Trimestrale di cultura civile

Spence: l’economia riparte
ma a guadagnarci saranno pochi

  • AGO 2021
  • Silvia Becciu

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Il nuovo capitalismo fa leva sul valore immateriale, specie digitale e uso dei dati. Polarizza reddito e lavoro, perché grandi ricchezze vengono prodotte da un numero esiguo di persone (vedi Facebook Amazon, ecc.) e gli è coessenziale la diseguaglianza. Per affrontare la quale sono chiamati in causa sistemi previdenziali e servizi sociali, redistribuzione del reddito e della ricchezza, percorsi educativi e formativi adeguati al futuro

Dopo aver toccato il fondo non si può che risalire, recita un vecchio adagio. Anche i settori dell’economia più colpiti dalla pandemia si stanno risollevando e le stime di crescita per il 2021 e 2022 vengono riviste al rialzo (l’Ocse prevede +5,6 per cento il PIL mondiale per il 2021 e +4 per cento nel 2022, con un incremento di 1,4 punti e di 0,3 punti rispetto alle proiezioni di dicembre).

È arrivato quindi il momento dell’ottimismo anche sul fronte dell’occupazione? Non proprio, stando a ciò che sostiene Michael Spence, americano, premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof, intervenuto di recente alla Summer School dell’Istituto di studi Economici e per l’Occupazione (Iseo).

Il punto è che porzioni crescenti di ricchezza sono prodotte da un numero sempre più esiguo di persone. Secondo Spence, che oggi insegna anche in Italia all’Università Bocconi di Milano, la domanda più importante da porsi è:

“Dove va a finire questo valore?”. Se "la polarizzazione del lavoro e del reddito, parte importante dei recenti modelli di crescita, è ciò con cui dovremo confrontarci nel prossimo decennio”, l’impatto sull’occupazione è tutt’altro che scontato.

Prima di tutto perché “le macchine sono entrate in territori nuovi in cui prima non erano presenti”; poi perché “la transizione delle competenze deve essere gestita bene”, anche con sistemi di previdenza adeguati, perché i lavoratori saranno chiamati, grazie a una migliore distribuzione del reddito e della ricchezza, a investire su se stessi.

Un’economia sempre più immateriale

Il valore delle grandi aziende sui mercati azionari, come sappiamo, è dato solo in parte dai beni materiali che possiedono, come le attrezzature, gli impianti e gli immobili. Nel passato, fino agli anni Settanta o Ottanta, il valore, praticamente, coincideva con questo tipo di beni, registrati e contabilizzati. Nel tempo, una parte crescente di quel valore patrimoniale è stata associata alla sua parte immateriale, che dipende, fondamentalmente – dice Spence – dalla capacità e dalla competenza nell’utilizzare i dati. Quindi dall’alta qualificazione del capitale umano. “In passato definivamo questa realtà come il passaggio verso un’economia basata sulla conoscenza. Un termine po’ vago – nota l’economista – ma che indica un concetto corretto”.

Il valore immateriale di un’azienda non è tutto legato al digitale. All’inizio del 2000, il valore di mercato di Nike era di 11 miliardi di dollari, “il che ci sembrava piuttosto buono” commenta Spence, che all’epoca faceva parte del consiglio di amministrazione dell’azienda. “Circa vent’anni dopo, il valore di mercato di Nike è di circa 212 miliardi di dollari. Un cambiamento notevole per un’azienda che non è una grande proprietaria di beni. Nike infatti ha un’enorme produzione di scarpe e abbigliamento sportivi, ma non li possiede. Tutto viene realizzato da aziende collegate e sparse in diverse parti del mondo, come in Cina, in Vietnam, in Bangladesh. I beni immateriali di questa azienda hanno a che fare con elementi quali il design, il brand e i valori a esso associati”.

Un recente documento del McKinsey Global Institute (vedi Figura 1) mostra le differenze significative nei livelli di investimento tra Paesi sviluppati fra il 1995 e il 2019. L’investimento in beni intangibili è stato in questi ultimi 25 anni molto maggiore della crescita del valore aggiunto lordo (GVA – Gross Value Added).

I numeri espressi in figura riguardano la crescita del GVA per specifici settori, relativi a vari tipi di beni immateriali come innovazione, dati e analisi, relazioni umane, capitale, il valore del marchio, misurato come quota del valore aggiunto lordo, oltre che per l’intera economia.
Come mostra la figura, esistono differenze nella crescita, fra i vari Paesi analizzati, nel caso in cui questi Paesi stiano investendo in beni immateriali (innovazione, data analysis, ecc.).

In Italia, a un investimento in beni intangibili del 6,8 per cento sul GVA, corrisponde una crescita del PIL dello 0,3 per cento. Scenario distante da quello della prima in classifica, la Svezia, che ha investito il 12,2 per cento ottenendo un 2,4 per cento di crescita del GVA. La media degli 11 Paesi considerati è del 9,2 per cento di investimento con un impatto dell’1,8 per cento sulla crescita del GVA.

La rivoluzione industriale inglese si è diffusa in tutto il mondo, si sta diffondendo ancora e, in sostanza, ha procurato macchinari che hanno permesso alle persone di fare le cose 70 volte più velocemente di quanto avrebbero potuto fare senza di essi. “Ma – continua Spence – la parte che doveva gestire il controllo, il coordinamento, le transazioni, la registrazione o qualsiasi cosa avesse a che fare con le informazioni era non digitale e nelle mani degli esseri umani”.

È solo negli ultimi cinquant’anni che macchine potenti hanno conquistato quel settore dell’economia.

Un centro di distribuzione di Amazon – esemplifica Spence – è sostanzialmente controllato dai computer. Gli ordini arrivano, vengono registrati e poi fondamentalmente ciò che accade è che il sistema sa che ci sono milioni e milioni di prodotti in questa enorme struttura e che sono in contenitori accatastati negli scaffali. I computer sanno dove sono, e questi piccoli aggeggi, che si chiamano robot Kiva (Amazon ora possiede l’azienda che li ha sviluppati) ricevono le istruzioni per andare a prendere un contenitore particolare, senza scontrarsi tra loro, e portarlo in un luogo dove un essere umano prende il prodotto e lo scansiona con un codice a barre. Non tutto, ma una parte notevole di questo processo avviene attraverso il software Botometer.

Questa è, tra l’altro, un’applicazione piuttosto semplice della tecnologia, senza la sofisticata versione moderna dell’apprendimento automatico e senza gli enormi progressi dell’IA.

Disponiamo di potenti assistenti digitali o di macchine che, in effetti, svolgono lavori in completa autonomia perché, in un certo senso, sono provviste di un “cervello”. Sono capaci di coordinare un’attività in un ambiente strutturato. Insiste Spence: “Poi c’è la questione dell’apprendimento automatico che fa sì che il territorio in cui le macchine possono entrare, che siano complementari all’uomo o sostitutive, dipende dal contesto, ma è un territorio più ampio. C’è una robotica molto più avanzata, che probabilmente è soprattutto sostitutiva. E poi ci sono degli assistenti digitali potenti.

Penso che non siamo lontani dal giorno in cui ogni medico disporrà di un assistente digitale che legga tutta la letteratura e in pratica gli dica: ‘Questi sono i cinque articoli della tua specialità che devi leggere’, perché le macchine sono in grado di farlo a un ritmo sovrumano, quando sanno come farlo”.

Le frontiere dello sviluppo tecnologico

La direzione presa nella scelta del modello di sviluppo pare irreversibile. Un recente rapporto di Bloomberg1 mostra (vedi Figura 2) che il numero delle imprese basate su software e hardware tecnologici è cresciuto enormemente: trent’anni fa erano 3 sul totale delle 50 prime imprese; sono diventate 21.

Mi aspetterei – commenta Spence – che tra circa cinque anni, le parti tecnologiche relative all’hardware e al software si saranno ingrandite. Soprattutto quella riguardante il software continuerà a crescere”.

Si tratta di un trend che si sta diffondendo in tutto il mondo. “La parte del leone – continua l’economista americano –, un tempo la facevano soprattutto gli Stati Uniti, ma ora, gli “unicorni”, start up tecnologiche che creano molto rapidamente un miliardo di dollari di valore, hanno base non solo in Cina, ma anche in America Latina. Oggi con importanti aziende digitali, con l’e-commerce, con la gig economy e i pagamenti elettronici, ad esempio, si crea un’enorme quantità di valore in molti Paesi, come l’Indonesia e sicuramente l’India. L’India digitale sta crescendo molto rapidamente con il conglomerato di imprese chiamato Jio Platform, creato da Mukesh Ambani. L’Europa, considerati i livelli di reddito in alcune di queste aree è in ritardo”.

Visto quanto esposto finora, è possibile fare previsioni su come sarà il futuro del mondo economico? “

Nel prossimo decennio – chiarisce Spence – ciò che è destinato a crescere ulteriormente e in modo rapido sono le tecnologie e la loro applicazione in più settori e, nel caso del digitale, in tutta l’economia.

Gli altri settori ad alta crescita sono quelli che interessano la scienza biomedica e l’assistenza sanitaria. Per molti è in arrivo una sorta di età dell’oro in questi campi, grazie ai Big Data, all’editing genomico, all’autodiagnostica e alla telemedicina. In queste aree ci sono margini di sviluppo enormi. Così come anche in un terzo settore, quello della transizione energetica. O almeno, speriamo di vedere in questo tipo di attività imprenditoriale – pensiamo ad esempio a tutta una serie di attività per far fronte al cambiamento climatico – livelli molto alti di investimento e alti ritorni”.

Poche persone producono sempre più valore

L’economia mondiale sembrerebbe aver trovato da tempo la chiave per aumentare la sua ricchezza a livelli esponenziali. C’è un problema però, che Spence spiega in questo modo: “L’entità di questi beni, che è generalmente correlata alla crescita, è anche legata alla disuguaglianza, perché questi beni immateriali sono creati da un numero relativamente piccolo di persone”.

La Figura 3 mostra le migliori aziende tecnologiche in base al valore di mercato creato per persona impiegata (VMPI – Value Market Potential Index)2. Per una catena di ristoranti, ad esempio, la cifra è pari a 75mila dollari. Dalla Figura 3 si vedono invece cifre da capogiro: Facebook corrisponde a 19,7 milioni di dollari per persona impiegata nell’azienda; Amazon ha quasi 800mila dipendenti a livello globale e la creazione di valore è di 2,2 milioni di dollari per dipendente, con un valore di mercato di 1760 miliardi di dollari. Tali aziende, nella maggior parte, non sono ad alta intensità di capitale in senso tradizionale, ma sono le migliori in termini di valore aggiunto per dipendente. Non si tratta solo di aziende tecnologiche. Vi si trovano ad esempio anche e e ad avere un numero relativamente piccolo di dipendenti.

Il divario tra valore prodotto e numero di persone impiegate a produrlo, costituisce una sfida decisiva per i sistemi di governance di tutto il mondo e riguarda la ridistribuzione di reddito e ricchezza e quindi, nel lungo periodo, la sostenibilità del sistema capitalistico.

Il messaggio principale che, a questo proposito, voglio trasmettere – insiste Spence – è una domanda: dove va a finire questo valore? Questo modello di produzione del valore, di per sé, non è stato progettato per diffondere reddito e ricchezza nell’economia”.

La trasformazione richiesta al lavoro e a tutto il sistema

Connesso al tema della disuguaglianza e della tenuta del sistema c’è quello della ricaduta sull’occupazione che le trasformazioni immateriale e digitale dell’economia comportano. Saremo capaci di gestire queste transizioni e di aiutare le persone a non subirle sul lavoro? E di quali cambiamenti si tratta? L’economista riporta uno studio condotto sulla base di un lavoro del Mit che riguarda l’automazione. Il riferimento è all’economia americana, ma ci sono studi simili in altri Paesi. Il mondo del lavoro è stato diviso in quattro categorie basate su due distinzioni. Una è tra routine e non routine, l’altra è tra lavoro manuale e cognitivo, quella che in America distingue tra colletti bianchi e colletti blu.

Lo studio mostra che i lavori non di routine stanno crescendo sia tra i colletti bianchi sia tra i colletti blu, e che i lavori di routine sono in declino, con più evidenza nel periodo dopo il 2000, a causa del diffondersi del digitale. “Routine” infatti indica, essenzialmente, un lavoro eseguito seguendo una sequenza logica di passaggi che possono essere compresi, articolati e alla fine codificati, cioè computerizzati.

È probabile che la maggior parte delle persone pensi che l’automazione riguardi principalmente i lavori dei colletti blu, come accadeva in origine. Adesso invece riguarda in modo sostanziale anche i lavori dei colletti bianchi, come gli archivisti o qualsiasi altro impiego abbia a che fare con la conservazione di informazioni e banche dati.

Insieme alla globalizzazione si è creato un modello di ciò che – spiega Spence – chiamerò ‘polarizzazione del lavoro e del reddito’ che sono parte dei recenti modelli di crescita con cui dovremo fare i conti nel prossimo decennio. Ora, se riusciremo o meno a fare quel lavoro, a questo punto, è una questione aperta.

Le transizioni nel lavoro riguardano così tante persone e così tante vite che vale la pena parlarne”.

Ci stiamo addentrando in un mondo in cui avremo ovunque delle macchine accanto a noi. “La transizione delle competenze –avverte Spence – deve essere gestita bene, cioè va presa seriamente. Inoltre i sistemi di previdenza sociale devono funzionare e la distribuzione del reddito e della ricchezza diventerà ancora più importante perché occorrerà sempre più investire su se stessi”.

Per questo l’economista ritiene che i Paesi che affrontano meglio le disuguaglianze avendo sistemi di previdenza sociale e servizi sociali ben strutturati, saranno meglio attrezzati ad affrontare il passaggio verso il modello di economia che si sta affermando. In generale, sembra siano i Paesi nordici europei ad affrontare questo momento meglio della maggior parte degli altri, grazie a un’economia innovativa fortemente competitiva e a un sistema molto solidale e centrato sull’uomo. “È un percorso che dovremo intraprendere tutti”, conclude Spence, aggiungendo che andrebbe seriamente preso in considerazione il reddito di base universale; e bisognerebbe anche porre un limite ai livelli di reddito, in modo da non spingere una grande quantità di persone in settori dove c’è un eccesso di offerta e lasciare altri con scarsa possibilità di costruire un livello decente di guadagno, o di accumulare ricchezza.

In definitiva, “non resta che far sì che le persone pensino di contribuire in modo produttivo con le giuste competenze in tutto lo spettro delle attività”.

È la transizione multilaterale che sembriamo attraversare la vera grande sfida del momento; ed è un’occasione interessante, secondo Spence, perché richiede tutto l’impegno possibile. Infatti “occorre un governo dei grandi sistemi di previdenza sociale, che il business prenda le cose sul serio. Infine sono necessarie istituzioni educative e di altro genere che aiutino le persone a superare queste transizioni, a riacquisire queste competenze”.

 

NOTE

1 https://www.bloomberg.com/graphics/2021-biggest-global-companies-growth-trends/

2 https://craft.co/reports/s-p-500-market-value-per-employee-perspective

Michael Spence è un economista statunitense, insignito del premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica.

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