Trimestrale di cultura civile

Il lavoro prima e dopo il Covid-19

  • AGO 2021
  • Andrea Brandolini

Condividi

Dati alla mano veniamo da almeno tre decenni di cambiamenti assai significativi nel mondo del lavoro. Con la pandemia è certo un nuovo rimescolamento delle carte. Con l’ingresso sulla scena e da protagonista del fenomeno digitalizzazione. Tuttavia, sarebbe riduttivo concentrarsi solo sugli aspetti dell’occupazione e del reddito, pur voci fondamentali, per analizzare la direzione del cambiamento in atto. È il futuro del lavoro che si nobilita nel tempo che il lavoratore vive fuori dal posto di lavoro. Un progresso umano profittevole. Un’ipotesi di buon lavoro.

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono1.
Non sono mancati cambiamenti importanti nel lavoro nei tre decenni precedenti la pandemia.

In Italia, si è accentuata la “terziarizzazione” dell’economia, è mutata la composizione professionale dell’occupazione, è cresciuta la quota di lavoratori immigrati. Tra il 1993 e il 2019, il peso dei servizi pubblici e privati sull’occupazione totale è aumentato di dieci punti percentuali al 70%, mentre quello dell’industria e delle costruzioni si riduceva di sette punti al 26% e quello dell’agricoltura scendeva al 4%. Il numero dei lavoratori autonomi è diminuito dal 29% al 23% del totale, solo in parte per effetto del minor numero di coltivatori diretti, mentre tra i lavoratori dipendenti è salita la quota dei lavoratori a termine dal 10% al 17%.

Si è diffuso il lavoro a tempo parziale fino al 19% tra tutti gli occupati e al 33% tra le donne. La quota degli occupati stranieri è passata da valori insignificanti negli anni Novanta a oltre il 10% dal 2014 in poi; circa la metà dei lavoratori immigrati ha al massimo la licenza media2.
Come in altri Paesi più sviluppati, si è osservata una polarizzazione del lavoro verso le professioni più specializzate e verso quelle meno qualificate, a scapito delle mansioni che richiedono qualifiche intermedie. Tra il 1993 e il 2010 la quota delle quattro occupazioni meno pagate è cresciuta di 6 punti percentuali, da livelli già tra i più alti nel confronto con gli altri Paesi europei, e quella delle otto professioni più pagate di 5 punti, da livelli invece bassi, a fronte di un calo di 11 punti del peso delle nove professioni intermedie; il miglioramento della qualità media dell’occupazione è stato minore che negli altri Paesi3. Nel periodo 2007-2017 lo spostamento è invece avvenuto esclusivamente dalle qualifiche intermedie verso le mansioni meno qualificate4.
Secondo l’interpretazione prevalente nel dibattito internazionale, la polarizzazione delle occupazioni discende dall’adozione negli ultimi due decenni di tecnologie che determinano una distruzione delle mansioni più ripetitive e sostituibili con procedure automatizzate, seppur questo processo sia secondo alcuni legato allo spostamento strutturale dalla manifattura ai servizi e sia quindi di più lungo periodo5.

In Italia, l’aumento del peso delle professioni più qualificate e meglio remunerate appare più contenuto e circoscritto nel tempo: ciò può segnalare un ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie, alle quali esse sono generalmente complementari,

ma anche una ricomposizione della domanda verso servizi alla persona e meno avanzati, oltre a risentire dal lato dell’offerta di lavoro del grande afflusso di forza lavoro immigrata per lo più non qualificata.

Una bassa qualità del capitale umano
La scelta del 1993 come anno di riferimento nel confronto precedente non riflette solo una (implicita) esigenza di comparabilità statistica, ma ha significato anche dal punto di vista interpretativo. La crisi valutaria del settembre 1992 rappresenta uno “spartiacque” nello sviluppo economico italiano tra la fase di crescita post-bellica e un periodo caratterizzato da una performance modesta e dall’incertezza sulle prospettive a lungo termine6. Questo prolungato ristagno economico è la conseguenza della difficoltà del sistema produttivo italiano di modernizzarsi a fronte della crescente integrazione europea e dei mercati globali, della diffusione di nuove tecnologie e delle dinamiche demografiche.
I redditi delle famiglie italiane hanno cessato di espandersi, ritornando addirittura sui livelli della metà degli anni Ottanta dopo la doppia recessione degli anni 2008-2013. Vi hanno contribuito i cambiamenti del lavoro. Le retribuzioni reali al primo impiego si sono gradualmente ridotte senza essere compensate da profili di carriera più rapidi e la diffusione dei contratti temporanei ha aumentato la frammentarietà delle esperienze lavorative e l’instabilità delle remunerazioni7. Il peggioramento ha riguardato le condizioni retributive e le prospettive di carriera più che la disponibilità di opportunità di lavoro8.
Gli impieghi temporanei e quelli a tempo parziale hanno rappresentato nuove opportunità di occupazione, in alternativa agli impieghi tradizionali, ma anche al lavoro irregolare, storicamente molto esteso in Italia. Hanno facilitato l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto femminile, anche rispondendo alle esigenze delle persone di conciliare i tempi di lavoro con quelli della vita privata.

Questa motivazione ha tuttavia perso gradualmente rilievo per il part time, che è la tipologia cui più si applica: oltre il 60% delle donne dichiara oggi di avere accettato un impiego a tempo ridotto per la mancanza di opportunità di lavoro a tempo pieno, rispetto a circa un terzo nei primi anni duemila; per gli uomini, questa stessa proporzione, tradizionalmente più elevata, è aumentata da poco meno della metà a quasi tre quarti.

Il problema principale è che le nuove forme contrattuali “atipiche” spesso non garantiscono un reddito adeguato. Per chi vive in una famiglia in cui il lavoro è interamente prestato in attività atipiche, specialmente se temporanee, la probabilità di avere un reddito familiare insufficiente a raggiungere le soglie convenzionali di povertà (relativa) è almeno tre volte quella di chi appartiene a una famiglia in cui vi sono prevalentemente impieghi di tipo tradizionale9. Il rischio di povertà è più elevato anche nelle famiglie “monoreddito” tradizionali; solo quando gli occupati in famiglia sono due o più, tale rischio scende considerevolmente. Non sorprende quindi che tra le famiglie in cui la persona di riferimento è occupata l’incidenza della povertà relativa sia cresciuta fino a raggiungere il livello medio nazionale; tra le famiglie degli operai, essa è balzata da circa l’11% alla fine degli anni Novanta a oltre il 18% alla fine dello scorso decennio.
Le forme atipiche hanno consentito alle imprese una maggiore flessibilità nell’utilizzo del lavoro in una fase di trasformazione dell’economia. Tuttavia, come ha scritto Ignazio Visco, questi margini “…sono stati troppo poco utilizzati dalle imprese per realizzare gli investimenti in ricerca e sviluppo e in nuove tecnologie necessari per affrontare con efficacia le sfide poste dai grandi cambiamenti degli ultimi decenni.

La sopravvivenza delle imprese che non hanno intrapreso il necessario aggiustamento strutturale ha avuto luogo al costo di mantenere bassa la qualità del capitale umano mediamente richiesto, comprimendone la dotazione complessiva e con essa anche il suo rendimento”10.

Le conseguenze delle pandemia sul mercato del lavoro
La pandemia si è incuneata in queste trasformazioni introducendo nuovi elementi di cambiamento. Ha avuto un influsso enorme sui comportamenti e sugli atteggiamenti delle persone, anche prescindendo dai vincoli imposti dalla situazione sanitaria. La digitalizzazione, nelle sue varie forme, avrà conseguenze diffuse e durature: il lavoro e l’insegnamento a distanza, l’e-commerce, l’accesso online ai servizi pubblici e privati hanno ricevuto una spinta difficilmente reversibile.
È invece improbabile che la forte ricomposizione settoriale causata dalla pandemia permanga tale. All’interno dei settori potranno esserci cambiamenti, come quelli guidati dall’e-commerce o forse dalla ripresa di piccoli negozi di comunità rispetto ai grandi centri commerciali.

È possibile che alcune attività si trasferiscano dai centri urbani ad aree periferiche e interne, ma molto dipenderà dall’estensione del lavoro a distanza e dalla possibilità di “rimanere connessi”, digitalmente e fisicamente, pur vivendo fuori delle zone metropolitane.

Anche le caratteristiche dell’offerta turistica potrebbero cambiare, ma non c’è motivo di ritenere che il settore si ridimensioni rispetto ai livelli pre-crisi. La pandemia avrà effetti permanenti, ma non sono realmente scindibili da trasformazioni più profonde, come le transizioni digitale ed ecologica.
Le conseguenze della crisi sul mercato del lavoro sono state molto eterogenee. Nella fase acuta tra dicembre 2019 e giugno 2020, il numero degli occupati è calato di 564mila unità, il 2,4%, e i tempi di lavoro medi settimanali sono diminuiti da oltre 34 ore a meno di 31, dopo essere scesi sotto 23 ore durante il lockdown11. L’occupazione si è ridotta maggiormente tra i più giovani, tra gli stranieri e, diversamente dalle passate recessioni, tra le donne. Il calo dell’occupazione ha riguardato per due terzi lavoratori dipendenti con contratto a termine e per un quinto lavoratori indipendenti. Le ore di lavoro settimanali dei lavoratori autonomi sono cadute del doppio di quelle dei lavoratori dipendenti. Le dinamiche più recenti confermano però un rimbalzo più forte proprio per le componenti più colpite dell’occupazione12.
Durante i periodi di limitazione delle attività economiche, i redditi da lavoro sono diminuiti di più tra le famiglie con redditi bassi, tra le quali sono più frequenti gli occupati nei settori oggetto delle restrizioni o in mansioni non effettuabili a distanza; i trasferimenti pubblici hanno fortemente mitigato l’aumento della disuguaglianza dei redditi13. Vi è stato tuttavia un rimescolamento lungo la scala dei redditi che non è colto dagli indici di disuguaglianza. Molti lavoratori sono stati colpiti dalle limitazioni settoriali all’attività; altri hanno avuto la possibilità di svolgere il proprio lavoro a distanza o nei settori definiti essenziali. In entrambi i gruppi, rientrano individui con redditi fortemente diversi: tra i lavoratori impiegati nei settori essenziali, che non hanno presumibilmente subito cadute del reddito, rientrano sia i riders e gli operai della logistica, a un estremo, sia i dirigenti pubblici o bancari, all’altro estremo. Le misure pubbliche di sostegno economico hanno tutelato proporzionalmente di più le famiglie che prima della pandemia avevano redditi medio-bassi soprattutto tra i lavoratori autonomi14.

Sarebbe tuttavia riduttivo concentrarsi solamente sull’occupazione e sul reddito per valutare le conseguenze della pandemia sul mercato del lavoro, ignorando le altre dimensioni fondamentali del benessere umano. Ciò vale evidentemente per un funzionamento elementare come essere in buona salute e sfuggire alla morbilità prevenibile, come direbbe Amartya Sen15.

L’esposizione al rischio di contrarre il virus SARS-CoV-2 è stata, e rimane, molto diversa: alcuni occupati nei settori essenziali sono stati poco esposti, particolarmente se al lavoro da remoto, mentre altri, dai riders ai medici, lo sono stati in maniera considerevole. Complessivamente nelle occupazioni meno sicure sono sovra-rappresentati i lavoratori più vulnerabili economicamente (con bassi livelli di istruzione e remunerazione, con contratti temporanei o a tempo parziale, immigrati)16.

La fragilità delle catene di produzione globali
L’integrazione dei mercati mondiali è una delle grandi forze che hanno modificato livelli e composizione dell’occupazione prima della pandemia. Essa ha eroso la base produttiva italiana, indebolendo molti settori in cui era tradizionalmente specializzata. Per cogliere la dimensione del fenomeno basti ricordare che tra il 1993 e il 2019 nel settore tessile, dell’abbigliamento e degli articoli in pelle, l’indice della produzione industriale è diminuito di un terzo e il numero di occupati si è quasi dimezzato, scendendo dal 20% al 13% dell’occupazione manifatturiera totale. Vi sono indicazioni che le imprese italiane siano ritornate competitive sui mercati mondiali, anche grazie allo spostamento verso produzioni meno esposte alla concorrenza dei produttori cinesi e dei Paesi emergenti17.
La pandemia ha messo in luce la fragilità delle catene di produzione globali e della produzione just-in-time, suggerendo uno spostamento verso una maggiore integrazione verticale e un accorciamento delle catene del valore globali, anche al costo di perdere alcuni benefici della specializzazione produttiva e della diversificazione delle reti di fornitura. Inoltre, considerazioni di sicurezza nazionale hanno evidenziato i rischi di una dipendenza dalle importazioni per l’approvvigionamento di beni necessari, dai prodotti alimentari ai farmaci e alle apparecchiature mediche, dall’energia alla tecnologia. Si è diffusa la percezione che la pandemia potesse accelerare tendenze protezionistiche già in atto, rallentando l’integrazione dei mercati mondiali.
Questa percezione non si è rivelata corretta. La produzione mondiale rimane fortemente interconnessa e vulnerabile agli episodi che bruscamente interrompono i flussi del commercio internazionale, come hanno evidenziato il blocco del Canale di Suez causato dall’incagliamento della nave portacontainer Ever Given a marzo e dai problemi generati dal focolaio di Covid-19

nell’hub cinese di Shenzhen a giugno. In una recente indagine, solo il 6% delle aziende italiane ha dichiarato di voler prendere in considerazione nel prossimo futuro l’ipotesi di re-shoring e solo una piccola minoranza ha effettivamente chiuso impianti produttivi all’estero o ridotto il numero di fornitori esteri negli ultimi tre anni (quindi anche prima della pandemia)18.

Il caso dei robot aziendali
Ormai dieci anni fa, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee notavano che “i computer stanno rapidamente invadendo aree che erano di dominio esclusivo delle persone, come la comunicazione complessa e il riconoscimento avanzato di schemi ricorrenti” e concludevano che “ci sono buone ragioni per credere che computer sempre più potenti stiano già da qualche tempo sostituendo le competenze umane e i lavoratori e rallentando i redditi medi e la crescita dell’occupazione negli Stati Uniti. Mentre ci addentriamo sempre più […] nel periodo in cui i continui aumenti esponenziali della potenza di calcolo producono risultati sorprendenti, ci possiamo solo aspettare che anche le perturbazioni all’economia crescano”19.

Sul futuro del lavoro pesa il rischio della rivoluzione tecnologica dei robot, dell’internet delle cose, dell’Intelligenza Artificiale. L’OCSE ha stimato come l’Italia sia tra i Paesi avanzati più vulnerabili, con un 10% dei lavori ad alto rischio di automazione e un altro 34% con un’elevata probabilità di essere significativamente modificati dal progresso tecnico20. In realtà, la paventata massiccia distruzione di posti di lavoro non sembra essersi ancora avverata.

Un caso di studio è rappresentato dai robot industriali, ossia macchine completamente autonome che non necessitano di un operatore umano, riprogrammabili e in grado di svolgere molteplici attività manuali. Daron Acemoglu e Pascual Restrepo hanno calcolato che nel periodo 1993-2007 per ogni robot industriale installato negli Stati Uniti sono stati eliminati sei posti di lavoro, che scendono a tre in aggregato una volta che si tenga conto delle ricadute positive sulla domanda di manodopera in altri settori e regioni21. Usando dati settoriali per 17 Paesi, tra cui l’Italia, Georg Graetz e Guy Michaels hanno invece stimato che la loro installazione ha sì diminuito l’occupazione nelle mansioni meno qualificate, ma non quella totale22. Applicando le stime di Acemoglu e Restrepo allo stock dei robot industriali operativi in Italia, oltre 74mila nel 201923, i posti di lavoro persi nei comparti che li hanno installati sarebbero stati oltre 400mila; tuttavia, replicando la loro analisi nel più lungo periodo 1993-2016, Davide Dottori non trova alcun effetto di rilievo sull’occupazione24.
Influenza del lavoro agile sul piano distributivo
Per molti versi è sorprendente la rapidità con cui le imprese e i lavoratori si sono adattati al lavoro da casa quando durante la pandemia sono state imposte le restrizioni più severe alla mobilità, ma anche quando, in seguito, esse sono state allentate. Questa esperienza cambierà in modo permanente l’organizzazione del lavoro, anche se è difficile prevedere quanto lavoro sarà svolto a distanza una volta superata la pandemia. Jose Maria Barrero, Nicholas Bloom e Steven Davis hanno stimato che negli Stati Uniti esso potrà rappresentare circa un quinto del totale delle giornate lavorate25. Un sondaggio online dell’OCSE suggerisce che per manager e lavoratori sarebbero preferibili da due a tre giorni di tele-lavoro alla settimana sia per la performance dell’impresa sia per il benessere dei dipendenti26.
L’adozione del lavoro agile su base stabile avrà conseguenze rilevanti sul piano distributivo. Barrero, Bloom e Davis calcolano che il lavoro agile è fattibile per metà dei dipendenti che considerano nella loro analisi; da questa escludono le persone con un reddito annuo inferiore a 20.000 dollari nel 2019, che rappresentano circa un quinto degli individui in età lavorativa27, in base al presupposto che il lavoro a distanza non sia possibile per le mansioni meno qualificate e meno retribuite. Il lavoro a distanza potrebbe quindi essere una concreta possibilità per il 40% dei lavoratori. La proporzione effettiva varierà considerevolmente tra Paesi e settori. Il punto è che solo una parte probabilmente minoritaria dei lavoratori, 2 su 5 secondo questi calcoli, sarà nella condizione di beneficiare del lavoro da casa e con una probabilità correlata positivamente con i livelli di istruzione e di reddito28.

Pertanto, i vantaggi non pecuniari derivanti dal risparmio del tempo per raggiungere il luogo di lavoro e da una migliore conciliazione tra occupazione e vita privata sono destinati ad acuire le differenze esistenti nelle retribuzioni, a meno che siano introdotti meccanismi compensativi.

In effetti, gli intervistati nel sondaggio di Barrero, Bloom e Davis si dichiarano disposti ad accettare un taglio dello stipendio del 7% in media per poter lavorare da casa due o tre giorni alla settimana dopo la pandemia.
In secondo luogo, il lavoro a distanza porrà nuove sfide per le relazioni industriali. In fabbrica le ore di lavoro sono relativamente facili da monitorare e sono una ragionevole approssimazione dell’input di lavoro. Gli straordinari sono osservati, regolamentati e solitamente pagati di più; macchine e attrezzature danno forma al posto di lavoro. Come si misura l’input di lavoro, inclusi gli straordinari, quando si lavora da casa? Come si valuta l’input dei mezzi di produzione utilizzati in casa, quali il computer, la connessione Internet, la sedia e la scrivania, il consumo di energia elettrica? Forse il lavoro agile costituirà una spinta a remunerare il lavoro in base al raggiungimento degli obiettivi, ma la difficoltà a valutare gli input renderà comunque arduo misurare la produttività e quindi i suoi guadagni da ridistribuire tra imprese e lavoratori.
In breve, un sostanziale aumento del lavoro a distanza dai bassi livelli precedenti alla pandemia potrebbe avere un impatto rilevante sui rapporti di lavoro, in un modo difficile da estrapolare dalle poche esperienze conosciute. Molto più di adesso, la valutazione delle conseguenze distributive dovrà andare oltre la retribuzione per considerare l’intero pacchetto di lavoro, adottando misure più ampie che tengano conto dei guadagni monetari, dei benefici non pecuniari e delle condizioni ambientali. Infine, l’adozione del lavoro agile costituirà un potente fattore di polarizzazione tra chi può lavorare da casa e chi no, potenzialmente divenendo una causa di tensione, nella società e all’interno delle imprese.

La prospettiva del cambiamento
Il lavoro in Italia è profondamente cambiato nei decenni precedenti la pandemia e i mutamenti nei prossimi decenni si prospettano non meno radicali.
Primo, la frammentazione dei rapporti di lavoro non si arresterà. La quota di chi ha un impiego stabile, permanente e a tempo pieno, si è gradualmente ridotta, man mano che nuove coorti di giovani entravano nel mercato del lavoro: mentre il 94% dei nati negli anni Cinquanta era in questa condizione quando avevano tra i 30 e i 34 anni, alla stessa età questa quota era dell’88% per i nati negli anni Sessanta, del 78% per i nati negli anni Settanta e del 69% per i nati negli anni Ottanta.

La frammentazione dei rapporti di impiego è comune alle altre economie avanzate ed è destinata ad accentuarsi con la diffusione di micro-attività imprenditoriali rese possibili dall’utilizzo delle piattaforme digitali, come guidare un taxi per Uber o affittare una stanza nel proprio appartamento con Airbnb.

Non è facile definire i contorni statistici della gig economy29, ma come ha scritto Branko Milanovic essa delinea in nuce una società in cui “nessuno sarebbe disoccupato e nessuno avrebbe un impiego”30.
Secondo, nella manifattura e in alcuni comparti dei servizi è plausibile che si contragga significativamente l’input di lavoro. La cessazione delle produzioni spiazzate dalla concorrenza dei Paesi emergenti oppure trasferite altrove per l’incessante ricollocazione “ottimale” degli impianti produttivi perseguita dalle imprese multinazionali ha finora spinto in questa direzione; ma è l’accelerazione di un processo di automazione le cui potenzialità sono state solo in parte sfruttate che potrebbe rafforzare questa dinamica. Quanto la creazione di attività nei servizi rivolti alle persone e alle famiglie potrà compensare questa tendenza, come avvenuto finora, è una questione aperta.
Terzo, i fattori di cambiamento, tra cui anche la transizione ecologica, sono tali che per molti lavoratori sarà probabilmente necessario cambiare attività e settore durante la loro vita lavorativa. È plausibile che ciò avvenga in un mercato del lavoro fortemente segmentato, dove la necessità del ricollocamento ricadrà solo su una parte della forza lavoro. Il rischio della segmentazione è stato ben evidenziato dall’esperienza della pandemia e dalle prospettive di diffusione del lavoro agile.

Le carenze delle protezioni sociali

Come gestire questi processi? Per quanto riguarda i lavoratori, le priorità appaiono, da un lato, facilitare l’acquisizione di nuove competenze professionali e di un adeguato capitale umano, attraverso un apprendimento permanente lungo la vita lavorativa, e, dall’altro, salvaguardare i livelli di reddito minimo.

Queste priorità sono note e ben definite: le difficoltà sorgono nella loro progettazione e attuazione, nel renderle veramente efficaci.
La pandemia ha mostrato con chiarezza queste difficoltà, rivelando come anche nei Paesi avanzati i sistemi di protezione sociali avessero carenze importanti, in termini di copertura (per esempio, del lavoro autonomo) e rapidità di intervento (per l’esistenza di procedure amministrative incapaci di rispondere tempestivamente alle esigenze di sostegno di molti individui). In Italia, si è fronteggiata l’emergenza sia estendendo la titolarità dei regimi previdenziali esistenti sia approvandone di nuovi, al di fuori di un quadro coerente, con il rischio di introdurre disparità di trattamento e sostenendo notevoli oneri amministrativi. Questa esperienza dovrebbe far riflettere sul ruolo della condizionalità, della prova dei mezzi e del targeting nelle politiche sociali.

La stratificazione dei diritti a beneficiare dell’una o dell’altra forma di assistenza può avere ragioni storiche del tutto comprensibili, ma può divenire un fattore di iniquità e può costituire un serio ostacolo alla ricollocazione dei lavoratori da un’attività all’altra, minandone la stessa accettazione sociale.

L’idea di un reddito di base universale è finora apparsa affascinante a tanti, ma largamente irrealizzabile ai più. L’esperienza della pandemia le ha probabilmente fornito nuova linfa.
La questione può essere affrontata tuttavia non solo con un’ottica compensativa. Nel suo ultimo libro, Tony Atkinson si è chiesto se le scelte tecnologiche siano di esclusiva competenza delle imprese.

La sua risposta è stata negativa: secondo la prima delle sue quindici proposte per ridurre la disuguaglianza, “la direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita dei decisori politici; va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti la possibilità dei lavoratori di avere un’occupazione e metta in risalto la dimensione umana nella fornitura di servizi”31.

Al di là del merito di questa proposta, l’indicazione di Atkinson è che processi che appaiono “esogeni” e ineluttabili, come la globalizzazione e l’automazione, sono in realtà in misura significativa il frutto di esplicite decisioni economiche e sociali. È quindi legittimo chiedersi se questi processi non possano svilupparsi secondo sentieri alternativi, influenzandone gli sviluppi a monte e non solo curandone gli effetti negativi a valle.

 


Lavoro e identità del lavoro
Il lavoro è fatica, il lavoro è reddito. Le considerazioni precedenti sono state svolte avendo in mente questa duplice accezione, che coglie le due dimensioni del lavoro tradizionalmente considerate dagli economisti nei loro modelli. Le persone massimizzano la loro “utilità” che dipende dai beni consumati e dal tempo libero, ovvero il tempo disponibile al netto delle ore passate al lavoro. Il lavoro è quindi pura “disutilità” ed è svolto solo perché fornisce il reddito necessario per acquistare i beni che si consumano o per accumulare risparmio. Ma il lavoro è anche identità. “Viviamo in una società – ha scritto Robert Solow – in cui status sociale e autostima sono fortemente legati sia all’occupazione sia al reddito. Ovviamente occupazione e reddito sono correlati, ma non perfettamente correlati. Mi sembra innegabile che sia l’occupazione che il reddito siano variabili significative [...]. L’occupazione e il reddito che ne deriva non sono semplicemente equivalenti a un insieme di panieri di beni di consumo (e risparmi)”32. La disciplina economica presta troppa poca attenzione a questo aspetto.

Il progresso umano è stato caratterizzato da una riduzione del tempo della vita dedicato al lavoro. Si entra più tardi nel mercato del lavoro, anche per il maggior numero di anni trascorsi a scuola;

si sono ridotti i tempi di lavoro settimanali e si sono diffuse le vacanze retribuite; sono aumentati gli anni che si passano in pensione, grazie a una crescita della longevità più veloce di quella dell’età di pensionamento. L’automazione e le innovazioni tecnologiche potranno rendere possibile dedicare ancor meno tempo della propria vita al lavoro. Si potrà forse realizzare l’auspicio di Bertrand Russell: “L’uso saggio del tempo libero, bisogna ammetterlo, è un prodotto della civiltà e dell’educazione.

Un uomo che ha lavorato molte ore per tutta la vita si annoierà se diventerà improvvisamente inattivo. Ma senza una notevole quantità di tempo libero un uomo è tagliato fuori da molte delle cose migliori della vita. Non c’è più alcun motivo per cui la maggior parte della popolazione debba subire questa privazione; solo uno sciocco ascetismo, di solito derivato da altri, ci fa continuare a insistere sul lavoro in quantità eccessive ora che non ce n’è più la necessità”33.

La questione sarà come rendere tutti partecipi di questo progresso – obiettivo che sarà difficilmente raggiungibile senza ridistribuire il lavoro e modificare i tempi di lavoro, consapevoli che pur con tempi fortemente ridotti il lavoro rimarrà molto a lungo fattore di identità e riconoscimento sociale.

 

NOTE

1 Levi (1978).
2 Quando non altrimenti indicato, le statistiche sono derivate dalla base dati online dell’Istat (http://dati.istat.it/) alla data del 21 luglio 2021. Ringrazio Luisa Minghetti, Alfonso Rosolia ed Eliana Viviano per i commenti e le molte discussioni su questi temi. Le opinioni qui espresse sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia.
3 Goos, Manning, Salomons (2014), pp. 2509-2526.
4 Basso (2020), pp. 673-704.
5 Autor, Katz, Kearney (2006), pp. 189-194; Goos, Manning (2007), pp. 118-133; Goos, Manning, Salomons (2014); Bárány, Siegel (2018), pp. 57-89.
6 Brandolini, Gambacorta, Rosolia (2019), pp. 41-67.
7 Rosolia, Torrini, (2016); Rosolia (2010), pp. 179-201; Cappellari, Leonardi (2016), pp. 202-234.
8 Giorgi, Rosolia, Torrini, Trivellato (2011), pp. 111-144.
9 Brandolini (2009), pp. 39-67.
10 Visco (2014), p. 144.
11 Istat (2020).
12 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Banca d’Italia (2021).
13 Figari, Fiorio, Gandullia, Montorsi (2020), pp. 101-140; Carta, De Philippis (2021); Cantó, Figari, Fiorio, Kuypers, Marchal, Romaguera-de-la-Cruz, Tasseva, Verbist (2021); Brunori, Ravagli, Maitino, Sciclone (2021); Clark, d’Ambrosio, Lepinteur (2021).
14 Banca d’Italia (2021).
15 Sen (1994).
16 Basso, Boeri, Caiumi, Paccagnella (2021).
17 Bugamelli, Fabiani, Federico, Felettigh, Giordano, Linarello (2018), pp. 1-31.
18 Giovannetti, Mancini, Marvasi, Vannelli (2020), pp. 77-99.
19 Brynjolfsson, McAfee (2011), p. 71, trad. di chi scrive; cfr. anche Brynjolfsson, McAfee (2015).
20 OECD (2017), Box 3.3, pp. 106-107.
21 Acemoglu, Restrepo (2020), pp. 2188-2244.
22 Graetz, Michaels (2018), pp. 753-768.
23 International Federation of Robotics (2020).
24 Dottori (2021), pp. 739-795.
25 Barrero, Bloom, Davis (2021).
26 OECD Global Forum on Productivity (2021).
27 U.S. Census Bureau (2020).
28 Sostero, Milasi, Hurley, Fernandez-Macías, Bisello (2020).
29Abraham, Haltiwanger, Sandusky, Spletzer (2018); INPS (2021), Box 1, pp. 62-65.
30 Milanovic (2015).
31 Atkinson (2015), citazione, rivista da chi scrive, p. 123.
32 Solow (1990), trad. di chi scrive.
33 Russell (1932), trad. di chi scrive.

Riferimenti bibliografici
Abraham K.G., Haltiwanger J.C., Sandusky K., Spletzer J.R. (2018), “Measuring the Gig Economy: Current Knowledge and Open Issues”, NBER Working Paper, n. 24950.
Acemoglu D., Restrepo P. (2020), “Robots and Jobs: Evidence from US Labor Markets”, Journal of Political Economy 128.
Atkinson A.B. (2015), Inequality. What Can Be Done?, Cambridge, Harvard University Press, 2015; trad.it. Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Cortina.
Autor D.H., Katz L.F., Kearney M.S. (2006), “The Polarization of the US Labor Market”, American Economic Review Papers & Proceedings 96.
Banca d’Italia (2021), “Indagine conoscitiva sulle nuove disuguaglianze prodotte dalla pandemia nel mondo del lavoro. Memoria della Banca d’Italia”, Camera dei Deputati, Commissione XI (Lavoro pubblico e privato), Roma, 23 luglio.
Bárány Z.L., Siegel C. (2018), “Job Polarization and Structural Change”, American Economic Journal: Macroeconomics 10.
Barrero J.M., Bloom N., Davis S.J. (2021), “Why Working From Home Will Stick”, NBER Working Paper, n. 28731.
Basso G. (2020), “The Evolution of the Occupational Structure in Italy, 2007–2017”, Social Indicators Research 152.
Basso G., Boeri T., Caiumi A., Paccagnella M. (2021), “The new hazardous jobs and worker reallocation”, OECD Social, Employment and Migration Working Papers, n. 247.
Brandolini A. (2009), “L’evoluzione recente della distribuzione del reddito in Italia”, in A. Brandolini, C. Saraceno, A. Schizzerotto (a cura di), Dimensioni della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione, Bologna, Il Mulino.
Brandolini A., Gambacorta R., Rosolia A. (2019), “Disuguaglianza e ristagno dei redditi in Italia nell’ultimo quarto di secolo”, Stato e Mercato 39.
Brunori P., Ravagli L., Maitino M.L., Sciclone N. (2021), “Distanti e diseguali. Il lockdown e le diseguaglianze in Italia”, Economia pubblica – The Italian Journal of Public Economics and Law, in stampa.
Brynjolfsson E., McAfee A. (2011), Race Against the Machine: How the Digital Revolution is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly Transforming Employment and the Economy, Lexington, Digital Frontier Press.
Brynjolfsson E., McAfee A. (2015), The Second Machine Age. Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies, New York, Norton, 2014; trad.it. La nuova rivoluzione delle macchine, Milano, Feltrinelli.
Bugamelli M., Fabiani S., Federico S., Felettigh A., Giordano C., Linarello A. (2018), “Back on Track? A Macro–Micro Narrative of Italian Exports”, Italian Economic Journal 4.
Cantó O., Figari F., Fiorio C.V., Kuypers S., Marchal S., Romaguera-de-la-Cruz M., Tasseva I.V., Verbist G. (2021), “Welfare Resilience at the Onset of the COVID-19 Pandemic in a Selection of European Countries: Impact on Public Finance and Household Incomes”, Review of Income and Wealth, in stampa.
Cappellari L., Leonardi M. (2016), “Earnings Instability and Tenure”, Scandinavian Journal of Economics 118.
Carta F., De Philippis M. (2021), “The impact of the COVID-19 shock on labour income inequality: Evidence from Italy”, Questioni di Economia e Finanza, n. 606.
Clark A., d’Ambrosio C., Lepinteur A. (2021), “The Fall in Income Inequality during COVID-19 in Five European Countries”, PSE Working Papers, halshs-03185534.
Dottori D. (2021), “Robots and employment: evidence from Italy”, Economia politica 38.
Figari F., Fiorio C., Gandullia L., Montorsi C. (2020), “La resilienza del sistema italiano di protezione sociale all’inizio della crisi COVID-19: evidenze territoriali”, Politica economica-Journal of Economic Policy 36.
Giorgi F., Rosolia A., Torrini R., Trivellato U. (2011), “Mutamenti tra generazioni nelle condizioni lavorative giovanili”, in A. Schizzerotto, U. Trivellato, N. Sartor (a cura di), Generazioni disuguali. Le condizioni di vita dei giovani di ieri e di oggi: un confronto, Bologna, Il Mulino.
Giovannetti G., Mancini M., Marvasi E., Vannelli G. (2020), “Il ruolo delle catene globali del valore nella pandemia: effetti sulle imprese italiane”, Rivista di politica economica, n. 2.
Goos M., Manning A. (2007), “Lousy and lovely jobs: The rising polarization of work in Britain”, Review of Economics and Statistics 89.
Goos M., Manning A., Salomons A. (2014), “Explaining Job Polarization: Routine-Biased Technological Change and Offshoring”, American Economic Review 104.
Graetz G., Michaels G. (2018), “Robots at Work”, Review of Economics and Statistics 100.
INPS (2021), L’innovazione dell’INPS per il rilancio del Paese. XX Rapporto annuale, INPS, Roma.
International Federation of Robotics (2020), “IFR presents World Robotics Report 2020”, 24 September.
Istat (2020), “Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana. Luglio 2020”, n. 7, 6 agosto.
Levi P. (1978), La chiave a stella, Einaudi, Torino.
Milanovic B. (2015), “No one would be unemployed and no one would hold a job”, globalinequality, 25 ottobre.
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Banca d’Italia (2021), “Il mercato del lavoro: dati e analisi. Le Comunicazioni obbligatorie”, n. 4, luglio.
OECD (2017), OECD Employment Outlook 2017, OECD Publishing, Paris.
OECD Global Forum on Productivity (2021), “The role of telework for productivity and well-being during and post-COVID-19. Key highlights of an OECD survey among managers and workers”, Paris.
Rosolia A. (2010), “L’evoluzione delle retribuzioni in Italia tra il 1986 e il 2004 secondo i dati dell’archivio WHIP”, Politica economica 26.
Rosolia A., Torrini R. (2016), “The generation gap: A cohort analysis of earnings levels, dispersion and initial labor market conditions in Italy, 1974-2014”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, n. 366.
Russell B. (1932), In Praise of Idleness and Other Essays, London, Allen & Unwin.
Sen A.K. (1994), Inequality Reexamined, Oxford, Clarendon Press, 1992; trad.it. La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, Il Mulino.
Solow R. (1990), The Labor Market as a Social Institution, Cambridge, Mass., Blackwell.
Sostero M., Milasi S., Hurley J., Fernandez-Macías E., Bisello M. (2020), “Teleworkability and the COVID-19 crisis: a new digital divide?”, JRC Working Papers Series on Labour, Education and Technology, n. 5.
U.S. Census Bureau (2020), Current Population Survey, 2020 Annual Social and Economic Supplement (CPS ASEC), PINC-05. Work Experience-People 15 Years Old and Over, by Total Money Earnings, Age, Race, Hispanic Origin, Sex, and Disability Status
Visco I. (2014), Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo, 2a ed., Bologna,
Il Mulino.

 

Andrea Brandolini è vicecapo del dipartimento di Economia statistica della Banca d’Italia. Ha rappresentato la Banca d’Italia in molti gruppi di lavoro, tra cui la Commissione Povertà e la Commissione dell’Istat per la misura del benessere. Ha fatto parte della Commission on Global Poverty della Banca Mondiale. Ha scritto su povertà, distribuzione di reddito e ricchezza, misurazione del benessere, questioni di economia del lavoro.

Nello stesso numero

Contenuti correlati

RICERCA | Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà

Università e imprese italiane
per lo sviluppo dei talenti

2023

Analisi degli annunci di lavoro on line nel 2022. I 106 profili più richiesti. Laurea e competenze professionali sono importanti. Ma cresce in tutti i settori la richiesta di competenze digitali e soft skills


Circolo Calvi, "Un sindacato di persone” / 1

Libertà e responsabilità.
Parte il ciclo formativo 2022

27 APR 2022 | Aldo Carera, Matteo Colombo, Sergio D'antoni, Gianluigi Petteni, Giancarlo Rovati

Parte il 20 maggio con Petteni, D’Antoni, Carera, Colombo e Rovati un ciclo di cinque sessioni articolate in una cena-incontro con testimoni il venerdì sera e didattica in aula il sabato mattina. In collaborazione con Adapt e Fondazione per la Sussidiarietà

Clicca qui!