Trimestrale di cultura civile

Le conseguenze del lavoro smart

  • AGO 2021
  • Stefano Gheno

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Dal taylor-fordismo alla fabbrica intelligente. Il fenomeno del lavoro da remoto, così in forte accelerazione, rende ancor più nitido il processo in atto definito come la quarta rivoluzione industriale. Stiamo entrando definitivamente nell’epoca dello smart worker? L’esperienza vissuta dentro la vicenda storica della pandemia dice che qualcosa di nuovo è accaduto anche nel mondo del lavoro. E ci si interroga come preservare la specificità dell’agire umano. Vista la complessità della posta gioco. E gli elementi di marcata criticità che hanno investito la sfera psicologica di individui e famiglie. Entriamo sempre più nella stagione del tecnostress? Analisi, ipotesi, prospettive.

Per certi versi lo smart working, di cui oggi molto si parla, è solo la punta dell’iceberg di un grande e profondo cambiamento nei modi di lavorare e nella concezione stessa del lavoro. Cambiamento che ha preso il via ben prima della pandemia che ancora ci sta funestando: ci troviamo infatti all’interno di una grande e generale trasformazione del lavoro, che vede nella quarta rivoluzione industriale un vero e proprio punto di svolta (Seghezzi, 2017).
Uno degli elementi caratterizzanti l’idea e la prassi di questa rivoluzione è, infatti, la fabbrica “intelligente”. Si tratta di impianti in grado di generare nuovi modelli di business sostenuti da una connessione totale, nonché da una forte integrazione con le innumerevoli tecnologie abilitanti che nel frattempo sono nate. Si tratta, per certi versi, del superamento definitivo del taylor-fordismo: la programmazione di molte attività produttive non ha più la necessità della mediazione dell’operatore umano, ed è in questa prospettiva che il lavoratore può diventare smart worker, non più vincolato a tempi e spazi definiti, ma connesso con vari device direttamente al centro produttivo.
Tutto ciò porta diverse conseguenze per la persona che lavora: l’uomo non è una macchina, per cui non può semplicemente essere parte della connessione dei vari dispositivi di produzione (come pure viene prefigurato in moltissimi racconti di fantascienza). Così la questione pare essere diventata fondamentalmente quella della regolazione del lavoro smart, in modo da preservare la specificità dell’agire umano anche sul lavoro.

Home working non smart working
La grande discussione sul cosiddetto “diritto alla disconnessione” trae la sua origine proprio da questa esigenza di fondo. Esigenza certamente rilevante, ma non totalizzante, a meno di inserirla in una più ampia riflessione sul significato del lavoro e sullo spazio che questo può e deve avere nella vita di donne e uomini in questo nuovo millennio.
Per poter più adeguatamente comprendere le conseguenze psicologiche dello smart working dovremo dunque da un lato assumere un approccio olistico, cercando di collocare il fenomeno entro la più ampia trasformazione in atto, dall’altro cogliere il più possibile esempi che ci permettano di comprendere qualcosa che non è ancora entrato definitivamente nella nostra idea di lavoro.
In questi ultimi due anni, lo smart working è divenuto argomento comune a fronte del ricorso intensivo al lavoro in remoto, da casa, che si è avuto nei periodi più caldi dell’epidemia da Covid-19. In effetti, quello che si è verificato non è stato, se non in pochi casi, un vero smart working. Ciononostante è stata un’occasione per rivedere alcuni principi organizzativi che, di fatto, erano ritenuti imprescindibili. In primis che il lavoro fosse innanzitutto un “posto” fisico, un luogo dove si “andava” a lavorare. Quindi, che l’organizzazione del lavoro fosse necessariamente basata su di un controllo “visivo” da parte del capo e che la vicinanza fisica permettesse a questi di rispondere in tempo reale a eventuali necessità dei propri collaboratori. Altrettanto era per il lavoro di una squadra, un reparto, un ufficio: collaborare era indubbiamente facilitato dall’essere insieme in un medesimo luogo.
Come dicevo si è però per lo più trattato di tele-lavoro, di home working, non di smart working. In cui, a mio parere, la gran parte delle persone che lavorano hanno dimostrato nei mesi passati grande resilienza, svolgendo in remoto e spesso in solitudine, sostanzialmente le medesime attività che facevano “andando” al lavoro. Tutto ciò – a detta dei più – senza mostrare grandi deficit di produttività rispetto a quando si lavorava in azienda.
In un primo momento è sembrato che le persone in maggiore difficoltà fossero proprio i capi, che non potendo più esercitare nei modi abituali la propria funzione di controllo, vedevano messa in discussione la propria utilità. Al contrario i collaboratori, in maggioranza, dichiaravano di essere soddisfatti della nuova modalità, che sembrava rispondere a due esigenze pur diverse, ma entrambe rilevanti: mantenere un distanziamento per difendersi dalla malattia e avere una maggiore possibilità di gestire la dimensione familiare (ciò valeva soprattutto per il doppio ruolo esercitato nel nostro Paese ancora in modo prevalente dalle donne e stressato ulteriormente dalla chiusura degli istituti scolastici e lo spostamento a casa della didattica).

Autonomia e responsabilità
Peraltro, è proprio il tema della conciliazione a essere alla base della norma che, nel nostro Paese, regola lo smart working, la Legge 81/2017, che al capo 2 ha appunto introdotto il cosiddetto “lavoro agile”. Recita infatti il primo comma dell’Art. 18 che lo smart working ha “lo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Ai sensi della legge in vigore, il lavoro agile, pur restando collocato nell’ambito del lavoro subordinato, non presenta specifici vincoli di orario né di luogo, se non quelli derivanti da un accordo tra le parti. È utile precisare che l’assenza di vincoli implica, da un lato il fatto che il lavoro agile non sia necessariamente localizzato all’esterno dell’azienda né preveda necessariamente l’impiego di tecnologie informatiche. Si tratta – a mio parere – non tanto della “modernizzazione” congiunturale del lavoro subordinato tradizionale, quanto di un nuovo modo di intendere il lavoro, anche quello subordinato, come caratterizzato da autonomia e responsabilità (Butera, 2020). Si tratta di una modalità che inevitabilmente mette in gioco la libertà del soggetto, contrapposta a una concezione tradizionale del lavoro basata sul controllo puntuale delle inadempienze.
Riguardo a quanto si dice dello smart working, diverse recenti analisi hanno evidenziato un certo disallineamento tra desiderio e realtà (Gheno, Pesenti, 2021), al punto che alcuni autori parlano di una sorta di euforia circa una modalità di lavoro che, per diversi motivi, ha riguardato in questi mesi solo una minoranza (seppur ampia) dei lavoratori italiani e che, soprattutto, non presentava le caratteristiche di libertà, autonomia, organizzazione che un autentico lavoro agile richiederebbe.
Proprio questo secondo elemento, caratterizzante un autentico smart working, appare in realtà centrale nel momento in cui ci si voglia orientare all’analisi degli effetti raggiunti da queste modalità organizzative, tanto a livello aziendale quanto a livello individuale. Molta enfasi è stata data in questi mesi, in particolare, agli aspetti positivi correlati al lavoro agile, pur in presenza di evidenze di ricerca che hanno, al contrario, segnalato l’esistenza di effetti “stressogeni” particolarmente rilevanti, tali da comportare un aumento negli indicatori di conflitto tra famiglia e lavoro. Dovremo ancora attendere per avere le idee più chiare, anche se già oggi possiamo cogliere dalla letteratura alcuni impatti significativi, nel bene e nel male, relativamente a tre dimensioni: individuale, aziendale e sociale.
A livello individuale lo smart working viene associato soprattutto alla opportunità di aumentare gli spazi di autonomia personale grazie alla possibilità di una maggiore libertà nella pianificazione dei tempi di lavoro, con la conseguente crescita dei livelli di soddisfazione e la diminuzione dei livelli di stress lavoro-correlato. Sempre a questo livello, lo smart working si associa positivamente alla riduzione dei costi legati al pendolarismo (viaggi, costi per l’alimentazione extra domestica). Infine, soprattutto tra le donne, è associato a un miglioramento nella possibilità di conciliare lavoro, compiti di cura e tempo libero, con una conseguente crescita delle opportunità lavorative e di carriera.
Spostandosi sulla dimensione aziendale, lo smart working risulta associato a un aumento della produttività, determinata innanzitutto dalla possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di concentrare la propria attività negli slot orari di maggior produttività personale. Almeno per le occupazioni a elevato tasso di creatività (mentre risulterebbe addirittura un effetto negativo nel caso di lavori noiosi e ripetitivi). C’è inoltre la possibilità di ridurre alcuni costi fissi, legati alle sedi fisiche. A livello sociale, i vantaggi sono soprattutto legati al minore impatto ambientale derivante da una riduzione della mobilità necessaria per recarsi al lavoro, nonché alla riduzione delle esigenze di grandi consumi energetici legati alla concentrazione.

L’emergere di elementi problematici
A fronte di questo set di elementi potenzialmente vantaggiosi, l’esperienza ci restituisce anche una serie di elementi problematici. Diversi studi hanno evidenziato come lo smart working sia meglio percepito (e più richiesto) soprattutto da lavoratori e lavoratrici che appoggiano maggiormente la propria dimensione esistenziale sulla famiglia, e che dunque non investono eccessivamente nelle opportunità di carriera. È stato anche registrato il rischio del venir meno dei confini tra famiglia e lavoro, a causa della perdita di significato della distinzione spazio-temporale tra queste due dimensioni introdotta dalla modernità, con conseguenze in termini di tensioni a carico delle relazioni familiari (che contrasta i benefici potenziali sul fronte della conciliazione tra compiti di cura e lavoro precedentemente osservata). Nel periodo del lockdown si è vista una decisa differenza nelle valutazioni circa la bontà del lavoro a distanza tra quanti vivevano da soli e chi, invece, doveva condividere con altri familiari gli spazi della casa e la connettività indispensabile a lavorare.
L’ipotesi di un’associazione positiva con la produttività è invece messa in discussione da alcune evidenze che mostrano un crescente rischio di frammentazione dell’esperienza lavorativa, nonché dalla riduzione di innovazione e creatività, determinate da un lato da “rumori di fondo” presenti nel contesto domestico, ma anche dalla riduzione di scambi informali con i propri colleghi. Molte sono state le segnalazioni relative a una difficoltà nel lavoro causata dall’impossibilità di rapporti sistematici con il proprio capo e con i propri colleghi. Non stupisce, quindi, che anche alcune grandi aziende, note per la propria capacità di innovare, abbiano recentemente dichiarato che il lavoro a distanza riduce la creatività per la diminuita possibilità di “contaminazione” tipica del lavorare nel medesimo luogo.
Vorrei ora provare a definire una relazione tra le criticità rilevate circa il lavoro in remoto (che pure ricordiamo non è pienamente sovrapponibile allo smart working propriamente detto) e possibili conseguenze psicologiche negative, ricorrendo alle evidenze che si sono viste nella pratica professionale di questi ultimi due anni.
La prima è quella legata al cosiddetto tecnostress, che è un costrutto definito a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, inizialmente stava a indicare l’affaticamento conseguente ai malfunzionamenti delle tecnologie utilizzate, più avanti la definizione è stata estesa a tutte le conseguenze negative sui pensieri e sui comportamenti, causate direttamente o indirettamente dalla tecnologia. Oggi il tecnostress è entrato a tutti gli effetti nel novero dei fenomeni da verificare e gestire circa lo stress lavoro-correlato ed è ragionevole aspettarsi un moltiplicarsi di ricadute patologiche, anche gravi, legate a un abuso delle connessioni necessarie a lavorare in remoto. Conseguenze tipiche nel breve termine sono ansia, difficoltà di concentrazione, eccesso di confidenza circa la propria possibilità di lavorare su più cose contemporaneamente. A più lungo termine tutto ciò può cronicizzarsi, portando, ad esempio, a sviluppare disturbi del sonno anche gravi.
Una seconda evidenza è legata al cambiamento nelle dinamiche relazionali, sia quelle propriamente lavorative, con il capo, con i colleghi e con gli altri interlocutori, sia quelle personali e familiari. A tale proposito molte segnalazioni riguardano la difficoltà ad affrontare lavori di una certa complessità senza poter ricevere feedback puntuali dai propri responsabili, nonché la necessità di organizzare in modo preciso richieste di aiuto o di supporto che in presenza avrebbero ottenuto una risposta informale e in tempo reale.
Sul fronte familiare, avevo già segnalato la fatica di una gestione diversa degli spazi abitativi, nel tentativo di trovare un luogo idoneo al lavoro in contesti evidentemente non pensati per quello. Inoltre, se da un lato per molti genitori lavorare a casa durante il lockdown ha facilitato il sostenere i propri figli impegnati nella didattica a distanza, dall’altro in non pochi casi il lavoro proprio e l’assistenza ai figli sono entrati violentemente in conflitto, deludendo le attese di una migliore conciliazione vita-lavoro.
Vorrei infine aggiungere un’ultima considerazione circa le ricadute psicologiche negative del lavoro in remoto. A fronte delle molte difficoltà evidenziate, mi è anche frequentemente capitato di notare come questo tipo di lavoro sia stato invece per alcuni un’occasione di benessere psicologico. Il problema però è la motivazione di tale benessere: in non poche persone l’isolamento prodotto dal lockdown ha portato alla costruzione di una sorta di “bolla” in cui immergersi per separarsi (e difendersi) da un mondo talvolta ostile e sempre faticoso. Se uniamo questo alla sempre maggiore virtualizzazione del lavoro derivante dal ricorso pervasivo alle tecnologie digitali, ci troviamo di fronte a un rischio concreto di “disincarnazione” del benessere umano, in cui l’unico corpo accettabile è il proprio. Le altre relazioni devono invece, per essere portatrici di benessere, deprivare della propria fisicità, in modo da realizzare una indipendenza a cui almeno da due secoli aspiriamo.

Nessun costo zero
Detto tutto ciò, cosa possiamo fare? Lo smart working non è frutto della pandemia, anche se senza dubbio questa lo ha accelerato, trasformando quello che nel decennio scorso era argomento per addetti ai lavori, in un’esperienza concreta per moltissime persone (anche se come abbiamo visto, non per la maggioranza dei lavoratori). Peraltro, questa accelerazione ha fatto sperimentare non pochi vantaggi, sia alle organizzazioni che alle persone che vi lavorano, al punto che sono numerose le aziende che pensano di mantenere, almeno in parte, l’assetto fin qui sperimentato. In altri termini lo smart working pare destinato a diventare uno dei “new normal” nel nostro futuro prossimo. Quello che è importante riconoscere è che non sarà a costo zero, non solo per le discriminazioni che inevitabilmente aumenteranno tra lavoratori di serie A (creativi, responsabili e autonomi) e B (puri esecutori, da controllare puntualmente), ma anche e soprattutto perché l’uomo è relazione e questa è stata per millenni fondata sulla presenza “fisica” di individui diversi che, stando insieme, diventavano popolo e comunità.
Tutto ciò ci porterebbe a una serie di importanti riflessioni circa il cambiamento della società come la conosciamo e circa la ricaduta che tale cambiamento produrrà nei suoi membri, ma non è questa la sede. Mi limito dunque a fare due riflessioni conclusive, relativamente allo specifico della vita organizzativa.
La prima riguarda la necessità di sviluppare competenze che facilitino la transizione dei lavoratori verso una organizzazione smart. E non si tratta innanzitutto di competenze tecniche digitali (checché se ne dica da più parti), ma competenze soft, legate alla relazione, all’autonomia, all’organizzazione, al problem solving e alla leadership (che in questo periodo si è più volte dimostrata carente).
La seconda riguarda la necessità per le organizzazioni del prendersi cura delle proprie persone. In tale prospettiva di cura è certamente importante la parte di sviluppo di competenze che abbiamo prima citato (e in generale le competenze di cambiamento), ma anche la possibilità di fornire un supporto psicologico che aiuti le persone ad affrontare il cambiamento richiesto in modo non eccessivamente traumatico.

Riferimenti bibliografici
Butera F. (2020), Le condizioni organizzative e professionali dello smart working dopo l’emergenza: progettare
il lavoro ubiquo fatto di ruoli aperti e di professioni a larga banda, in Studi Organizzativi, 1, pp. 141-165.
Gheno S. (2020), Macchine con l’anima. La cura psicologica delle organizzazioni, Adapt University Press.
Gheno S., Pesenti L. (2021), Smart working: una trasformazione da accompagnare, in Lavoro Diritti Europa, 1, pp. 1-21.
Seghezzi F. (2017), La nuova grande trasformazione: lavoro e persona nella quarta rivoluzione industriale, Adapt University Press.

 

Stefano Gheno insegna Gestione delle risorse umane presso l’università Cattolica di Milano. Da più di trent’anni si occupa di formazione e sviluppo organizzativo. Da sempre attivo nel terzo settore, dall’ottobre 2020 è presidente dell’associazione CDO Opere sociali.

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