Trimestrale di cultura civile

Frey: ci vuole una nuova politica

  • AGO 2021
  • Carl Benedikt Frey

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L’evoluzione della tecnologia e la robotizzazione stanno rapidamente cambiando il mondo del lavoro. Opereremo sempre più a distanza e la pandemia sta provocando un nuovo scatto in avanti dell’automazione. Senza nuove iniziative politiche finiremo presto preda di rivalse e rivolte. Ma il lavoro umano ha ancora un futuro originale e decisivo. A cura di Carlo Dignola

Ne La trappola della tecnologia. Capitale, lavoro e potere nell’era dell’automazione (Franco Angeli, Milano 2020) Carl Benedikt Frey indaga sul rapporto fra lavoro e progresso tecnologico, un aspetto diventato di nuovo cruciale in questo inizio del XXI secolo. Se è vero che già negli ultimi due secoli la tecnologia ha modificato radicalmente la distribuzione del potere politico ed economico all’interno della società, siamo probabilmente arrivati a un nuovo, decisivo step: la Rivoluzione Industriale 250 anni fa creò ricchezza e prosperità senza precedenti, ma ci furono anche conseguenze immediate devastanti per ampie fasce della popolazione (condizioni di vita miserrime, città inumane, pericoli per la salute), che portarono alle lotte sociali e politiche – spesso cruente – tra la metà dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. “L’Era dell’Automazione, la robotizzazione, sono già iniziate” – dice Frey, invitandoci a una riflessione apertamente politica: gli insegnamenti del passato potranno evitarci oggi altri errori?

Cosa osserva nel mercato del lavoro, dal suo punto di osservazione scientifico? Il profilo occupazionale e la qualità del lavoro stanno cambiando?
Storicamente, se si guarda ai periodi di crisi e recessione, di solito essi hanno esacerbato l’automazione nella società, che procede spesso a scatti. Se guardiamo alla prima Rivoluzione industriale, alla fine del Settecento, ci furono molte rivolte, ma la reazione fu più pronunciata durante gli anni del blocco continentale, quando Napoleone chiuse tutti i porti dell’Europa, provocò l’interruzione del commercio britannico e, di conseguenza, le persone avevano più motivo di preoccuparsi della meccanizzazione, perché c’erano meno possibilità alternative di lavoro. Abbiamo visto lo stesso durante la Grande Depressione (1929 - fine degli anni Trenta), molta automazione nella società, e poi di nuovo, negli Stati Uniti, durante la Grande Recessione (2008-2009), abbiamo visto scomparire molto rapidamente i lavori di routine, basati su processi regolari. Anche quando le cose sono migliorate, le aziende hanno deciso di automatizzare piuttosto che riprendere ad assumere.

Dopo i duri lockdown dovuti al Covid, l’economia ora è in ripresa in tutto il mondo, non siamo più in recessione: ma il mercato, e il mercato del lavoro, sembra essere profondamente cambiato.
Stiamo osservando nuovi processi di automazione, che sono stati indotti dal distanziamento sociale. Se guardiamo a ciò che ha portato all’accelerazione dell’automazione durante la Grande Recessione, erano essenzialmente due cose. La prima è stata il comportamento dei consumatori: quando sono a corto di liquidità, essi tendono a scegliere beni e servizi più economici, e questi tendono a essere prodotti con un incremento di tecnologie automatiche; più persone oggi vanno da McDonald’s, che usa molta tecnologia per risparmiare lavoro, piuttosto che prenotare in un bel ristorante. Ciò tende ad aumentare il livello di automazione generale nell’economia, le aziende stanno tagliando i costi, usano software e chatbot (software che simulano conversazioni umane scritte o parlate, consentendo agli utenti di interagire con essi, ndr) invece di affidarsi a nuova manodopera. Questa volta non stiamo vedendo i consumatori troppo a corto di liquidità, ma stiamo assistendo a un riassestamento del mercato del lavoro che segnala che le persone, a causa della pandemia, agiranno in modo diverso da come facevano prima: è molto meno probabile che la gente vorrà usare un ascensore, o andare in un ristorante, ed è invece più probabile che voglia interagire con un cameriere automatizzato. Quindi penso che ci siano buone ragioni per credere che in questi ambiti l’automazione accelererà. Vediamo già molte start up che investono nell’automazione dei ristoranti, perché vedono che molti sono contenti di continuare a ordinare cibo da casa tramite Deliveroo e altre piattaforme, piuttosto che andare al ristorante. Di conseguenza in alcuni settori, in determinate occupazioni, l’automazione accelererà. E potremmo pensare che i lavoratori avranno scarse opzioni alternative, nonostante il contesto macroeconomico sembri piuttosto incoraggiante.

Quali lavori hanno un’alta probabilità di essere sostituiti da software e hardware? Quali sono invece le occupazioni più “resistenti” al cambiamento in atto?
Prima di tutto, molte delle tendenze che vediamo oggi come esiti della pandemia, in realtà c’erano anche prima, ma sono state esacerbate da essa. Ad esempio, i negozi del centro erano già in declino a causa dell’e-commerce e la loro crisi è stata solo accelerata. Ci vorrà tempo per reinventarsi, per essere in grado di attrarre di nuovo le persone, e probabilmente in futuro anche quello non sarà un mestiere ad alta intensità di lavoro umano. Voglio dire, più persone ordineranno da casa e più i negozi verranno automatizzati. Vediamo già punti vendita completamente automatizzati come gli Amazon Go, ed è più conveniente, più facile e nel lungo periodo sarà più economico e anche vantaggioso in termini di riduzione della potenziale diffusione di virus durante future pandemie. I ristoranti si riprenderanno, penso, ma soprattutto durante le ore serali: più persone vorranno mangiare velocemente qualcosa mentre vanno in ufficio, o fare una rapida pausa-pranzo, ed è più probabile che vadano in un posto che è una specie di distributore automatico di pasti. Queste tecnologie che non erano decollate prima della pandemia, penso che lo faranno ora. Osserviamo già un certo calo del pendolarismo, meno persone che entrano in ufficio ogni giorno. Qui nel Regno Unito alcune aziende hanno licenziato 3.000 lavoratori, altre hanno comunicato di aver tagliato il 30% dei loro assistenti personali come conseguenza del lavoro a distanza, lo spostamento in quella direzione sta davvero prendendo piede.

Il lavoro sarà ancora un “fattore umano”, o è destinato a essere trasferito in gran parte alle macchine?
Di recente ho scritto una relazione intitolata L’avvento della società post-produttiva, in cui sostanzialmente sostengo che un quadro utile per comprendere come è probabile che il mercato del lavoro si evolva è il ciclo di vita di una tecnologia. Io come accademico che vuole scrivere nuovi documenti e nuovi libri devo prima esplorare, voglio incontrare persone, discutere, dibattere, ottenere feedback, partecipare a conferenze, pranzi, cene ed essenzialmente raccogliere input. Ma una volta che l’ho fatto, scrivo, e quel processo è molto più standardizzato e molto più routinario, posso anche alleggerirmi di alcuni compiti, ad esempio posso dire che ho bisogno di un grafico e lo posso far realizzare all’esterno. Non l’ho ancora fatto personalmente, ma stiamo assistendo a una crescente divisione del lavoro in queste pratiche più standardizzate e routinarie.
Allo stesso modo posso immaginare di sviluppare un algoritmo per sostituire le persone che lavorano nei call center: e farlo richiede molto pensiero, molta innovazione. Ciò che sto sostenendo, in sostanza, è che sempre più persone si concentreranno sulle fasi di avvio, sulla fase di esplorazione del ciclo di vita della tecnologia, e sempre più le attività standardizzate o routinarie verranno trasferite o automatizzate. Non solo nell’industria ma anche nei servizi. E questo significa che il fattore umano giocherà un ruolo più importante nel mercato del lavoro in generale, perché l’esplorazione, la creazione di nuove idee e manufatti è qualcosa di cui le macchine non sono ancora capaci, almeno non al livello degli umani. Quindi sì, le macchine possono generare cose nuove, ma la sfida è generare cose nuove che abbiano senso per le persone, e in questo gli umani hanno ancora un vantaggio competitivo. La seconda cosa che è molto difficile da automatizzare sono le interazioni sociali complesse, che sono molto importanti nelle prime fasi dell’innovazione, quindi penso che la direzione in cui si sta muovendo il mercato del lavoro sia questo contatto inter-personale, ancora molto importante, che coinvolge la creatività: questi sono i campi in cui sempre più persone lavoreranno in futuro.

Sembra, specialmente nei nostri Paesi occidentali, che avremo bisogno di lavori molto specializzati e creativi, e forse anche del livello più basso, ad esempio quello di persone che consegnano le merci a casa. A essere conquistata dalle macchine sarà la fetta centrale del mercato del lavoro?
Sì, questa è la preoccupazione chiave, le cose stanno andando in questa direzione già dagli anni Ottanta. Stiamo assistendo a uno svuotamento dei posti di lavoro a reddito medio, lo abbiamo visto accelerare durante gli anni 2000, in parte a causa della delocalizzazione in Paesi come la Cina, ma anche per una crescente diffusione di robot industriali: anche in Cina dal 2015 sono scomparsi 12,5 milioni di posti di lavoro nell’industria, quindi anche quel grande Paese oggi si sta deindustrializzando.

Questo cambiamento nei modelli di produzione è destinato ad avere rapidi effetti sui nostri sistemi politici?
Sì, assolutamente: penso che gran parte della polarizzazione politica che vediamo oggi sia il risultato di questa polarizzazione del mercato del lavoro. Non abbiamo più una classe media forte, in gran parte a causa dell’automazione e della delocalizzazione. Allo stesso tempo, però, penso sia importante ricordare che l’innovazione è davvero fondamentale per la creazione di nuovi posti di lavoro. La maggior parte delle persone oggi fa lavori che negli anni Cinquanta non esistevano nemmeno. Se avessi chiesto a mia nonna: “Cosa pensi che faranno i tuoi nipoti?”, settanta anni fa non avrebbe detto: “Diventeranno ingegneri informatici”, o “Lavoreranno nell’industria dei viaggi”, o “in un’azienda biotech”: quei lavori allora non esistevano, dovevamo ancora inventarli. Ed è davvero fondamentale fare investimenti nell’innovazione e far lavorare più persone in questo settore, per creare nuovi posti di lavoro per il futuro. È un processo che richiede tempo, ma è importante capire che oltre a pensare “cosa possiamo fare per migliorare un po’ i lavori sottopagati oggi?”, abbiamo bisogno di pensare “cos’altro possiamo fare per creare nuovi posti di lavoro per il futuro?”.

Non stiamo correndo dei rischi? Sappiamo che la classe media è la base del nostro sistema politico: questa gente è già stata colpita dallo spostamento della manifattura verso Est negli ultimi 20/30 anni, e ora, con questo avvento di macchine intelligentissime cosa accadrà? L’instabilità politica sta crescendo negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa. Nel suo libro lei cita Francis Fukuyama, il quale usa una frase piuttosto forte: “Il futuro della democrazia nei Paesi sviluppati dipenderà dalla capacità di affrontare il problema del declino della classe media”.
Certo, questa è la preoccupazione principale che sottolineo nel mio libro. Il cambiamento tecnologico in media ci fa stare tutti meglio ma, come faccio notare, se metti una mano nella stufa e l’altra nel congelatore, in media dovresti sentirti abbastanza a tuo agio, eppure sappiamo per esperienza che non è affatto così. Questa crescente polarizzazione sta davvero lacerando le società, ed è a sua volta esacerbata dal fatto che gli individui ad alto reddito, con posti di lavoro buoni e promettenti, tendono a vivere in città e luoghi dai quali coloro che sono impiegati nei vecchi lavori di produzione stanno scomparendo. Vivono in comunità diverse, hanno reti sociali diverse, vite quotidiane molto diverse, e poiché non interagiscono molto fra di loro, non hanno nemmeno molto – o almeno non pensano di averlo – in comune, e ciò sta portando alla polarizzazione della società che osserviamo. Questo rende ancor più difficile raccogliere il sostegno concreto a politiche che potrebbero essere d’aiuto. È molto più facile farlo quando hai una classe media forte. Lo Stato sociale in tutti i paesi è emerso all’indomani – o come conseguenza – della Grande Depressione, e penso che uno dei motivi sia stato che tutti nella società pensavano: “Questa disgrazia può capitare anche a me”. Sia i lavoratori ad alto sia quelli a basso reddito si sono detti: “Abbiamo tutti bisogno di sicurezza sociale”. Ma in un momento in cui la classe media è debole, è molto più difficile mettere a segno queste politiche. Oggi questa è la vera sfida, e penso che richieda buoni “imprenditori politici” per ideare nuove soluzioni e coinvolgere le persone in questo cambiamento estremamente rapido del panorama.

Abbiamo bisogno di un nuovo tipo di Stato sociale. Quali strumenti dobbiamo utilizzare (mobilità, assicurazione sul reddito, rinegoziazione dei contratti di lavoro)? Nel suo libro lei dice che l’educazione sarà un punto cruciale.
Negli ultimi due anni molte persone hanno affermato che abbiamo davanti questa enorme sfida derivante dall’automazione e dalla delocalizzazione, che stanno davvero rimodellando le economie e le società in cui viviamo, quindi abbiamo bisogno di una risposta politica forte, che sarebbe il Reddito minimo universale. Io penso invece che sia un’idea infelice perché distrae dal fatto che, prima di tutto, dobbiamo creare nuovi posti di lavoro. Penso che ciò di cui abbiamo bisogno sia un pacchetto di politiche che rendano più dinamico il mercato del lavoro e allo stesso tempo migliorino i sistemi di welfare. Quindi, ad esempio, dalle agevolazioni fiscali per le persone nella fascia di reddito più bassa, a un’assicurazione salariale per quelle che perdono il lavoro a causa dell’automazione, o devono accettare un lavoro sottopagato. Ma anche politiche più dinamiche, perché penso che la mobilità sia davvero importante come parte del cambiamento strutturale. Venezia, in Italia, alla fine del XIX secolo era una città dove vivevano 175mila persone: ora sono circa 56mila. Con l’ascesa del commercio atlantico, con la scoperta del Nuovo Mondo, la posizione di Venezia è stata sempre meno interessante di una volta. In modo simile nel Regno Unito era utile abitare vicino ai giacimenti di carbone durante la prima Rivoluzione Industriale, perché il carbone era molto importante e trasportarlo era costoso. Entrambi questi vantaggi sono stati ora sostanzialmente azzerati: non c’è motivo per cui la maggior parte della popolazione dovrebbe trovarsi in luoghi vicini alle miniere di carbone o alle vecchie rotte commerciali. La crescita economica richiede che le persone si adeguino, che le vecchie industrie siano meccanizzate e automatizzate e che ne emergano di nuove, e sul piano politico dobbiamo sostenere questo processo. Ciò implica anche rendere più facile il movimento delle persone. Uno dei principali vincoli degli ultimi decenni è stato l’enorme costo delle abitazioni nei luoghi in cui stanno emergendo nuovi posti di lavoro: se si guarda ai dati di Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2018, ndr), l’aumento della disuguaglianza economica è sostanzialmente dovuto al problema abitativo. Possiamo risolverlo costruendo di più, o almeno costruendo infrastrutture per collegare le regioni in espansione e quelle in declino. Io, ad esempio, sono cresciuto nel Sud della Svezia, in una piccola città universitaria chiamata Lund, a Sud della quale c’è Malmö, città che era specializzata nella costruzione di navi, aveva un grande cantiere navale, chiuso negli anni Novanta. L’economia locale per un po’ di tempo se la stava passando molto male. Da quando è arrivato il ponte per Copenaghen, che ha permesso alle persone di rimanere a Malmö, dove gli alloggi sono economici, e fare i pendolari con la capitale danese, dove ci sono molti lavori ben pagati. La maggior parte delle persone spende il proprio reddito dove vive, frequenta ristoranti, bar e teatri nei dintorni, ed è quello che è successo a Malmö, che ha dato una spinta all’economia dei servizi locali, ha creato un circolo virtuoso ed è ora – o almeno lo era prima del Covid – uno dei mercati del lavoro più dinamici d’Europa. Penso che si possa fare di più per collegare le regioni in declino e quelle in espansione, per aiutare anche le comunità in difficoltà.

Sappiamo che, nel lungo periodo, dopo simili trasformazioni radicali, probabilmente l’occupazione troverà un nuovo equilibrio. A breve termine, però, potremmo subire delle violente crisi. All’inizio del suo libro lei analizza il Luddismo di primo Ottocento: una rivolta simile, con i lavoratori che distruggono robot e droni, non potrebbe accendersi e incendiare anche oggi rapidamente il mondo?
Stiamo già attraversando delle crisi: le nostre democrazie sono in crisi, i nostri mercati del lavoro e anche le nostre politiche sono estremamente polarizzate. Penso che non serva una grande accelerazione dell’automazione perché le cose vadano davvero male: è sufficiente che le tendenze attuali proseguano. Ed è uno dei principali rischi che abbiamo davanti. Se guardiamo ai lavori che sono più esposti all’automazione, come camionisti, receptionist, cassieri, persone nei call center e così via, questi sono impieghi a basso reddito e poco qualificati, che avvertono la pressione già da tempo. E per come stanno le cose attualmente, chi fa quei lavori ha opzioni alternative piuttosto scarse. La sfida è già in atto, e le risposte non sono dirette o semplici, non c’è un’unica soluzione che risolverà tutto, è un pacchetto di politiche che deve essere implementato. Ma credo che stiamo assistendo ad alcuni segnali incoraggianti, ad esempio, da parte dell’amministrazione Biden, in termini di orientamento verso politiche che facilitino una maggiore concorrenza, eliminando certe clausole di protezione, o almeno andando nella direzione di un aumento della mobilità del lavoro e dell’offerta di più opzioni. Dobbiamo fare qualcosa per aumentare il potere contrattuale del lavoro che da diversi decenni in Occidente si è deteriorato.

Dovremo affrontare una nuova fase “dura” di lotte sociali per ottenere “nuovi diritti” nel mondo delle macchine?
Ciò ha a che fare con un ridimensionamento del lobbismo aziendale, cercando di rendere più facile per certi lavoratori l’adesione al sindacato. Ma non dobbiamo illuderci pensando che quelle politiche ci risolveranno il problema: i tassi di sindacalizzazione sono diminuiti in tutto il mondo, anche nei Paesi scandinavi, abbiamo bisogno di nuove istituzioni per adeguarci ai cambiamenti in atto nel mercato del lavoro. Nel XIX secolo c’erano sindacati dei mestieri artigianali, quando la tecnologia è cambiata e ci siamo trasferiti nelle industrie manifatturiere, all’improvviso i lavoratori hanno avuto bisogno di organizzarsi in una rappresentanza diversa, sul piano appunto industriale: noi abbiamo bisogno di apportare modifiche istituzionali simili ora che i mercati del lavoro stanno diventando più flessibili, ora che le industrie produttive stanno diventando solo una quota parte della forza lavoro complessiva. Abbiamo bisogno di cambiamenti istituzionali che accompagnino questi mutamenti sul piano della tecnologia.

Se pensiamo alle lotte sociali di 150/200 anni fa, in ballo non c’era solo una questione di soldi ma anche di dignità dei lavoratori: le persone vogliono vivere una vita personale piacevole, non solo avere un reddito dignitoso. Crede che in questo nuovo tipo di società avremo di nuovo il problema della difesa della dignità del lavoratore?
La dignità ha ovviamente sempre avuto un ruolo grande e importante in ogni società, già prima dell’avvento dell’industria. Penso che la risposta alla sua domanda dipenda molto da ciò su cui si basa la dignità. Se dignità significa avere un tetto sulla testa, essere in grado di mettere il cibo in tavola, far andare i propri figli a scuola, che essi abbiano l’opportunità di progredire nelle carriere che sceglieranno, allora la dignità può essere qualcosa di produttivo e importante. Ma se la dignità ha a che fare con lo status, si tratta di un gioco a somma zero. Noi possiamo scambiare beni con altre persone ed entrambi possiamo ottenere un vantaggio. La conquista di uno status, invece, spesso va a scapito di altri. Ma si tende a confondere le due cose: negli Stati Uniti, la classe operaia bianca sente di essere diventata meno importante nella società poiché i lavori legati alla produzione di beni stanno scomparendo, e vedendo il loro status messo in discussione come conseguenza di ciò, la loro “richiesta di dignità” può diventare qualcosa di molto brutto e improduttivo.

In questa grande ed efficiente macchina da lavoro che stiamo costruendo, umani e robot insieme, abbiamo ancora bisogno di un po’ di tempo per goderci la vita, però.
Come svedese, sono pienamente d’accordo con lei.

 

Carl Benedikt Frey, economista e storico dell’economia svedese, è Oxford Martin Citi Fellow e condirettore dell’Oxford Martin Programme on Technology and Employment presso l’Università di Oxford. È inoltre senior fellow presso l’Institute for the New Economic Thinking di Oxford e il Dipartimento di Storia economica dell’Università di Lund, in Svezia.

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