Trimestrale di cultura civile

La dignità del lavoro nell’economia digitale

  • AGO 2021
  • Marco Cilento

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Le inaspettate proteste dei lavoratori nei siti produttivi di Amazon hanno richiamato l’attenzione in tutto il mondo sulle condizioni di lavoro sempre più vulnerabili. Ma è un grave problema che riguarda tutti i big player delle piattaforme digitali. Veri e propri colossi in quanto imprese più capitalizzate su scala globale. Davanti a questo strapotere si rende necessario razionalizzare un percorso di pressione politico-giurisprudenziale in chiave transnazionale. Per passare dall’analisi all’azione concreta. Per giungere a un nuovo contratto sociale. Nell’interpretazione più innovativa dell’agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile. E con l’Europa pilastro di questa complicata sfida di civiltà.

La testimonianza di Jennifer Bates – attivista sindacale del sito di Amazon in Alabama – al Senato degli Stati Uniti, racconta di condizioni di lavoro estremamente vulnerabili per quanto riguarda l’orario di lavoro e la salute, il controllo sulle prestazioni, la privacy dei lavoratori. La lotta per il riconoscimento sindacale come controparte aziendale, nello stabilimento di Bessemer, si è imbattuta nella feroce opposizione aziendale e in alcune pratiche antisindacali. Ma la denuncia di Jennifer Bates trova riscontro nei siti produttivi di Amazon nel mondo, nelle denunce di licenziamenti illegittimi di sindacalisti nel sito di Siviglia, negli scioperi orchestrati dal sindacato tedesco in Germania. In Italia, abbiamo avuto testimonianza di una iniziativa che ha condotto, nella primavera del 2021, a quella che è considerata l’azione sindacale maggiormente efficace nel mondo Amazon. L’esperienza unisce i lavoratori di Amazon nei diversi angoli del mondo e la loro frustrazione ha avuto voce in alcune giornate mondiali di protesta. La contestazione comune si traduce però in azioni prevalentemente locali, che appaiono inadeguate a controbilanciare lo strapotere globale di Amazon.

Divari e fratture
Il caso Amazon mette a fuoco la vulnerabilità del lavoro del futuro nelle imprese che utilizzano le piattaforme digitali per creare nuove forme di business o innovare forme di business più tradizionali. Strutture aziendali molto complesse (Amazon è molto di più di un negozio online) hanno un’influenza significativa in importanti segmenti dell’economia digitale: Google per quanto riguarda i motori di ricerca, Facebook per il social networking, Apple per l’hardware e il software legato all’evoluzione del telefono, Microsoft per lo sviluppo del software professionale. Si può pensare, inoltre, a colossi dei servizi come Deliveroo, o Uber.
Queste imprese entrano nella vita di tutti gli individui, osservano la quotidianità e monetizzano i dati raccolti, intercettano la spesa di imprese e famiglie, integrano i servizi al punto di diventare essenziali allo sviluppo di imprese e individui. Si tratta delle imprese più capitalizzate al mondo, che fanno della posizione dominante, dell’elusione fiscale e della globalità, il tratto qualificante del loro modello di business.
Matura così un’aspettativa diffusa rivolta al legislatore (quindi al decisore politico) perché
regolamenti gli aspetti di competizione e di tassazione dell’economia digitale. Si accendono
i riflettori sui flussi monetari e di dati ma, come emerge da semplici ricerche informatiche,
pochi si interessano alle persone che sono in condizioni di disagio nell’economia digitale.

E i lavoratori?
Nel variegato mondo dell’economia digitale convivono vecchie e nuove forme di sfruttamento delle persone. Il lavoro meno qualificato è destinato a essere profondamente penalizzato, perché il valore aggiunto è distribuito in modo da premiare in modo sproporzionato i talenti, il capitale e la tecnologia. Che questo sia un problema trasversale all’economia digitale, è dimostrato dai dati aggregati che raccontano le fratture sociali che minano la convivenza civile nelle nostre comunità.
Si possono richiamare i divari educativi, i divari di genere, la diffusione dei contratti precari, l’invasività delle nuove tecnologie nel controllo dei comportanti dei lavoratori, i bassi salari e l’obsolescenza dei sistemi tradizionali di protezione sociale, la vulnerabilità della prestazione transnazionale del lavoro1.Questi divari o fratture non hanno origine nell’economia digitalizzata, certo, ma i comportamenti di Amazon e delle imprese digitali li alimentano. E non poco.
Iniziano così a crearsi le prime convinzioni. Per modelli economici nuovi, andrebbero riviste le categorie che qualificano l’autonomia e la subordinazione nel rapporto di lavoro. Andrebbero affrontate le cause della vulnerabilità del lavoro al fine di proteggere la prestazione e assegnare tutele ai lavoratori.

La sostenibilità dei modelli si sviluppo
Che le vecchie categorie di qualificazione del lavoro subordinato e autonomo siano obsolete lo dimostra il comportamento altalenante della giurisprudenza europea. È recente la sentenza di un tribunale inglese2 che, nell’ambito di una diatriba sindacale, qualifica come autonomo il lavoro dei raider di Deliveroo, ostacolandone così la sindacalizzazione. Tale sentenza andrà bilanciata con l’orientamento espresso dalla Corte suprema inglese circa i conducenti di mezzi iscritti alla piattaforma Uber, che sono invece ritenuti dipendenti. La giurisprudenza è altalenante in molti Paesi europei. Ciò è dovuto alla capacità camaleontica delle imprese digitali di modificare i rapporti contrattuali con le proprie controparti per adattarli al mutato orientamento giurisprudenziale. Quando il legislatore prova a metterci mano, ogni colosso di Internet utilizza la propria forza dissuasiva (che, come detto sopra, non è affatto marginale) adducendo le ragioni della propria specificità di business. È vero che ogni impresa è diversa dalle altre, ma è anche vero che ogni settore economico presenta caratteristiche di lavoro omogenee a prescindere dall’entità aziendale in cui tale lavoro viene svolto. La difformità di valutazione è probabilmente dovuta a una carenza di tipizzazione del lavoro nella nuova economia digitale. Direi che il problema, quindi, non è di analisi (la questione ormai è fin troppo nota) ma di capacità di azione.
Il problema è così sentito, e ha profili talmente transnazionali, che inizia a essere oggetto di osservazione da parte delle principali istituzioni che compongono la governance mondiale. Le riflessioni dell’OIL in materia di futuro del lavoro3 hanno influenzato il G20 a presidenza italiana che concluderà i propri lavori nell’ottobre 2021, e che promette di occuparsi non solo di tassazione delle multinazionali digitali ma anche di arretramento dei diritti del lavoro nella nuova economia. Attenzione va data alle iniziative dell’Unione europea in materia di tutela del lavoro del futuro e nelle piattaforme digitali. Sembra crearsi un momento per l’azione perché cresce la convinzione che la dignità del lavoro nell’economia digitale è un elemento portante della sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo.
Se i lavoratori fragili e non sindacalizzati diventano una costante nel settore economico di maggiore espansione e più proiettato nel futuro, si pone allora un problema di sostenibilità del modello di sviluppo attuale, così come interpretato dall’Agenda 2030 dell’ONU e dai suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Quest’ultima è importante perché ci regala un linguaggio comune e una comunità di intenti per il governo del mondo che interessa anche il concetto di lavoro decente (obiettivo 8). Il messaggio è che la non-sostenibilità economica e sociale mette a rischio l’intera agenda della sostenibilità, inclusa la transizione ecologica che pure sta a cuore ai lavoratori. Che il difficile governo del mondo abbia un’agenda sul lavoro decente non è cosa da poco, visto che la dignità dei lavoratori nella nuova economia digitale passa proprio dalla regolamentazione transnazionale del lavoro.
La Confederazione europea dei sindacati ha individuato nella crescita sostenibile e nel lavoro decente (definito nell’obiettivo 8 dell’Agenda 2030) il fattore trainante di un modello di sviluppo che alimenti il benessere economico delle persone, ambisca a un mercato del lavoro inclusivo e combatta la vulnerabilità dei lavoratori. Ne ha tratto un programma di azione volto al rafforzamento dei diritti minimi goduti dai lavoratori europei e un progetto di convergenza delle pratiche di tutela, puntando alle migliori registrate nell’Unione europea. Ha sviluppato, quindi, un indice in grado di misurare il potenziale di sostenibilità di un’economia nazionale4.
L’indice esprime l’ampiezza del cammino che le nostre economie devono compiere per condurre in porto la transizione ecologica e la trasformazione digitale e consente di valutare se il rispetto per il lavoro è tale da rendere tali transizioni possibili, probabili o difficoltose. Se ne ricava che l’Unione europea ha un potenziale di sostenibilità più alto di altre regioni del mondo ma che, comunque, il suo modello di sviluppo è lontano dall’essere sostenibile. Emerge un differenziale eccessivo nella condizione di sostenibilità sociale dei partner europei e una flagrante inadeguatezza dei sistemi di monitoraggio della condizione socio-economica dell’area euro perché il monitoraggio odierno è affidato a parametri ancorati esclusivamente al PIL. Le parti sociali europee ne hanno evidenziato i limiti e proposto una nuova narrazione dello sviluppo ispirata, ancora una volta, al concetto di sviluppo sostenibile5.

Il modello sociale europeo
L’Unione europea è entrata nella lotta alla pandemia con un modello di sviluppo già compromesso dalle politiche di austerità. Peraltro, i grandi operatori dell’economia digitale hanno consolidato la posizione dominante nei loro segmenti di mercato durante la pandemia. Non sorprende quindi che le persone inseriscano tra le priorità del mondo post-Covid la giustizia sociale e il ribilanciamento dei poteri sui mercati6. In Europa, questo sentimento è più forte tanto da porre la fiducia nel futuro in correlazione con la capacità della politica e delle forze sociali di compiere tale ribilanciamento di interessi e poteri.
Il senso di disagio espresso dagli europei non deve stupire. Il modello sociale europeo è fondato sulla tutela del lavoro e sulla distribuzione equa della ricchezza. Per preservarlo l’Unione europea ha proposto, nel 2017, un Pilastro europeo dei diritti sociali. Il Pilastro afferma la necessità di disegnare il modello sociale europeo su 20 principi che riguardano il lavoratore del nostro secolo, le cui competenze, le opportunità, i tempi, le condizioni del lavoro e la protezione sociale sono adatte alle sfide dei nostri tempi. Dobbiamo però essere coscienti che senza contrattazione collettiva non è possibile regolare efficacemente la nuova economia. Nel preambolo del Pilastro si legge che “Il dialogo sociale svolge un ruolo centrale nel rafforzare i diritti sociali e nell’incrementare la crescita sostenibile e inclusiva. In linea con la loro autonomia nel negoziare e concludere accordi e con il loro diritto alla contrattazione collettiva e all’azione collettiva, le parti sociali a tutti i livelli hanno un ruolo cruciale da svolgere nello sviluppo e nella realizzazione del pilastro europeo dei diritti sociali”. Il Principio 8 afferma che [le parti sociali] sono incoraggiate a negoziare e concludere accordi collettivi negli ambiti di loro interesse, nel rispetto della propria autonomia e del diritto all’azione collettiva. Ci si aspetta, quindi, misure in grado di obbligare i colossi di Internet a praticare la contrattazione collettiva. Il sindacato, da suo conto, dovrà attrezzarsi per esercitare la contrattazione collettiva in una dimensione transnazionale. Come si coniuga questo progetto politico europeo con il degrado del lavoro in aziende come Amazon?
Si tratta di dare risposta alle fratture più evidenti nella società e mettere in atto pratiche mirate a prevenire il materializzarsi dei rischi sociali più evidenti. L’idea, per lungo tempo dominante nel nuovo millennio, di aiutare lo sviluppo dell’economia moderna e digitale destrutturando le tutele del lavoro ha avuto effetti devastanti sul benessere di chi vive di stipendio, sulla tutela dei lavoratori e sulle opportunità di impiego di categorie svantaggiate. A partire dal 2018, la promulgazione di alcune direttive europee in materia di lavoro (come il work-life balance, le condizioni di trasparenza e prevedibilità della prestazione lavorativa, una nuova direttiva di tutela dei lavoratori in distacco transnazionale, la creazione di un Autorità europea per il lavoro) ha interrotto la moratoria della legislazione sociale che si protraeva da circa due decenni. Nel prossimo futuro l’Unione europea si appresta a regolare la trasparenza e l’adeguatezza nella formazione dei salari, valorizzare la contrattazione collettiva per aumentare i salari bassi e combattere i divari salariali tra uomini e donne.
Sono tutte iniziative rilevanti per i temi qui trattati, ma qualcosa di più specifico si muove nel cantiere europeo per regolare il lavoro nelle piattaforme digitali. L’iniziativa europea è in corso. Ciò che rileva è ancora il potere lobbystico che i colossi del Web esercitano sulle istituzioni con l’obiettivo di individuare categorie di lavoro che frantumano la dicotomia autonomo-dipendente con il chiaro intento di sottrarre il lavoro su piattaforma digitale alla contrattazione collettiva per rimpiazzarla con norme autoregolamentative che sono maggiormente controllabili dalle compagini aziendali, con l’idea che queste meglio si adattano al modello di business delle piattaforme digitali.
In realtà, il gioco attuale nell’iniziativa europea è di chiarire la natura del lavoro nelle piattaforme digitali per ricondurre chi lavora nell’alveo del lavoro tutelato e protetto, ovvero dei salari giusti e dignitosi, del rispetto dei tempi di lavoro e delle ferie, della tutela della salute, dell’accesso alla protezione sociale, del diritto alla formazione, della protezione contro ogni forma di discriminazione7. Si tratta di responsabilizzare i datori di lavoro organizzati su piattaforme digitali per determinare la natura imprenditoriale della loro attività e attribuire loro l’onere della prova circa la natura del rapporto di lavoro, presumendo l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Si tratta di uniformare il trattamento dei lavoratori anche negli aspetti transnazionali riguardanti la giustizia sociale e per impedire forme di competizione al ribasso sul mercato del lavoro. La “soluzione Europea” potrebbe essere di supporto alla regolamentazione nazionale o aziendale dei rapporti di lavoro ma è necessario che si crei un consenso ampio, perché le proposte in campo si trasformino in fatti che cambino il destino dei lavoratori e delle persone che interagiscono con le piattaforme digitali.

L’ammodernamento del diritto del lavoro
Il 7 maggio 2021, in un vertice sociale tenutosi a Porto, la Commissione, il Parlamento europeo, le Parti sociali e il Consiglio europeo (il giorno seguente con delle conclusioni autonome) hanno definito un piano di azione per la messa in atto del Pilastro europeo dei diritti sociali. Il Piano di azione si occupa del lavoro sulle piattaforme digitali.
Ciò che interessa in questo passaggio non è l’analisi, fin troppo nota, ma l’impegno politico e trasversale alle forze istituzionali, politiche e sociali ad affrontare il problema per ricostruire adeguatezza nella remunerazione del lavoro e dignità nella sua esecuzione. Si annuncia una proposta legislativa sulle condizioni di lavoro degli occupati nelle piattaforme digitali, previa consultazione delle parti sociali; un’iniziativa per garantire che il diritto dell’UE in materia di concorrenza non ostacoli i contratti collettivi per (alcuni) lavoratori autonomi;·un Libro bianco sull’Intelligenza Artificiale, un regolamento dell’UE sull’Intelligenza Artificiale (IA) per la diffusione di un uso affidabile dell’IA nell’economia dell’UE, anche sul posto di lavoro e per tutte le forme di lavoro.

Le esperienze legislative richiamate in precedenza dimostrano una nuova capacità delle istituzioni europee di legiferare in materia sociale. Dobbiamo, però, essere consapevoli delle difficoltà del legiferare a livello europeo e della necessità di rafforzare l’iniziativa europea con pratiche diffuse di tutela sui luoghi di lavoro che possano fungere da indirizzo per il legislatore europeo. Non va quindi trascurato il richiamo alle parti sociali a dare seguito all’accordo quadro autonomo sulla digitalizzazione, in particolare per quanto riguarda le modalità di connessione e disconnessione, e le tutele associate alla digitalizzazione dell’economia e del lavoro.
A conclusione si può affermare che il lavoro del futuro sarà fortemente influenzato dalle transizioni gemelle ecologica e digitale. Ci sono però tutti gli elementi per essere consapevoli che non sarà un lavoro necessariamente migliore. Sicuramente andranno rivisitate le categorie giuridiche che definiscono la sotto-protezione nel rapporto di lavoro e la dignità nel lavoro non potrà prescindere dall’aggregazione sindacale, dalla solidarietà transnazionale e dalla contrattazione collettiva. La responsabilità del sindacato sarà di dare voce e mezzi alla solidarietà, con forme di contrattazione collettiva transnazionale. Intanto, è necessario che le forze economiche, sociali e politiche si uniscano in vista di un nuovo contratto sociale che sappia ambire a un benessere diffuso attraverso la creazione di lavoro, uguali opportunità nell’accesso al lavoro e la rimozione dei fattori di vulnerabilità del lavoro. Accomunati da un nuovo sentire comune, tali forze devono impegnarsi nell’ammodernamento del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva di cui oggi si vedono solo i prodromi.
Nel cercare di ammodernare la base di diritti minimi dei lavoratori europei nel mercato interno, l’Unione europea deve sciogliere il nodo della tutela dei lavoratori che prestano la propria opera nell’ambito dei cicli produttivi attivati dalle piattaforme digitali, uscendo dalle ambiguità di forme di lavoro non tipizzate destinate a essere sottoprotette. Il Pilastro europeo dei diritti sociali deve divenire il programma di riferimento delle politiche sociali in Europa. Al contempo non si possono più sottostimare le dinamiche transnazionali e globali dell’economia digitale. La comunità internazionale deve muoversi trovando nell’Agenda 2030 dell’Onu un linguaggio comune per perseguire obiettivi condivisi prendendo coscienza che la crescita sostenibile e il lavoro decente sono il traino che condurrà a compimento la transizione ecologica e la trasformazione digitale.

 

NOTE

1 Qui si possono richiamare diverse fonti. Innanzitutto lo scoreboard sociale dell’Unione europea accessibile su https://composite-indicators.jrc.ec.europa.eu/social-scoreboard/ . Molto informativo è anche il rapporto annuale di Eurostat sull’implementazione dell’agenda 2030. Si possono poi richiamare gli osservatori sul lavoro in distacco transnazionale dell’Istituto sindacale europeo (www.etui.org) e di Eurofound (https://www.eurofound.europa.eu/it) . Un osservatorio sindacale di scala globale è promosso con i rapporti nazionali sullo stato della agenda sociale dello sviluppo sostenibile dalla Confederazione internazionale dei sindacati https://www.ituc-csi.org/2030Agenda .
2 La sentenza è consultabile qui https://www.bailii.org/ew/cases/EWCA/Civ/2021/952.pdf
3 Vedasi soprattutto il rapporto Work for a Brighter Future, Global Commission on the Future of Work, International Labour Office – Geneva: ILO, 2019 e inoltre il documento ILO Centenary Declaration for the Future of Work, 2019. Sono rilevanti le conclusioni del documento liberato dal G7: Our Shared Agenda for Global Action to Build Back Better, consultabile qui https://www.consilium.europa.eu/media/50361/carbis-bay-g7-summit-communique.pdf che istruirà le conclusioni del G20 che concluderà i suoi lavori nell’ottobre 2021. Intanto i ministri del lavoro (configurazione L20) hanno adottato una dichiarazione che riconosce la necessità di rafforzare la tutela del lavoro sulle piattaforme digitali (Fostering an inclusive, sustainable, and resilient recovery of labour markets and societies G20 Labour and Employment Ministerial Declaration June 23, 2021, Catania) – consultabile su https://www.g20.org/wp-content/uploads/2021/06/G20-2021-LEM-Declaration.pdf
4 Si tratta dell’Indice di Sviluppo Sostenibile e Lavoro Decente (#EU_SDG8 index). Costruito sul modello sviluppato dalla Confederazione mondiale dei sindacati, l’indice può essere consultato a questo sito https://est.etuc.org/?page_id=858. La metodologia sviluppata da ASVIS può essere consultata su https://est.etuc.org/?p=123
5 Vedasi ETUC, Business Europe, SGI Europe, SME United: Supplementing GDP as welfare measure: proposed joint list by the European Social Partners, 31 marzo 2021. Consultabile su https://est.etuc.org/wp-content/uploads/2021/05/FINAL-BEYOND-GDP-SOCIAL-PARTNERS-EU.pdf
6 Vedi Global Progress Survey by YouGov, How people in industrialized countries perceive the outlook for their post-pandemic future By Matt Browne & Hans Anker
7 La Confederazione internazionale dei sindacati ha lanciato una petizione mondiale per forzare Amazon al rispetto umano dei lavoratori, al rispetto del diritto alla sindacalizzazione e all’impegno a praticare la contrattazione collettiva. Vedi più ampiamente https://petitions.ituc-csi.org/new-job?msdynttrid=puci7l6QgTsMML8ZdJqT8IaW7AOPNZ-d5XUWc-A334Y&lang=en

 

Marco Cilento è Head of Institutional Policy presso la Confederazione europea dei sindacati (CES). Dottore di ricerca in Diritto del lavoro presso l’Università di Pavia, si occupa in particolare di contrattazione collettiva, salari, governance economica europea, rifugiati e migrazioni, Agenda 2030 e sostenibilità, contrattazione transnazionale.

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