Trimestrale di cultura civile

Perché economisti e giuristi non si capiscono quando discutono di “beni comuni”

  • DIC 2022
  • Antonio Massarutto

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Quando si ragiona di beni comuni la mente corre subito all’acqua. In termini di concetto non è complicato ritracciare un pensiero condiviso, di tipo valoriale. Le cose si complicano allorché dai concetti, dai principi, si passa alla loro traduzione nella pratica. Ovvero: in concreto cosa significa che l’acqua è un bene comune? Chi deve gestirla? Va fatta pagare o no? E qui analisti economici e studiosi del diritto promuovono interpretazioni che divergono. E ciò fa capire quanto la materia sia delicata. E l’assenza nella pratica di un pensiero condiviso determina criticità e una certa assenza di visione in chi è chiamato a gestire il bene comune in un’ottica di realistica sostenibilità. Non è opportuno continuare a dividersi tra sostenitori del pubblico e tifosi del privato. “Ciò che conta, a parere di chi scrive, non è tanto la proprietà delle aziende, quanto il fatto che siano aziende, costrette a misurare i propri risultati secondo principi di equilibrio economico-finanziario”.

“L’acqua è un bene comune dell’umanità”: questo fortunato slogan, coniato un quarto di secolo fa da Riccardo Petrella è diventato ormai una parola d’ordine universale, fatta propria dalle Nazioni Unite e perfino da Papa Francesco. Una parola d’ordine che, andando a pescare nel brodo primordiale dei nostri principi profondi, sembra a tutti ovvia e indiscutibile. Ognuno si rivolta contro l’idea che ci si possa appropriare dell’acqua, accaparrandosela per speculare sulla sete e sul bisogno degli altri. “L’acqua è un dono di Dio, e non una merce”, come afferma padre Alex Zanotelli.

Ma quando si passa dall’affermazione del concetto alla sua traduzione in pratica, cominciano i problemi. Cosa vuol dire esattamente che l’acqua – o una qualsiasi altra cosa – è un “bene comune”? Quali sono le implicazioni di questo principio? Deve significare che l’acqua viene erogata a tutti gratis a spese della collettività? Deve significare che a gestirla possono essere solo entità senza fine di lucro? O che i capitali necessari per realizzare le opere devono provenire dalla fiscalità generale?

La tragedia delle proprietà comuni

Quando i giuristi usano il termine “bene comune”, lo fanno in genere nel senso con cui lo faceva Stefano Rodotà, alludendo cioè alla sfera dei diritti della persona. Diritti che sono riconosciuti costituzionalmente, o affermati solennemente in qualche Dichiarazione impegnativa almeno sul piano morale (come, ad esempio, sono quelle delle Nazioni Unite). Quando qualcosa è riconosciuto come diritto fondamentale di ogni essere umano, ne consegue il dovere di garantire che questo diritto sia effettivamente fruibile, abbattendo le barriere giuridiche, sociali e, soprattutto, economiche.

Per gli economisti, i “beni comuni” sono invece una particolare combinazione di attributi che ne fanno dei “beni pubblici impuri”. Beni pubblici in economia sono quei beni caratterizzati da non escludibilità e non rivalità: non è possibile impedire a qualcuno di fruirne quando il bene esiste; non sarebbe neppure desiderabile farlo, visto che l’aggiunta di un fruitore non comporta alcun costo aggiuntivo.

I beni comuni sono beni non escludibili, epperò rivali. È impossibile impedire a qualcuno di usufruirne, in compenso l’aggiunta di un fruitore causa dei costi, sia perché la produzione di un’unità aggiuntiva richiede un costo, sia perché l’utilizzo eccessivo rischia di depauperare la risorsa.

In quanto non escludibili, questi beni sono solitamente amministrati in regime di libero accesso. Non esiste un soggetto che possa reclamarne la titolarità esclusiva, né privato (diritto di proprietà) né pubblico. Dunque, ciascuno ne prende quanto vuole. Da cui l’esito scontato: la “tragedia delle proprietà comuni” teorizzata da Garret Hardin (The Tragedy of the Commons, 1968). Falde acquifere, pascoli collettivi, foreste, risorse ittiche sono destinate al sistematico saccheggio. Il fatto che sia “impossibile” impedire a qualcuno di fruire del bene va infatti meglio analizzato. L’impossibilità potrebbe essere tecnica, ma anche giuridica o istituzionale.

La non coincidenza fra beni comuni e beni liberi

Nella pianura friulana, ad esempio, numerosi comuni sono privi di acquedotto perché le famiglie usano i pozzi privati e sono così tenacemente abbarbicate a questa tradizione secolare – difesa proprio usando l’argomento del “bene comune” – da opporsi a ogni restrizione, perfino di fronte all’evidenza del depauperamento della falda freatica. Il motivo per cui questa situazione perdura non è né tecnico né giuridico, ma squisitamente politico: nessuna amministrazione finora se l’è sentita di andare allo scontro con un gruppo forse minoritario in termini numerici, ma assai influente, chiassoso e determinato.

Nel caso dei “global commons” ciò è ancora più evidente, in assenza di una sovrastruttura internazionale in grado di dettare norme cogenti, solo l’accordo volontario tra gli Stati può far sorgere una qualche forma di autodisciplina, ed è a simili strumenti che si affida, ad esempio, la soluzione delle controversie relative ai grandi bacini idrografici transnazionali.

Può essere questa oggettiva difficoltà la causa che espone i “beni comuni” all’esito previsto da Hardin, più che qualcosa di connaturato ai beni in questione.

Elinor Ostrom, nel magistrale Governing the commons (1990), argomentò in modo assai acuto che questa coincidenza “di fatto” tra “beni comuni” e “beni liberi” non è necessariamente vera. Proprio al contrario: le “commons” che funzionano sono proprio quelle sulle quali si è costruito un qualche regime istituzionale in grado sia di disciplinare l’accesso alla risorsa, sia di mobilitare gli sforzi collettivi necessari per provvedere alla sua manutenzione o ai servizi necessari alla sua fruizione, disciplinando la condivisione del bene, stabilendo cosa ciascuno può o non può, deve o non deve fare perché esso venga gestito in modo sostenibile.

Ciò non richiede necessariamente l’appropriazione al demanio pubblico, regolamentando l’uso e assoggettandolo al regime del servizio pubblico. È ben possibile che le norme che disciplinano l’accesso al bene comune siano di fonte extra-statale: consuetudini, tradizioni, codici morali.

Il romanticismo non funziona

Ma venendo al tema del servizio idrico – quello che serve per fare sì che la risorsa idrica naturale venga fruita negli usi domestici – è evidente che questi discorsi possono trovare applicazione solo in parte. Sebbene la disponibilità della risorsa naturale continui a svolgere un ruolo fondamentale, condizionando le soluzioni tecniche che possono essere applicate e i relativi costi da sostenere, quello che più conta è la capacità non solo tecnica ma anche finanziaria di provvedere a tutte le opere necessarie, costruendole e mantenendole in buono stato di efficienza, utilizzando le migliori tecnologie in grado di coniugare la disponibilità per gli usi umani con l’integrità degli ecosistemi e senza lasciare debiti alle generazioni future.

Se il regime dei “beni comuni” potesse al limite adattarsi alla condivisione di risorse idriche naturali all’interno di un sistema comune di regole, esso è quanto mai inadatto a gestire servizi che hanno caratteristiche sempre più spiccatamente industriali, che richiedono la mobilitazione di ingenti capitali, elevate competenze tecnologiche, divisione del lavoro, organizzazioni complesse, necessariamente operanti su scale territoriali che trascendono quella locale. In un simile contesto non c’è molto spazio per il romanticismo di chi guarda con nostalgia ai tempi del fontaniere comunale. Questo, peraltro, non significa neppure, al contrario, che non sia possibile trovare nel sistema pubblico le capacità necessarie – come del resto l’esperienza di quasi tutti i Paesi sviluppati si incarica di mostrare.

A chi la gestione dell’acqua?

A dieci anni abbondanti dal referendum 2011, è forse possibile affrontare la questione con toni più pacati e scevri da contrapposizioni ideologiche, evitando di confondere i mezzi con i fini. Garantire il diritto universale all’acqua e, insieme, la sostenibilità ecologica del suo utilizzo sono obiettivi che nessuno nega.

Per l’economista, la traduzione del concetto giuridico di “bene comune” è quella di “bene di merito”. È stato Amartya Sen a insegnarci che i beni non sono tutti uguali, che alcuni che sono speciali perché da essi dipendono quelle “funzionalità di base” che permettendo alle persone una vita dignitosa le mettono anche nelle condizioni di poter esercitare il loro ruolo nella società. Istruzione, salute, cibo, casa, energia, mobilità. E anche acqua, intesa non solo come fornitura idrica dal rubinetto, ma anche come servizio di fognatura e depurazione.

Negli anni Novanta del secolo scorso ci si è illusi, in modo semplicistico, che il modo migliore per assicurare questo diritto alla popolazione globale che ancora ne è priva fosse quello di coinvolgere il privato, in una logica di investimenti interamente ripagati dalle tariffe secondo criteri di mercato. Quel sistema ha mostrato tutte le sue debolezze nei Paesi emergenti, dove il prezzo dell’acqua, operando in questo modo, ha presto raggiunto livelli insostenibili per buona parte della popolazione.

Affermare il diritto umano all’acqua non significa però che l’acqua debba essere per forza erogata a spese dello Stato, né che debba essere un’azienda pubblica a gestirne l’erogazione, e meno ancora che tale azienda debba essere organizzata nelle forme del diritto pubblico. Se gli economisti hanno mostrato scarsa fantasia e un eccesso di fiducia nel meccanismo di mercato, i non economisti hanno mostrato, al contrario, di non saper immaginare l’affermazione di un diritto – sacrosanto – dei cittadini se non come il risultato di un’iniziativa pubblica volta a escludere programmaticamente ogni forma di coinvolgimento del mercato.

Se non altro, è dal mercato finanziario che, necessariamente, ogni azienda dovrà trarre le risorse necessarie agli investimenti.

A chi ancora oggi straparla di “referendum tradito” e tuona contro le Spa pubbliche “in-house” affermandone l’incompatibilità col bene comune, si può provare a rispondere con i fatti.

Nei dieci anni che sono trascorsi dal referendum molte cose sono cambiate, in meglio. Ciò si deve a un modello gestionale che è stato attento a garantire – attraverso modelli di tipo giusprivatistico, seppur conservando pressoché intatta la gestione pubblica – la funzionalità a un modello industriale. Ciò che conta, a parere di chi scrive, non è tanto la proprietà delle aziende, quanto il fatto che siano aziende, costrette a misurare i propri risultati secondo principi di equilibrio economico-finanziario.

Ancor più a un modello di regolazione che ha saputo coniugare l’equilibrio economico-finanziario delle aziende con l’attenzione all’efficienza, consentendo una stabile ripresa degli investimenti, oggi quadruplicati rispetto a cinque anni or sono. Tramite la regolazione della qualità tecnica e commerciale, si dispone di un quadro aggiornato dei livelli di servizio erogati, che permette una programmazione razionale degli interventi. Con risultati che si possono considerare senz’altro positivi, soprattutto perché la macchina sembra essersi rimessa stabilmente in moto, conquistando un significativo abbrivio. Se ne può trovare testimonianza nelle relazioni di ARERA che, anno dopo anno, documentano i progressi ottenuti.

La regolazione ha il primario obiettivo di garantire i cittadini contro la formazione di profitti di monopolio. Le aziende devono essere in grado di ripagare con le tariffe i costi che sostengono e gli investimenti che effettuano, coprendo il costo opportunità del capitale investito, ma senza ottenerne remunerazioni extra. Devono essere stimolate al miglioramento dell’efficienza, cosa che richiede un approccio alla copertura dei costi non meramente “a consuntivo” ma con elementi incentivanti.

Italia: un servizio idrico tra i meno costosi

Ma la garanzia dell’equilibrio economico-finanziario deve essere reale e concreta: solo così si attiva quel circolo virtuoso che permette al mercato di ridurre le aspettative di rischio, ai tassi di interesse di scendere al minimo, le durate dei prestiti ad allungarsi in modo coerente con la vita utile delle opere, permettendo così un impatto in tariffa meno traumatico. Grazie a questo circolo virtuoso anche in Italia l’acqua è diventata quello che da tempo è negli altri paesi sviluppati: un porto sicuro per capitali pazienti, con rendimenti bassi perché poco minacciati dalle circostanze. E infatti, sebbene gli incrementi tariffari si siano verificati con costanza e con un andamento ben superiore all’inflazione, il servizio idrico italiano resta ancora tra i meno costosi a livello OECD, con tariffe pari alla metà o a un terzo di quel che spendono i tedeschi o i francesi.

Alla ripresa del ciclo degli investimenti nel settore sta certo contribuendo anche il PNRR. Tuttavia, il fatto stesso che questo abbia potuto destinare all’acqua risorse tutto sommato modeste rispetto alla mole che sarebbe richiesta mostra, paradossalmente, che il settore ha finalmente acquisito la capacità di muoversi in modo autosufficiente.

Se c’è una realtà che è ancora ferma al palo, ed è anzi tornata indietro rispetto ad allora, questa è proprio la gestione napoletana che l’allora giunta De Magistris volle trasformare nello showroom dei “beni comuni”, e che ancora oggi continua a tirare a campare sull’eredità del passato, senza investire, riuscendo solo con enorme fatica ad assorbire la gestione fognaria, non ancora quella depurativa, e trovandosi ancora invischiata in innumerevoli conflitti amministrativi con altri enti. L’ultimo bilancio approvato risale al 2018.

Eppure, solo nella legislatura passata, il governo Lega-Cinque Stelle era riuscito a presentare un disegno di legge che, se approvato, avrebbe riportato il calendario indietro di 30 anni, cestinando quanto ottenuto fin qui e riaprendo per l’ennesima volta il cantiere istituzionale, ispirandosi proprio a quell’esperienza fallimentare come al modello virtuoso che doveva additare la via.

Antonio Massarutto è professore associato di Economia applicata presso l’Università di Udine. La sua attività di ricerca ha come focus principali lo studio delle politiche ambientali e l’organizzazione dei servizi pubblici locali, con particolare riferimento al settore idrico e dei rifiuti.

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