Trimestrale di cultura civile

La nuova strada è la ri-globalizzazione

  • DIC 2022
  • Gianluigi Da Rold

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Con il fallimento della globalizzazione sembrano entrare in crisi le possibilità di attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU. Nell’epoca dei conflitti l’attenzione al benessere e al bene comune è del tutto o quasi scemata. Ma quel fallimento non nasce per casualità, ha origini storiche profonde che richiamano ideologie, speranze, utopie, due guerre mondiali, domini finanziari e altre eruzioni alla prova dei fatti insensate, se non addirittura pericolose. Ed è così che oggi, con sempre maggiore insistenza, si parla di de-globalizzazione quale risposta reattiva alla mondializzazione muscolare. Ma forse, più correttamente e nel solco di uno spiraglio positivo, gli analisti introducono, davanti a uno scenario di così evidente complessità, la possibilità di una ri-globalizzazione selettiva. Nella quale la politica, tornando finalmente protagonista, favorisca percorsi virtuosi di cooperazione, di trattativa, di pace. Nello spirito della ri-globalizzazione selettiva potrebbe così ripartire il viaggio quasi interrotto della vera sostenibilità.

La speranza superava l’aspettativa, dopo quarant’anni di “guerra fredda”, che erano il seguito di due tragiche guerre mondiali; o forse solo della prima del 1914, risolta male nel momento della pace di Versailles, trattato che, ad esempio, il Congresso degli Stati Uniti non approvò mai e che, probabilmente, ha provocato la Seconda guerra mondiale.

I tratti della speranza di cui parliamo riguardano l’oggi e, fino a poco tempo fa, erano segnati spesso non solo da una fiducia poco giustificata e da una razionalità un po’ presuntuosa, ma anche da una superficialità e da un trionfalismo che parevano sconfinare nell’utopia.

Come era possibile che, dalla spartizione di Paesi che cercavano invano di affacciarsi alla libertà e alla democrazia, prima a Teheran nel 1943 e poi a Yalta nel 1945, si potesse passare a una visione che pareva una “scoperta magica” chiamata globalizzazione?

Se si va a vedere la definizione si resta affascinati e al tempo stesso – in quest’ultimo periodo storico soprattutto – allibiti per la sua frenata inattesa. La globalizzazione, altrimenti detta mondializzazione, è l’effetto dell’intensificazione degli scambi economico-commerciali e degli investimenti internazionali su scala mondiale che, nei decenni tra ventesimo e ventunesimo secolo, sono cresciuti più rapidamente dell’economia mondiale nel suo complesso, con la conseguenza di una tendenza sempre maggiore di interdipendenza delle economie nazionali. Ma l’effetto non poteva e non può essere solo economico.

Intoppi ed errori della mondializzazione

Nel rapporto tra struttura e sovrastruttura di origine marxiana, la globalizzazione portava e porta con sé interdipendenze sociali, culturali, politiche, tecnologiche, sanitarie, i cui effetti positivi e negativi hanno una rilevanza planetaria, unendo il commercio, le culture, i costumi, il pensiero e i beni culturali.

Una svolta epocale, quindi, che è stata il proseguimento di tanti altri tentativi e anche di risultati acquisiti nella storia dell’umanità. Ora si sollevano dubbi e critiche e non si risparmia il giudizio impietoso: la globalizzazione è fallita. Perché?

Ripercorriamo quest’ultimo trentennio, guardiamo le tappe raggiunte, cerchiamo di valutare gli intoppi e gli errori.

Il periodo più legato alla spinta verso la globalizzazione può partire dalla nomina di Michail Gorbaëv alla segreteria del partito comunista sovietico e alla presidenza dell’Urss, l’11 marzo 1985. In quello stesso periodo, negli Stati Uniti, Ronald Reagan entrava nel suo secondo mandato come presidente.

La crisi degli euromissili della fine anni Settanta era stata superata ed era morta quella che si poteva definire la “vecchia guardia” del “socialismo reale”. L’Unione Sovietica si stava preparando a una svolta decisiva. Già nel 1985, Gorbaëv annunciava la necessità di una profonda riorganizzazione dell’economia sovietica, a causa della stagnazione in cui questa si trovava. Gorbaëv passò ben presto alla glasnost (liberalizzazione, trasparenza, apertura) e alla perestrojka (ricostruzione). Nei limiti del possibile, una “rivoluzione nel Paese della rivoluzione”.

A Washington, nel contempo, Reagan basava le sue scelte economiche sulla riduzione delle tasse e dei tassi di interesse. Cominciava la cosiddetta “reaganomics” che funzionò, con una relativa espansione, a partire dal 1983.

Era un primo avvicinamento tra i due blocchi che avevano vissuto la “guerra fredda”, basato su una relativa liberalizzazione nell’Urss e sul rilancio del liberismo, del mercato dalla “mano invisibile” (quella che Joseph Stiglitz sostiene che non si vede perché non esiste) che apriva i primi contatti e dei veri accordi. L’epoca del cosiddetto disgelo avanzava, fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e all’implosione dell’Urss, con il seguito della condanna del comunismo marxista-leninista come regime dittatoriale, quale era sempre stato.

A questo punto partirono diverse iniziative, trattative, confronti costruttivi. Contatti e accordi se ne fecero molti, ma un autentico congresso internazionale, che doveva stabilire un nuovo assetto geopolitico mondiale – per fare un esempio storico, una ripetizione di quello che fu il Congresso di Vienna del 1815 dopo la sconfitta e l’esilio di Napoleone – non avvenne mai. Mancò in questo modo il sigillo della politica.

Il tempo neoliberista

Il risultato fu che a Est, in Oriente, i Paesi reclamavano libertà dall’Urss, che si piegava su se stessa economicamente, con confusione politica e instabilità, e nello stesso tempo affrontava una “caduta imperiale” cercando di soffocare le richieste dei Paesi che si ribellavano al suo giogo imperialista durato per decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Nello stesso tempo la crisi storica del comunismo e dell’Est provocava un contraccolpo di entusiasmo superficiale a Occidente, dove si scambiò la vittoria della società democratica liberale o liberal-socialista (che aveva caratterizzato la politica democratica occidentale del dopoguerra soprattutto in Europa) con il trionfo del neoliberismo, della finanza e del mercato senza regole.

In questo modo la base della globalizzazione degli anni Ottanta, analizzata oggi, era fondata sull’incontro tra post-comunisti e neoliberisti. Questi ultimi naturalmente euforici, che brindavano continuamente e si appropriavano di una vittoria cosiddetta “storica”, che non poteva dichiararsi loro.

C’è persino un “cantore di corte” in Occidente, Francis Fukuyama, che declama con un libro-farsa, La fine della storia. Non passerà molto tempo, infatti, perché l’autore corregga il suo libro in modo maldestro.

Ma intanto finanza e neoliberismo vengono individuati come basi della nuova società “globalizzata”, che non ha alternative.

Di fatto la società globale nasce soprattutto con il timbro di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. La sua culla teorica è l’Università di Blacksburg in Virginia e i riferimenti sono gli iper-liberisti come Milton Friedman e Friederich von Hayek, gli storici avversari di John Maynard Keynes, il grande economista protagonista degli accordi di Bretton Woods (1944).

Nel programma dell’economia globalizzata degli anni Ottanta, c’è una rigida e irrazionale rivalutazione dell’individualismo economico. La Thatcher espresse poi questo concetto con i suoi consueti termini icastici: “La società non esiste, ma la si vede solo come aggregato di individui e come somma di interessi individuali e un radicale economicismo, secondo il quale il comportamento degli uomini è regolato dal principio della massimizzazione: l’uomo è un essere economicistico e massimizzante”. È questo il manifesto della globalizzazione dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”.

Esaltatori della finanza che trascinava la globalizzazione, tutti questi sedicenti “campioni” si dimenticavano del discorso di Franklin Delano Roosevelt del 4 marzo 1933 proteso a rimediare alla crisi del 1929. La storia evidentemente non era cosa per Thatcher e Reagan, lo era invece per Kenneth Galbraith, grande economista e già giovane collaboratore di Roosevelt, che ha sempre ricordato così il discorso del grande presidente americano: “La crisi finanziaria dell’ultimo decennio (gli anni Venti) originata negli USA e diffusasi in Europa è stata la più grande ondata di crimine finanziario organizzato nella società umana”. Questo spiegava Roosevelt anche nelle sue lettere personali con Keynes.

La finanza può fare dei crimini, può sostituirsi ai Parlamenti, può difendere gli interessi di poche lobbies e di pochi individui. E la politica può rinunciare al suo ruolo o essere demonizzata con abilità dagli ambienti finanziari e mediatici.

La magia finanziaria

Ora, prima di trarre le conclusioni sul tentativo di globalizzazione dopo la caduta dell’Urss e il trionfo del neoliberismo, si può pensare a uno dei segnali più inquietanti del fallimento della globalizzazione: la crisi del 2008. Mentre quella del 1929 fu superata imponendo alla finanza nuove regole e punendo i colpevoli, nel 2008 si è fatto l’opposto: nessuna nuova regola è stata introdotta e, anzi, i colpevoli, visti come salvatori, sono stati premiati e sono stati poi così abili da proporre ai popoli una replica della filosofia di “governo” predicata da Eliogabalo: “Volete essere governati dalla ragione o dalla magia?” E così a prevalere per inconsulta chiamata è stata appunto la “magia finanziaria”.

Nel fallimento della globalizzazione, la finanza ha un posto di primo piano, ma non è la sola colpevole. Sono tanti gli errori, a cominciare dall’assenza della politica. Ma c’è chi ripensa alla scelta dell’austerità dopo il 2010. C’è chi fa il conto dei benefici che non superano la distruzione dei settori produttivi in Occidente colpiti dalla concorrenza, soprattutto cinese, con conseguenze sociali importanti: maggiore disoccupazione, costose politiche di welfare per sostenere la parte più debole della popolazione impoverita dalla perdita del posto di lavoro e dalla riduzione reale dei salari; le dislocazioni improvvise di aziende in base al ventaglio diseguale delle tassazioni nazionali.

Nasce l’epoca delle grandi disuguaglianze sociali. E su tutto questo prima si abbatte la pandemia e poi l’invasione russa in Ucraina, la guerra che fa ritornare indietro le lancette dell’orologio della storia.

Ma già all’inizio del 2019 il rapporto Oxfam mette i brividi alla schiena quando né pandemia né guerra hanno ancora fatto la loro comparsa. Si parla di una “globalizzazione delle disuguaglianze”. La fortuna dei super ricchi è aumentata del 12 per cento. Ben 3,8 miliardi di persone, che costituiscono la parte più povera dell’umanità, hanno visto decrescere quello che avevano dell’11 per cento. Oxfam (una confederazione internazionale non profit con sede a Oxford che si occupa della riduzione della povertà) calcola che nel 2018 solo 26 ultra-miliardari hanno l’equivalente in ricchezza della metà più povera del pianeta.

Oxfam ha puntato il dito contro Davos, come il luogo dove si stabiliscono le diseguaglianze, citando il Premio Nobel Amartya Sen, non certo un “no global”, che ha spiegato che istruzione e sanità universali sono i migliori antidoti alla disuguaglianza. E aggiunge: no a una globalizzazione senza diritti. Per un’ironia della storia, Davos diventa quasi un “Parlamento mondiale” sotto il simbolo del denaro, che gareggia con l’ONU, l’Unione Europea, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Proprio a Davos, dove Thomas Mann scrivendo La montagna incantata riportava i dibattiti accaniti tra Naptha, Settembrini e Castorp, dove si immaginava che “il danaro sarà imperatore” ma “solo fino alla completa demonizzazione della vita”.

Il respiro dei nuovi imperialismi

Le critiche alla globalizzazione e la definizione di fallimento si potevano cogliere non solo dai classici riferimenti letterari, ma dai protagonisti economici e politici di quegli anni. Un Premio Nobel come Joseph Stiglitz, anche lui non certo un “no global”, metteva in luce le contraddizioni di questo processo mondiale: “La globalizzazione è stata, allo stesso tempo, lodata come depositaria di quella forza che avrebbe portato una nuova età di crescita per i Paesi in via di sviluppo e che avrebbe, alla fine, permesso di colmare la distanza che li separa dai Paesi più ricchi; allo stesso tempo è stata messa alla gogna per aver aumentato la povertà e, da molti, anche per impedire la crescita. C’è un elemento di verità in entrambe le prospettive: la globalizzazione può portare maggiore crescita, ma non necessariamente, e può portare maggiore povertà, ma non necessariamente”.

Il problema allora diventa (ripetiamo, ripetiamo) il controllo politico. E qui vengono in mente gli scritti di Bettino Craxi, in esilio ad Hammamet, pochi anni prima della morte. Riferendosi all’Italia, Craxi scriveva: “La globalizzazione non viene affrontata con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza”.

E Craxi criticava questo tipo di globalizzazione, specificando: “La pace si organizza con la cooperazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata. Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali.

“Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire. Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare”.

Queste parole di Craxi, scritte alla fine degli anni Novanta, non sono cadute nel vuoto se si pensa ai “potenti” di Davos, alla sequenza delle guerre che tuttora si conducono, all’irruzione sul mercato e su tutto il resto delle reti nella comunicazione, anche al servizio dei grandi imperi finanziari che stabiliscono l’agenda del mondo.

Le forzature provocano reazioni, che si riflettono in populismi, sovranismi e nazionalismi estremi. Sul piano politico e istituzionale, il centro di ricerca Freedom House osserva che solo il 20 per cento della popolazione mondiale vive in democrazia, mentre il 38 per cento – la percentuale più alta dopo il 1997 – vive in totale assenza di libertà. Infine, il 43 per cento, sempre secondo Freedom House, vive in regimi parzialmente autoritari. La speranza di un allargamento dell’area democratica nel mondo dopo il crollo del comunismo –un’illusione – e il fallimento del processo di globalizzazione, hanno insieme provocato la frenata e una contrapposizione a volte netta, a volte spiegata in termini problematici, sull’intero processo cominciato circa trent’anni fa. Al punto che anche gli analisti di tutti i tipi (politici, economisti e sociologi), hanno, già a metà del secondo decennio del XXI secolo, sostituito la parola “globalizzazione” con il termine “de-globalizzazione”. Il sintomo più evidente se non di un totale fallimento, almeno di un profondo ripensamento.

Nel 2017, quasi come un profeta, l’economista Dambisa Moyo, nato nello Zambia ma naturalizzato statunitense, scrisse un editoriale sul The Financial Times dal titolo Protezionismo e deglobalizzazione metteranno le ali all’inflazione. Allora non c’era ancora stata la pandemia da Covid e tanto meno l’invasione russa in Ucraina che ha provocato il peggio di quello che da alcuni anni stava covando: l’impennata dei costi delle materie prime con la conseguente reazione dell’aumento spropositato dei prezzi, anche quelli al consumo e contemporaneamente lo choc energetico, l’emergenza sul prezzo del gas e della luce, rimettendo in discussione tutta la transizione green, per tutelare l’ambiente, che il mondo intero stava discutendo e alcuni Paesi stavano già affrontando.

Quindi, anche in quel momento, nel 2017, mentre il presidente americano Donald Trump introduceva i dazi commerciali per favorire i prodotti nazionali, si avvertiva la netta sensazione che si fosse ormai invertito il trend che all’inizio degli anni Novanta sembrava inarrestabile. In realtà diversi analisti economici avevano notato i primi segnali di un rallentamento del processo di globalizzazione già nel 2007-2008. quando ci fu il crack della banca d’affari americana Lehman Brothers. Ma ci sono altri esempi.

Il valore delle merci e dei servizi esportati in tutto il mondo è cresciuto in modo enorme fino al 2007, raggiungendo la quota – mai vista prima – di 20mila miliardi di dollari. Da quel momento è seguito un andamento altalenante nel decennio successivo al 2007, muovendosi tra 20mila e 25mila miliardi di dollari. Insomma, la circolazione sempre più libera di merci e servizi in ogni angolo del globo, dopo una marcia impetuosa, ha subito indubbiamente una frenata.

Una globalizzazione positiva: è possibile

Il problema delle dislocazioni aziendali, delle disuguaglianze, delle concentrazioni di ricchezza in mano a pochi ultra-miliardari e di tutto quello che abbiamo cercato di sintetizzare in precedenza, si era avvertito ed era sfociato nei riflessi politici del populismo, del sovranismo, con manifestazioni di movimenti e partiti che hanno cominciato a opporsi, ritenendo inoltre, in modo più radicale, che a “condurre la danza” non fosse più la politica ma fossero ormai i grandi gruppi finanziari.

Forse, solo una politica in grado di riacquistare il suo peso in tutto il mondo, potrebbe ripensare a un autentico processo di globalizzazione positiva.

Cercando di salvare il lato migliore della globalizzazione, in maniera graduale, il processo del grande scambio commerciale e finanziario mondiale potrebbe essere ripreso e ricostruito.

C’è chi come Gianmarco Ottaviano, professore di economia all’università Bocconi, pensa che nei prossimi anni non ci sarà tanto una deglobalizzazione, ma piuttosto una ri-globalizazione selettiva “cioè una configurazione dell’economia globale per gruppi integrati, di Paesi affini, coalizioni in competizione tra loro per l’egemonia economica, politica e culturale”, uno scenario dove prevalgono inevitabilmente la politica, la trattativa, la cooperazione, la pace e, soprattutto, una concorrenza pacifica di egemonia.

Senza farsi prendere da facili entusiasmi, guardando la realtà con gli occhi della politica, ristudiando sempre la storia passata e non illudendoci con speranze assurde, forse questa può essere una strada percorribile, quella che può evitare la famosa “trappola di Tucidide”, cioè il confronto bellico globale e magari rilanciare una globalizzazione controllata e realistica.

Gianluigi Da Rold è giornalista e scrittore italiano. È stato inviato speciale del “Corriere della Sera” e condirettore della rete regionale della Rai a Milano. Nel 1978, con Tobagi, promuove la fondazione di Stampa Democratica, nuova corrente sindacale del giornalismo italiano.

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