Trimestrale di cultura civile

Dal cuore della foresta minacciata: la sfida della libertà

  • DIC 2022

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Quel che c’è ma non si conosce. Storie di realtà indigene che non scappano dal loro territorio attratte dallo stile di vita delle città. Sono soprattutto i giovani a scegliere di rimanere attaccati alle proprie radici. Che fanno propria la sfida di imparare per poi costruire nella logica di preservare la biodiversità. Non in opposizione alla modernità ma all’insegna di un dialogo costruttivo. E l’educazione gioca un ruolo decisivo nel percorso di crescita e valorizzazione del proprio patrimonio naturale e culturale. Si investe sull’educazione. Reportage dall’Amazzonia. Un racconto di esperienze “dal basso”: tre scuole dove si studia e si impara a lavorare e a rispettare la Terra. Piccoli ma decisivi segnali di un metodo concreto che parte dal considerare centrale la persona. L’ecosistema si cura con l’educazione al bello.

Le popolazioni dell’Amazzonia si trovano davanti a grandi sfide, come quella della custodia della propria terra e della sua biodiversità. Si pensi che dal 1990 al 2021, 420 milioni di ettari di foreste sono stati distrutti nel mondo. In Brasile, soprattutto, la deforestazione nella foresta pluviale amazzonica è aumentata del 43% nel periodo aprile 2020 - aprile 2021. La deforestazione è più bassa del 50% nelle foreste dove vivono popolazioni indigene e dove queste sono coinvolte attivamente nel governo dell’ecosistema. Queste popolazioni indigene e tribali svolgono infatti un ruolo importante nella protezione della biodiversità1, ma anche la permanenza delle popolazioni indigene nei loro territori è a rischio. Il pericolo non è solo rappresentato dai tanti soggetti interessati allo sfruttamento della terra. I giovani non se ne vanno unicamente perché la loro terra è invasa o resa inabitabile, se ne vanno perché attratti da una modernità che abbracciano acriticamente, non riuscendo a porla in rapporto con una tradizione che gli anziani non sono più in grado di trasmettere2. Questo esodo continuo dalla foresta evidenzia il nesso inscindibile tra la sostenibilità e una educazione in grado di traghettare la saggezza dei popoli indigeni verso un dialogo costruttivo con la modernità.

Una fitta rete di rapporti

Eppure in Amazzonia ci sono realtà che, silenziosamente, formano i giovani al rispetto per la loro terra e le loro radici, vissute in un mondo in vorticoso cambiamento nel quale la ricchezza delle tradizioni dei popoli indigeni può portare un insostituibile contributo.

Se da Manaus si percorre per circa 30 chilometri la lunga strada che, attraversando migliaia di chilometri di foresta, porta a Caracas, si può incontrate la Escola Agricola Maria Rainha dos Apostolos, una delle tante eredità lasciate dai missionari del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) in questa terra amazzonica.

Per raggiungere la scuola, i ragazzi dai loro villaggi salgono su imbarcazioni che navigano alla volta del porto di Manaus. D’altra parte, in questa terra irradiata di fiumi, le distanze si misurano così, in giorni di barca. I più lontani ne fanno quindici, dormendo sulle amache che, quando cala la sera, vengono appese ai ganci che penzolano nella parte alta dell’imbarcazione.

I ragazzi arrivano alla scuola da tanti villaggi situati in questa parte di Amazzonia, grazie al racconto di persone che vi hanno studiato, spesso ci arrivano i figli dei primi allievi. Sono attratti dalla sua fama: qui si impara a coltivare la terra in modo rispettoso dell’ecosistema amazzonico. In modo intensivo e non estensivo. Utilizzando solo concimi naturali, che possono essere prodotti anche una volta che gli allievi faranno ritorno nella propria terra. È una scuola ottima anche per quelli che intendono continuare gli studi iscrivendosi all’università; le percentuali degli allievi che passano l’esame di ammissione nelle diverse facoltà sono infatti altissime.

Di contro, la vita nella scuola è molto dura; lezione al mattino e alla sera. Al pomeriggio prove pratiche nei campi. Tutti i giorni, con una temperatura media che spesso si attesta intorno ai 40 gradi e con umidità altissima; cibo frugale e riposo in grandi dormitori. Eppure, ascoltando i ragazzi raccontare della loro vita, questa fatica quasi non si percepisce; la passione di imparare e la certezza di stare costruendo un futuro bello prevalgono. Studiano e imparano per le loro famiglie e i loro villaggi, per amore della loro terra amazzonica.

A guidare la scuola sono Celso e Darlete, una coppia di sposi a cui i missionari del PIME, dopo averla costruita e avviata, l’hanno affidata, quasi trent’anni fa.

In una Amazzonia in cui tanti ragazzi abbandonano i villaggi e raggiungono le città attratti da una vita che non conoscono e lì si perdono, la scuola svolge un ruolo insostituibile: in questi anni ne ha formato migliaia, che in gran parte sono tornati nei propri villaggi di origine o hanno continuato a studiare in università.

L’equilibrio economico della scuola è precario, non potendo contare né sulle rette degli alunni – spesso poverissimi, le cui famiglie spendono i risparmi per pagare il loro viaggio per raggiungere la scuola – né su sussidi statali regolari o congrui. Come per tutte le realtà che nascono dal basso e dopo un periodo di crisi, la scuola ha ricominciato a vedere bilanci in pareggio quando ha riannodato una trama di rapporti con persone, opere, istituzioni. Ora è innescata in una fitta rete di rapporti con altre opere sociali che, in Brasile e nel mondo, cercano di rispondere ai bisogni della gente; che coraggiosamente e fantasiosamente trovano nuove strade per costruire spazi in cui le persone contano.

In una Amazzonia martoriata da tanti interessi e un grande disinteresse, i ragazzi sono educati ad amare e rispettare la propria terra e, silenziosamente come gli alberi che imparano a curare, portano nelle loro terre questo amore e questo rispetto, senza dei quali niente e nessuno salverà l’Amazzonia.

I bambini imparano l’arte di dipingere

Anche a Parintins è sorta un’opera educativa che coinvolge molti bambini e giovani.

Don Giuliano Frigeni, un padre missionario del PIME, fondatore della scuola, ordinato vescovo in questa cittadina, vi ha trovato una realtà complicata. Parintins è un piccolo agglomerato urbano situato sull’isola fluviale di Tupinambarana, nel mezzo del Rio delle Amazzoni e costituisce il punto di approdo di indios che dalla foresta sono attratti dalle luci della città. Gli indios, sia della tribù dei Sateré Mawé che caboclos, arrivano sull’isola sperando in una vita diversa, ma si scontrano con l’assenza di lavoro, la diversità rispetto alla foresta, la fame. E dunque, spesso, l’alcol e la droga.

Per dare un contesto alternativo alla strada ai tanti bambini e ragazzi che vivono questa condizione di spaesamento e marginalità, don Giuliano ha creato il Centro Educativo Nossa Senhora das Graças. Il Centro accoglie, per la parte del giorno in cui non sono a scuola, i bambini e i ragazzi della zona più povera di Parintins; li nutre e li educa attraverso l’arte.

L’isola è, infatti, una meta turistica importante, grazie al suo Festival Folclorico del Boi Bumbá che ogni anno porta sull’isola decine di migliaia di persone. Sono più di cinquecento i bambini che passano nel centro la maggior parte della loro giornata, imparando a dipingere, lavorare il legno e la creta, utilizzando i colori realizzati con fiori e terre e perpetuando così le tradizioni dei propri popoli di origine. I bambini nel centro vengono anche nutriti: il pasto che lì viene consumato è, per molti di loro, l’unico pasto della giornata. Prova ne è stata la condizione di denutrizione che è stata riscontrata nel 70% dei bambini nel momento di riapertura del centro dopo la chiusura forzata dovuta alla pandemia.

Educandoli all’arte, gli adulti che lavorano nel centro introducono i ragazzi alla bellezza, alla dignità, al legame con la loro terra e le loro radici. Nel rapporto quotidiano che si instaura, entrano in contatto con i problemi delle famiglie, l’assenza di lavoro, la violenza. Questi ragazzi e queste famiglie si trovano così a vedere i propri problemi accolti da una comunità che fa quel che può, ma che non li lascia soli.

 

Le loro sono storie di persone che in questo posto sono state raccolte dalla strada, educate, sfamate. Come Rubia, la cuoca, che ha iniziato a vivere sull’isola occupando un pezzo di terra, installandosi con i suoi quattro figli, senza lavoro né alcuna fonte di sostentamento. Quando parla racconta del periodo successivo alla pandemia, in cui con acqua e farina di tapioca – non c’era altro nella dispensa – cercava ogni giorno di inventare piatti nuovi perché i ragazzi non si accorgessero troppo che mancava il cibo. E si fa seria e commossa quando ci dice che da don Giuliano e dagli amici del Centro lei e i suoi figli sono stati accolti, che la sua figlia maggiore si è anche potuta laureare, che incontrandoli e legandosi a loro la sua vita è ripartita. E che lei cucina per gratitudine.

Ora le persone che operano nel Centro si trovano di fronte a una nuova sfida. La diocesi affiderà direttamente a una associazione composta da coloro che vi operano la gestione del Centro.

Questa semplice consegna è emblematica di un metodo profondamente sussidiario che, come tale, educa e responsabilizza. Infatti, come ci ricordava Papa Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, “solo in un regime di libertà responsabile esso [lo sviluppo] può crescere in maniera adeguata”.

Parlando con queste persone è evidente la percezione di essere stimati e sfidati. Dovranno imparare insieme a condurre il Centro, procurarsi le risorse economiche, approfondire il metodo che è stato loro trasmesso e capire come a entrare in rapporto con altre realtà, per imparare e camminare insieme. Iniziando proprio dall’amicizia con la Escola Agricola di Manaus.

Una realtà non un’idea

Un altro esempio imponente di queste storie che dal basso costruiscono il bene comune è quella della scuola Pamaali, nella zona indigena Alto Rio Negro. José Bonifacio nel 1983 ha lasciato il suo villaggio di Tucumã, sulle rive del fiume Içana, nel Municipio di São Gabriel da Cachoeira, per andare a Manaus a studiare presso la Escola Agricola Maria Rainha dos Apostolos insieme a suo fratello. Suo padre e altri adulti del villaggio, infatti, desideravano che alcuni ragazzi potessero imparare e poi, una volta terminato il percorso scolastico, insegnare chi era rimasto a Tucumã.

Tornando, José Bonifacio ha partecipato alla Comunità Costituente che ha approvato gli articoli 231 e 232 della Costituzione Federale, relativi ai diritti delle popolazioni indigene. Anche attraverso il lavoro della Costituente ha rinforzato la sua idea di costruire una scuola simile a quella di Manaus. Ha iniziato così a preparare la terra su cui erigere le prime fondamenta e, nonostante la morte di suo fratello che con lui condivideva il progetto, ha coinvolto i giovani nella costruzione della scuola, convinto che se il governo si fosse trovato davanti una realtà e non un’idea, non avrebbe potuto far altro che riconoscerla.

Il percorso per questo riconoscimento è stato tutt’altro che facile e si è realizzato anche grazie al coinvolgimento con le organizzazioni indigene locali, come l’OIBI, Organização Indígena da Bacia do Içana e il FOIRN, Federação das Organizações Indígenas do Rio Negro.

La scuola, però, era di fondamentale importanza. Le tribù a cui José appartiene, i Baniwas e i Koripakos, sono suddivise in 86 comunità. Per i loro ragazzi, a quell’epoca, nella regione c’erano solo scuole di primo grado; per continuare a studiare bisognava andare via dai villaggi e recarsi nelle vicine città. Gli esodi sempre più frequenti sono uno dei fattori che ha spinto i più grandi di queste tribù a lottare per avere una scuola secondaria. Nel 2000 finalmente il desiderio si è realizzato e la Escola Indígena Baniwa e Coripaco Pamáali ha iniziato a funzionare, con i primi 60 studenti.

Da allora continua a educare ragazzi, raggiungendo in alcuni anni il picco di 120 studenti. Attraverso il modello “didattica - ricerca – azione”, vengono insegnate le tecniche per l’allevamento dei pesci, degli uccelli, delle api, per la coltivazione di frutta e per la silvicoltura. Inoltre, si imparano le conoscenze e le tradizioni Baniwa e Koripakos, con la sfida di introdurre i ragazzi a viverle nel mondo contemporaneo. La scuola è indigena perché funziona sulla base della saggezza, delle conoscenze, tecniche e abilità tradizionali, innovate dall’innesto di conoscenze scientifiche e tecnologiche. Si tratta di una metodologia partecipata, a cui la comunità contribuisce per il proprio sviluppo sostenibile e nella costruzione della politica educativa del Rio Negro.

In questi venti anni la scuola ha diplomato ragazzi che hanno proseguito gli studi in università e che ora lavorano come insegnanti, tecnici, leader di comunità. Riprendendo i lavori iniziati dai missionari più di ottanta anni fa, la scuola ha inoltre perfezionato un alfabeto per scrivere la lingua Baniwa. Alfabeto oggi insegnato ai ragazzi, che permette di trasmettere la lingua parlata nelle proprie comunità. La scuola è stata riconosciuta dal Ministro da Educação quale esperienza esemplare di creatività e innovazione.

Nella Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale il 25 settembre 2015 relativa agli Obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile l’accento è posto sulla necessità di non lasciare indietro nessuno. Ma c’è qualcosa di peggio che restare indietro: è restare soli.

Qui in Amazzonia, con il ritmo lento e sicuro del fiume, tessendo una trama di legami che unisce persone, villaggi e opere, queste realtà rappresentano esempi di quell’ecologia integrale che pare essere l’unica via per uno sviluppo veramente umano.

Monica Poletto è dottore commercialista. Ha maturato una significativa esperienza nell’ambito della consulenza nel settore non profit, segue progetti internazionali per Cdo opere sociali ed è membro del Consiglio Nazionale del Terzo Settore.

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