Trimestrale di cultura civile

La regressione del lavoro delle donne

  • AGO 2021
  • Barbara Curli

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La lunga stagione segnata dalla presenza del Covid-19 ha accelerato l’evidenza di un trend già in atto. Infatti, molte conquiste femminili legate al mondo del lavoro hanno subito negli ultimi anni una progressiva contrazione. Una tendenza che si è esasperata nel corso della pandemia. Sia a livello di disoccupazione, di deficit in materia di tecnologia e sia di gestione del tempo nel contesto familiare. E le misure adottate nell’Ue per ripartire sembrano orientate a sostenere soprattutto settori produttivi declinati al maschile. Quando, per una ripartenza alla pari, occorrerebbe “pensare” anche al lavoro femminile inserendolo in un trend strutturale. Per costruire un vero e proprio empowerment delle donne.

Per molti versi, l’attuale pandemia da Covid-19 può (potrà) essere considerata uno spartiacque della modernità, uno di quei tornanti della storia che fanno da cassa di risonanza di processi già in corso e costringono a misurarsi con certe caratteristiche della trasformazione delle società (la tecnologia, il lavoro, il rapporto con i poteri pubblici, la percezione del futuro) e in particolare della loro dimensione di genere.
È un po’ quanto accadde anche durante l’altra grande pandemia del Novecento, la “febbre spagnola”, che devastò il mondo tra il 1918 e il 1919 e fu particolarmente virulenta in Europa e negli Stati Uniti. A differenza del Covid, tuttavia, la spagnola colpì maggiormente le persone più giovani, in primo luogo i soldati, e le donne, specie le giovani donne lavoratrici, cioè i due gruppi sociali che avevano sperimentato la maggiore mobilità di guerra e, dunque, i maggiori assembramenti, gli uni nelle trincee, le altre nelle fabbriche di armi, negli uffici, nell’assistenza ai feriti e nei vari altri settori dell’economia di guerra.
La guerra mondiale era stata un momento di esplosione dei caratteri tradizionalmente legati alla modernità, in particolare alla modernità femminile, accelerando dinamiche già in corso legate a industrializzazione, terziarizzazione e differenziazione economica e sociale, come mobilità, diversificazione delle mansioni lavorative, maggiore visibilità pubblica, nuove forme di cittadinanza, sia sociale sia politica (in alcuni paesi come gli Stati Uniti dopo la guerra le donne ottennero il diritto di voto).
Anche questa attuale pandemia ha messo in luce, e ha in parte esasperato, alcune grandi questioni e trend sul lavoro delle donne che erano da tempo sotto i riflettori delle scienze sociali, anche se sono in parte di segno opposto a quanto accaduto agli inizi del Novecento.

Conquiste femminili in regresso
In primo luogo, l’attuale pandemia sembra avere riportato indietro molte conquiste femminili, per ribadire piuttosto ideologie tradizionali dei ruoli familiari fondati sul genere e produrre nuove forme di disuguaglianza tra uomini e donne, al punto che già uno studio di Eurofound pubblicato agli inizi del 2020 durante la prima ondata della pandemia (Closing gender gaps in employment: defending progress and responding to COVID-19 challenges), sottolineava “il grave rischio di cancellare decenni di progressi in relazione alla parità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro”. Inoltre, la pandemia ha riproposto con forza la questione delle disuguaglianze su scala globale, per esempio in merito all’accesso alle nuove tecnologie (secondo il segretario dell’Onu, la metà della popolazione mondiale non ha accesso alla rete), ma ha avuto anche diversi effetti su varie categorie di lavoratrici, evidenziando disuguaglianze tra le donne stesse (per esempio, tra donne che hanno accesso alla rete e donne che non ce l’hanno).
Infine, la pandemia ha svolto il ruolo di “grande acceleratore” della trasformazione digitale. In particolare, il massiccio, spesso inevitabile, ricorso allo smart working /lavoro a distanza ha riproposto la questione del rapporto tra tecnologia e lavoro delle donne. Se storicamente la tecnologia ha emancipato molte donne (così come molti uomini) dalla “fatica” fisica in senso lato (pensiamo alla lavatrice) e la modernità industriale ha portato alla separazione tra domesticità e luogo di lavoro (uscire di casa per andare in fabbrica, andare in ufficio, andare a scuola, all’università) e quindi a separare tempi del lavoro e tempi della domesticità, le nuove tecnologie digitali sembrano avere fatto tornare (più o meno temporaneamente) molte donne a casa. Lo smart working sembra avere cioè ricomposto in molti casi quel binomio casa/lavoro che la modernità industriale aveva separato. E tornare a casa ha significato tornare in case dove ci sono bambini, che a causa della pandemia non vanno a scuola; o dove ci sono soggetti deboli o disabili, dei quali ci si aspetta che le donne si facciano carico; riproponendo quindi – e anzi esasperando – tradizionali ruoli di genere e aumentando soprattutto il lavoro non pagato (di cura) delle donne. Oltre a nuove disuguaglianze, la pandemia sembra dunque avere rafforzato anche nuove “invisibilità” delle donne e nuove fatiche.
Ma sono anche moltissime le donne, occupate in attività che non si sono fermate o non potevano essere svolte online (dalle infermiere alle commesse dei supermercati), che hanno sopportato l’ulteriore fatica dell’emergenza e sono state in prima linea nel fronteggiarla. Basti considerare che nell’UE le donne costituiscono il 76% degli operatori sanitari (medici, infermiere, ostetriche e personale delle residenze sanitarie assistenziali), l’82 % degli addetti alle casse, il 93 % degli operatori di assistenza all’infanzia e degli insegnanti, il 95 % dei collaboratori e addetti alle pulizie domestiche e l’86 % degli addetti all’assistenza a domicilio.

La disoccupazione femminile da Covid
Tuttavia, come sappiamo, la pandemia non è stata soltanto una crisi sanitaria: essa ha prodotto una grave crisi economica, che ha colpito proporzionalmente molto di più le donne che gli uomini, tanto che si è parlato di una she-cession, cioè una recessione declinata al femminile, rispetto alla crisi del 2008 che era stata una man-cession, avendo colpito maggiormente gli uomini. In Italia, dei 444mila lavoratori che hanno perso il lavoro nei primi 10 mesi della pandemia, i tre quarti sono stati donne. Nell’UE, tra marzo 2020 e febbraio 2021, la disoccupazione femminile è cresciuta del 20,4%, quella maschile del 16,3%. E questo, intanto, perché le donne sono occupate in misura proporzionalmente maggiore nel settore informale, e le occupazioni part-time, temporanee, stagionali, sono state le prime a essere perdute: in questo settore c’è stato un crollo dell’occupazione femminile (si calcola che in Africa sia stato di oltre il 60%). Basti pensare che nell’Unione europea, il 26,5% delle donne ha un’occupazione interinale, a tempo parziale o precaria, rispetto al 15 % degli uomini. Le donne sono inoltre sovrarappresentate nei settori che sono stati più colpiti dalla crisi, come il turismo, l’accoglienza, il commercio al dettaglio non alimentare, alcuni servizi. Le donne hanno poi maggiori difficoltà di accesso al credito, in tempi normali e ancora di più in momenti di crisi come questo.
Un’Indagine Doxa commissionata nel 2020 dal Comitato per la programmazione e l’educazione finanziaria del Ministero dell’Economia e Finanze ha rivelato come la fragilità finanziaria delle famiglie italiane (già un dato strutturale nella società italiana) sia aumentata con il Covid e abbia una netta dimensione di genere: l’Indagine ha rinvenuto una fragilità nel 26% delle famiglie guidate da un uomo, e nel 38 % delle famiglie guidate da una donna. Hanno dichiarato di essere afflitti da “ansia finanziaria” il 30% degli uomini e il 43% delle donne.
La Relazione del novembre 2020 della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento europeo (Prospettive di genere nella crisi COVID-19 e nel periodo successivo alla crisi) ha sottolineato come un onere sproporzionato della crisi sia infatti ricaduto sulle famiglie monoparentali, l’85% delle quali è costituito da donne, il che equivale a 6,7 milioni di famiglie costituite da madri sole nell’UE, di cui quasi la metà è esposta a un grave rischio di esclusione sociale o povertà.

Recovery Fund “maschilista”
Le donne dovranno quindi probabilmente sopportare maggiormente gli effetti di medio lungo termine della pandemia. Anche perché, come da più parti è stato osservato, il Recovery Fund è stato sostanzialmente indirizzato a settori a maggiore occupazione maschile (costruzioni, energia, agricoltura), anche nella loro declinazione di transizione ecologica, mentre continuano a essere poche le misure specificatamente indirizzate alla dimensione di genere della ripresa, per esempio di maggiori garanzie a lavori precari o sottopagati, dove le donne sono più numerose.
Già nell’aprile del 2020 un Rapporto delle Nazioni Unite (Impact of Covid-19 on Women) raccomandava che le misure di contrasto alla crisi economica da Covid-19 includessero i lavoratori informali, part-time e stagionali “la maggior parte dei quali è costituita da donne”. Le misure di ripresa quindi andranno certamente a vantaggio delle donne, ma incidentalmente, in quanto parte più ampia di un eventuale ripresa generale, non in quanto esito di misure specifiche. In fondo, con pochissime eccezioni, le donne sono anche minoritarie nel dibattito pubblico sul dopo pandemia e nei ruoli decisionali riguardo la ripresa. E in questo quadro generale l’Italia, come è noto, ha sue specificità: essa è, tra i grandi Paesi europei, quello con il tasso di occupazione femminile più basso; è il più arretrato nella spesa in servizi educativi e di cura alla prima infanzia come percentuale del PIL; e ha il primato dell’ignoranza finanziaria, anche per le donne più giovani, mentre le conoscenze finanziarie si sono rivelate in certi casi uno scudo alla crisi.


Le donne e i settori STEM
Per collocare storicamente quanto sta avvenendo e soprattutto per interrogarci su quali siano le prospettive per il lavoro delle donne, per i diversi lavori delle donne perché come si è detto gli effetti della crisi sono stati diversi per diverse categorie di lavoratrici occorre pertanto domandarsi se e in quali modi le vicende in corso siano una novità o piuttosto si tratti di trend già in corso, esasperati dalla crisi pandemica.
A questo proposito, si possono fare alcune considerazioni conclusive sul rapporto tra lavoro e tecnologia. La pandemia ha certamente reso più visibili dinamiche già in corso legate al cambiamento tecnologico, in particolare alla rivoluzione informatica e delle TLC, del digitale e dell’automazione, in corso da circa 40 anni, che ha cambiato e sta cambiando profondamente la natura e i luoghi del lavoro e la sua dimensione di genere. Ci sono molti studi sulle implicazioni di genere delle nuove tecnologie, che si sono domandati se e quanto i lavori delle donne siano vulnerabili a tali trasformazioni, e quali politiche siano necessarie affinché il cambiamento tecnologico riduca e non amplifichi il divario di genere. Certamente, la concentrazione delle donne in mansioni ripetitive, standardizzate, di routine e di minore responsabilità, che sono anche quelle meno retribuite e soprattutto dove maggiore è il divario retributivo rispetto agli uomini, sono le mansioni più esposte all’automazione e a essere sostituite da macchine.
Si presume che le donne con più bassi titoli di studio, quelle relativamente più anziane e occupate in mansioni impiegatizie, nei servizi e nella vendita al pubblico, siano tra le categorie maggiormente esposte all’automazione. E sappiamo anche da molti studi che la concentrazione di donne in questi settori più a rischio è tanto maggiore quanto minore è il tasso di occupazione femminile, e l’Italia da questo punto di vista, come appena detto, è uno dei Paesi con il livello più basso. Le donne sono invece ancora poco rappresentate nei settori cosiddetti STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica), che sono settori in crescita e dove ci si aspetta che il cambiamento tecnologico richieda lavoro umano qualificato (piuttosto che sostituzione con macchine). Sempre secondo la Relazione del Parlamento europeo sopracitata, tuttavia, nell’UE soltanto il 7% delle donne lavora nei settori STEM, rispetto al 33% degli uomini.
Sembra evidente, dunque, che l’uscita da questa crisi vada pensata su un doppio livello: quello delle misure immediate, che possono alleviare la condizione economica delle categorie di lavoratrici più duramente colpite; e quello di un approccio al recovery che sia in grado di “pensare” il lavoro femminile nel quadro di trend strutturali di più lungo periodo e sia orientato a un empowerment delle donne in tutti i settori, specie nelle posizioni decisionali, che a loro volta lo possono favorire. Da questo punto di vista, l’epidemia può essere una opportunità da cogliere con tempestività e convinzione, anche se la evidente assenza, o quasi, di donne da “cabine di regia” e varie task force che stanno progettando la ripresa non fa troppo bene sperare.

Questo articolo è tratto dall’intervento di Barbara Curli all’incontro della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere. Pandemia e società” del 5 marzo 2021.

 

Barbara Curli è professoressa ordinaria di Storia contemporanea all’Università di Torino. Si occupa di storia di genere, di storia geopolitica delle fonti di energia e di storia dell’integrazione europea. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine.

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