, la presenza di multimorbilità e l’aggravamento dei quadri clinici, la comparsa di disabilità e di handicap, l’aumento degli anni vissuti non in buona salute, un aumento numerico dei decessi (che dai meno di 650 mila del periodo prepandemico arriveranno a superare gli 850 mila) con la necessità di accompagnare adeguatamente i cittadini al compimento della loro esistenza. Gli ultra 65enni, che oggi sono il 24% della popolazione, nel 2050 arriveranno quasi al 35%; ed una significativa crescita è attesa anche per gli ultra 85enni, cioè quella fascia nella quale si concentra la maggior presenza di individui fragili, che passerà dal 3,8% del 2023 quasi al suo doppio.
Se per la parte bassa della distribuzione per età della popolazione il problema è sostanzialmente quello della riduzione dei servizi (e di quello che ne consegue), la parte alta della distribuzione invece, oltre alla indicazione ovvia che occorrono specialisti di altre discipline e servizi diversi, pone una questione sostanziale perché si tratta innanzitutto di capire il cambio di domanda di salute e di assistenza che questa prospettiva si porta dietro. A parte i fenomeni e gli eventi acuti che continueranno ad essere presenti anche tra gli anziani, l’obiettivo della cura e della assistenza (come dice l’aggiornamento del piano della cronicità da poco approvato) non è più la guarigione ma diventa “il miglioramento del quadro clinico e dello stato funzionale, la minimizzazione dei sintomi, la prevenzione della disabilità, il miglioramento della qualità della vita”.
Per questa popolazione e questi obiettivi il luogo di riferimento dovrà essere il territorio; il focus non è più la singola (o multipla) prestazione ma diventa la presa in carico globale del paziente; ed in generale si assiste ad un totale cambiamento della domanda di servizi, perché si passa dalla preponderanza dell’intervento “sanitario” alla prevalenza delle attività sociosanitarie e di assistenza anche sociale, materia che è molto meno organizzata ed ancora oggi poco presente (soprattutto, ma non solo, nelle regioni del Mezzogiorno).
Aumenta l’eterogeneità degli interventi, aumentano le differenze territoriali, vanno meglio precisati e qualificati i livelli essenziali di assistenza, diventa fondamentale il tema della prossimità dei servizi, cambia il rapporto pubblico-privato (in termini di composizione percentuale) per quanto riguarda l’erogazione dei servizi, entrano in gioco nuovi attori (in particolare il terzo settore, il mondo del non profit, il volontariato), e così via: si apre quindi un mondo nuovo di attività, di professionisti, di ruoli, di prestazioni, di bisogni che ricadono economicamente sulle spalle dei cittadini (è clamoroso, ad esempio, quanto cresce in queste fasce di età la spesa per prodotti acquistabili in farmacia ma non coperti da eventuali esenzioni o contributi).
Vittadini: evitiamo il crollo
del nostro welfare territoriale
FAMIGLIE SEMPRE PIÙ PICCOLE
Come se non bastasse l’aumento numerico dei cittadini anziani (e molto anziani), questo passaggio dal sanitario al sociosanitario è ulteriormente aggravato da un’altra trasformazione demografica che non cattura l’attenzione mediatica ma che è fondamentale per il cambiamento della domanda di servizi: le mutazioni, in corso e/o previste, nella struttura della famiglia. Nei prossimi anni secondo ISTAT avremo famiglie sempre più piccole, caratterizzate da una maggiore frammentazione, con un notevole aumento di persone sole e di nuclei familiari senza figli, e con aumento della instabilità coniugale (maggior numero di scioglimenti di legami di coppia). Il numero di persone sole, che nel 2023 ammontava a 9,3 milioni, in 20 anni salirà a 10,7 milioni e sarà particolarmente frequente tra gli anziani e i molto anziani: se oggi gli ultra 65enni soli sono quasi il 50% delle persone sole, nel giro di 20 anni diventeranno il 60%, con domande di servizi e prestazioni che dal sociosanitario si accavalleranno con il sociale aggravandone inevitabilmente la gestione (considerati gli enti diversi che se ne devono fare carico).
Tra l’altro, per le famiglie unipersonali sono particolarmente rilevanti le differenze di genere perché oltre a qualificare diversamente le patologie che compaiono negli uomini e nelle donne (e la conseguente domanda di prestazioni e servizi più sanitari) emerge la differenza di bisogni sociosanitari e di necessità più specifiche di ciascuno dei due sessi. Dal punto di vista numerico, fino a 64 anni di età la vita in solitudine, volontaria o meno, riguarda circa 5 milioni di cittadini (senza sostanziali variazioni nei prossimi 10 anni), il 60,5% dei quali uomini, ma dopo i 65 anni sono le donne a prevalere e questa prevalenza è destinata a crescere per via del ben riconosciuto vantaggio che caratterizza il genere femminile dal punto di vista della lunghezza della attesa di vita.
Il cambio di struttura della famiglia (più piccola, più frammentata, con più persone sole, …) ha una enorme ricaduta dal punto di vista del bisogno sanitario e sociosanitario perché viene a mancare tutta quella attività di risposta alla domanda di salute e di assistenza che in passato gravava sulla famiglia e veniva da questa esperita nella estesa rete di parentele cui dava luogo la numerosità dei nuclei familiari, e che già oggi cerca (e soprattutto domani cercherà) soluzioni altrove.
Se quelle discusse sono le conseguenze più rilevanti che le modifiche demografiche in corso e/o previste riverseranno sul servizio sanitario, esse non sono le sole. Pensiamo, ad esempio, a tutto il tema della migrazione, che vedrà nei prossimi anni un saldo attivo (immigrati – emigrati) di circa 200.000 unità ogni anno e che pone questioni di specifiche patologie di cui il Ssn dovrà farsi carico, di cultura della salute e di approccio alla cura, di prevenzione, di presa in carico, oltre che di lingua e di informazione e così via, che necessitano di modalità di affronto a cui il Ssn può non essere preparato. Ma pensiamo anche al problema della sostenibilità economica dell’intero Ssn: sempre secondo Istat: “Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2023 a circa uno a uno nel 2050”, cioè ogni soggetto in età lavorativa avrà sulle spalle un soggetto in età non lavorativa. In questo contesto sarà ancora sostenibile un servizio sanitario (o come si chiamerà) fondato solo sulla tassazione o si deve cominciare a pensare a qualche diverso percorso, integrativo o sostitutivo?
IN CONCLUSIONE
Più che preoccuparci (o essere contenti) per quanto pochi saremo nei prossimi decenni, è opportuno lasciarsi seriamente interrogare dai cambiamenti demografici che stanno interessando già adesso (e ancora di più negli anni a venire) la nostra popolazione, lavorando per fare in modo che il servizio sanitario sappia cogliere i nuovi bisogni di salute dei cittadini e la successiva domanda di servizi e prestazioni che si sposteranno gradatamente dal contesto più specificamente sanitario a quello più tipicamente sociosanitario.