Nel 2012 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto sul modello di crescita dell’Europa basato sull’analisi di sei parametri: commercio, finanza, aziende, innovazione, lavoro e governo, concludendo che, nel complesso, il modello di sviluppo europeo aveva funzionato bene nei precedenti 50 anni, portando al benessere più di 200 milioni di persone e consentendo al sistema produttivo di prosperare.
Negli anni successivi, tuttavia, questa crescita ha subito un rallentamento, sia a causa della recessione, che ha ridotto la domanda, sia dell’incapacità di molte imprese ed istituzioni di innovarsi sfruttando, in particolare, le tecnologie digitali (World Bank 2018)1
Se consideriamo la crescita dell’Europa attraverso l’analisi del fattore di produttività totale (TPF), che misura l’efficienza dell’utilizzo combinato di lavoro e capitale, notiamo che se da un lato la componente legata al lavoro si è ridotta dall’inizio della crisi, dall’altro quella relativa agli investimenti non ha compensato questa mancanza. Non lo ha fatto nonostante la rapida evoluzione delle tecnologie digitali negli ultimi dieci anni. È lecito quindi supporre che il rallentamento della crescita del TPF sia da attribuire, almeno in parte, proprio all’ indebolimento dell’Europa nella sua componente innovativa e tecnologica.
Se poi vogliamo andare più a fondo e valutare l’impatto delle tecnologie sulla crescita, dobbiamo partire da un primo, fondamentale dato di fatto, che è parte integrante del progresso tecnologico degli ultimi anni: la velocità. Stiamo assistendo a grandi cambiamenti tecnico-scientifici che viaggiano ad una rapidità che non ha eguali nella storia dell’umanità. Per questo la nostra capacità di reazione, la nostra abilità nel fornire risposte in tempo utile sarà determinante. Non abbiamo tempo da perdere.
Ed esattamente come è accaduto per ogni altra rivoluzione tecnologica prima di oggi, dall’agricoltura all’industria, il primo passo è legato agli investimenti, fondamentali per lo sviluppo di infrastrutture e di nuovi sistemi di produzione. È questa una condizione necessaria per dare vita a un sostanziale incremento della produttività. Un quadro, quello appena descritto, che non corrisponde esattamente all’immagine attuale.
Se ci domandiamo, dunque, per quale ragione non assistiamo ad effetti significativi sul fattore di produttività totale, la replica immediata potrebbe essere legata all’affidabilità stessa del parametro, incapace di misurare con esattezza gli effetti della rivoluzione digitale. Gli strumenti statistici che utilizza, pensati per una economia “steel and wheat” (Joel Mokyr, 2014)2 , non si rivelano adatti al digitale, dove la parte più rilevante è rappresentata dalla produzione di servizi e di informazioni. Aspetti che hanno effetti importanti sulla vita dei cittadini, ma che solo in piccolissima misura contribuiscono alla produzione di beni, nei termini in cui questi vengono tradizionalmente misurati. In aggiunta, alcuni servizi sono offerti gratuitamente, in cambio di pubblicità o della raccolta di dati per la profilazione di potenziali clienti, e quindi difficilmente quantificabili in termini di output.
In secondo luogo, oggi abbiamo a disposizione strumenti tecnologici sempre più potenti. Ne sono un esempio i nuovi materiali, la stampa 3D, l’Internet of Things, le applicazioni dell’intelligenza artificiale, le nanotecnologie. In generale, è presumibile pensare che questi richiedano minori investimenti in capitale rispetto al passato, a fronte di un maggior impegno in beni intangibili quali il software. Penso a fenomeni come Amazon, che ha cambiato la distribuzione e il consumo librario, oppure Airbnb, che ha ridisegnato l’immagine e la funzione degli hotel tradizionali, senza possedere alcun patrimonio immobiliare.
Anche a patto che la rivoluzione digitale richieda livelli inferiori di investimento in capitale, questo non significa che non possa accelerare la produttività. Al contrario, è presumibile che i suoi effetti siano maggiormente visibili sul medio termine. Perché ciò avvenga è necessario guidare l’innovazione e abbattere le barriere per la creazione di un mercato unico dei servizi digitali in Europa. Il momento per intraprendere queste azioni è ora. IDC prevede che nel 2025 i dati in real- time rappresenteranno più di un quarto di tutti i dati creati, la maggior parte dei quali saranno generati dall’Internet of Things. Questo significa che le organizzazioni dovranno essere messe nelle condizioni di scambiarli e di orchestrarne i servizi, dai data analytics alle prestazioni fondate su distributed ledgers e blockchain. In un futuro, non molto lontano, in cui le infrastrutture e le catene del valore saranno sempre più interconnesse tra partner diversi, e all’interno di veri e propri ecosistemi, sarà forte l’esigenza di governare queste grandi quantità di dati come fattore abilitante per sviluppare servizi innovativi. In modo analogo, sarà necessario prevedere il governo delle transazioni in modo chiaro e trasparente, con regole comunitarie su condizioni e livelli di servizio e proprietà delle informazioni e una effettiva unione finanziaria.
I settori applicativi saranno molteplici, dalla finanza alle smart city. Un primo sforzo in questa direzione potrebbe essere quello di mettere a fattor comune le esperienze delle singole città, alcune eccellenti, e governare il nascente mercato globale di dati e servizi per la città intelligente, e quindi, al suo interno, di tutti gli aspetti legati alla mobilità e ai trasporti, alla salute e alla sanità, all’edilizia e alla sostenibilità, alla catena del cibo e alla sicurezza... La proposta è quella di identificare standard di interoperabilità tra piattaforme e creare un mercato a livello europeo, riducendo costi ed inefficienze.
Tra gli aspetti intangibili, un investimento significativo è poi quello che punta sullo sviluppo del capitale umano, vero e proprio fattore abilitante dei progressi tecnologici di oggi e di quelli che sapremo mettere in atto più avanti. Il dibattito sul futuro del lavoro è acceso: si discute della riduzione del numero di lavoratori e della sostituzione da parte di robot; delle professioni che scompariranno interamente e di quelle ribaltate sul consumatore, come già avviene alle casse automatiche del supermercato.
In realtà quello che si verificherà in futuro, e che in gran parte sta già accadendo oggi, è la creazione di nuove professionalità, non la perdita di posti di lavoro. Il periodo di transizione e la riconversione verso un diverso mercato del lavoro sono sicuramente problematici e vanno governati a fronte di un’automazione sempre più spinta e della penetrazione diffusa dell’intelligenza artificiale nella maggior parte dei settori produttivi. Sviluppare nuove competenze o modificare le abilità che già possediamo è un processo che deve essere al centro delle politiche della formazione in Europa e del suo processo di crescita.
L’innovazione tecnologica - dalla robotica ai mezzi di trasporto autonomi o quasi, alle tecnologie di gestione dell’energia, ai nuovi materiali, alla stampa 3D - avrà effetti sui processi produttivi e sulla nostra vita personale. Non potrà che accentuare la polarizzazione delle professioni e la conseguente ricomposizione dell’occupazione e dalle attività svolte da avoratori. Di pari passo, andrà adeguata la formazione di tipo professionale, basata sull’utilizzo di macchinari sempre più sofisticati, e quella pensata per mansioni complesse, di progettazione, che richiedono una formazione avanzata. In entrambi i casi, esiste un divario notevole tra i diversi Paesi europei, soprattutto in termini di formazione superiore: in Italia la quota è inferiore a un terzo della popolazione, contro il 45% nella media dell’Unione Europea e il 50% nei paesi nordici.
Manca poi un’ulteriore considerazione: bisognerà superare definitivamente la barriera che delimita la cosiddetta cultura umanistica, da valorizzare, da quella tecnico-scientifica, sulla quale investire. In contesti sempre più automatizzati, dove molte delle nostre conoscenze saranno demandate alle macchine, sempre più importante si dimostrerà l’esercizio del pensiero critico, l’intuizione, il problem solving, la creatività, la capacità di comunicare e di lavorare in gruppo, l’adozione di un approccio interdisciplinare e multiculturale, la consapevolezza dell’etica anche in ambito tecnologico.
La pervasività delle nuove tecnologie, renderà necessario un ripensamento della formazione, in cui le università tecniche saranno chiamate ad assumersi una grande responsabilità: quella di guidare uno sviluppo tecnologico sostenibile, che si rifletterà poi in uno sviluppo economico bilanciato e attento ai bisogni sociali. Da questo punto di vista, l’Europa ha un vantaggio innegabile. Ha dalla sua non solo una lunga e ricca tradizione di studi umanistici, ma anche un’attenzione ai bisogni della società che in altre parti del mondo, sue concorrenti, sono inascoltati. È questa memoria che dobbiamo rivalutare all’interno di un’evoluzione tecnologica che rimetterà la persona al centro riconoscendo tratti come l’empatia e la comprensione che nessun algoritmo potrà mai sostituire.
L’Europa deve rispondere a questa sfida, che la vede contrapposta a Cina e Stati Uniti, investendo nello sviluppo di un sistema universitario a rete, che unisce e valorizza le differenze e le eccellenze in un progetto comune ed articolato. Un sistema della formazione che sarà, inequivocabilmente, motore dello sviluppo del capitale umano, dell’innovazione tecnologica e della crescita economica. Un primo passo è stato fatto con il bando sulle università a rete, contrapposto al modello americano e asiatico dove prevale l’idea di poche università di eccellenza come poli autonomi di riferimento. Il sistema universitario europeo, al contrario, dovrebbe giocare la partita mettendo in campo una squadra coesa, all’interno della quale tanto il Politecnico di Milano quanto l’Università di Delft giocano con la stessa maglia, dove a fare il tifo siano tutti i cittadini europei di oggi e di domani, pronti a un futuro che ancora non siamo in grado di prevedere, ma per il quale siamo disposti a unire le nostre forze.
L’Europa crescerà se saprà gestire la rapidità del cambiamento tecnologico; se saprà governare, in modo consapevole, i rischi e le opportunità che questo porta con sé; se saprà valorizzare il capitale umano come unico e vero fattore abilitante all’interno di una rete di relazioni capace di fare la differenza. Questo il mio appello per un’Europa che può crescere, ancora.
L’intervento ha avuto luogo durante il workshop intitolato “Perché l’Europa non cresce più?”, organizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà a Milano il 22 marzo 2019.
NOTE
1 C. Ridao-Cano, C. Bodewig, Growing United – Upgrading Europe’s Convergence Machine, World Bank, 2018
2 J. Mokyr, “Secular Stagnation? Not in Your Life.” InSecular Stagnation: Facts, Causes and Cures, edited by C. Teulingsand R. Baldwin, CEPR Press, London 2014, 83-90.