Trimestrale di cultura civile

I fini dell’industria

  • AGO 2021
  • Marco Tronchetti Provera

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L’impresa è un attore fondamentale solo della crescita economica? O per storia e dentro un “adesso” che incalza con interrogativi radicali è un soggetto che deve attualizzare un’esperienza già conosciuta, quella che va oltre il semplice indice dei profitti? “L’impresa è il luogo in cui si producono ricchezza, lavoro, benessere diffuso. Ed è ancora oggi uno dei pochi ascensori sociali in piena operatività, seguendo i valori della meritocrazia e dell’inclusione sociale”. Il pensiero di un imprenditore di successo a proposito di presente e futuro della civiltà del lavoro

Per parlare di lavoro e dignità si può incominciare dalla storia. Da un famoso editto, quello del vescovo di Milano Ariberto d’Intimiano, nel 1018, nel cuore di un Medio Evo intraprendente e dinamico che, messe da parte le paure peggiori del millenarismo, ricostruisce la fiducia nel futuro: “Chi sa lavorare venga a Milano... E chi viene a Milano è un uomo libero”. Ecco il lavoro, come cardine dell’inserimento sociale e come condizione per la libera cittadinanza, nell’incrocio responsabile tra diritti e doveri. La città è una comunità aperta e inclusiva. La regola benedettina dell’ora et labora e delle abbazie come luogo d’incontro tra religiosità, cultura, manifatture e commerci si fa già strada da tempo. Il valore del “fare, fare bene e fare del bene” si afferma con crescente incisività. Anche da lì nascerà l’Europa. E la Milano del vescovo Ariberto ne è uno snodo vitale.
Si può continuare con un altro documento storico, il Costituto di Siena, approvato nel 1309 dai reggitori della città, un’aristocrazia di proprietari terrieri e mercanti, manifattori e banchieri: chi governa deve mettere al primo posto “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini”. C’è, in quelle pagine, una sintesi straordinaria tra sviluppo economico e arte, senso della bellezza e qualità della vita, attenzione per le persone e lungimirante cura per l’attrattività (il “diletto” e “l’allegrezza” ai “forestieri”). I senesi sono uomini d’affari, viaggiano e commerciano, producono ed esportano, sanno che lo splendore urbano è un marchio di qualità da spendere con profitto nelle transazioni mercantili e finanziarie. E, all’interno della città, tengono in grande considerazione il consenso dei concittadini, la loro prosperità e lo strumento fondamentale per raggiungerla: il lavoro.
Trent’anni più tardi, nell’Allegoria del Buon Governo, commissionata dai governanti di Siena ad Ambrogio Lorenzetti, quei valori del Costituto assumono la rappresentazione della grande pittura simbolica: là dove il Buon Governo impera, è tutto un fiorire di botteghe operose e di feste, di cortei e di carovane cariche di merci. Senza, invece, ci sono solo cupezza e povertà. Siena, insomma, è un’indicazione esemplare di quel che si muove in tante altre città italiane tra imprese e lavoro, nel tempo del passaggio tra la fine del Medio Evo e l’apertura verso la luminosa stagione che già si prepara, l’Umanesimo e poi il Rinascimento.
C’è una lunga e solida civiltà del lavoro, nella storia italiana. L’homo faber abita da protagonista la cultura del Paese. Come raccontano la letteratura e il pensiero economico. Lavorando, sino a diventare un piccolo imprenditore tessile, si salva Renzo Tramaglino, nella stagione drammatica del dominio spagnolo di Milano, raccontata nei Promessi sposi da Alessandro Manzoni. Lavorando, ma con l’ossessione dell’avida accumulazione della ricchezza e delle parentele nobiliari, si danna il Mastro don Gesualdo di Giuseppe Verga, tradendo dunque lo spirito borghese dell’imprenditore responsabile.

Il bello e il ben fatto
Il lavoro sta al centro delle riflessioni delle grandi correnti economiche del pensiero italiano, l’illuminismo di Antonio Genovesi padre dell’Economia civile e maestro di Adam Smith, il federalismo di Carlo Cattaneo, il riformismo socialista di Filippo Turati e il solidarismo cattolico della Rerum Novarum di papa Leone XIII, il liberalismo di Piero Gobetti e Luigi Einaudi, il sindacalismo di Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil (“Prima le fabbriche, poi le case”, aveva concordato con l’allora presidente di Confindustria Angelo Costa, in una sorta di vero e proprio “patto per il lavoro” per avviare, dalla metà degli anni Quaranta in poi, la ricostruzione dell’Italia distrutta dalla guerra).
E proprio la sintesi tra intraprendenza e qualità del lavoro è la cifra che segna un po’ tutta la nostra storia economica e sociale, come racconta Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. L’antica sapienza manifatturiera in un’industria saldamente innervata in territori densi di conoscenze e competenze, il gusto per la qualità (cultura e innovazione, dunque), lo sguardo internazionale. Un’etica del lavoro e dell’impresa che ha “il bello e ben fatto” come costante storica e progetto di attualità.
La nostra Costituzione riflette bene questa temperie politica e morale, con la dizione essenziale dell’articolo 1, che tiene insieme il fondamento della Repubblica nel lavoro e le radici della sovranità nel popolo, in un esercizio dei poteri vincolato da leggi e forme. Il lavoro e l’impresa ricorrono anche in altri articoli, in una relazione costante tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, intraprendenza personale e impegno sociale. E proprio in questi nostri tempi così carichi di tensioni e di straordinarie opportunità, i richiami alla storia e soprattutto ai valori e alle regole della nostra Carta Costituzionale possono fare da solido ancoraggio per legare consapevolezza e progettualità, coscienza civile e progettazione di un futuro migliore.  
A questi valori fanno riferimento i giudizi di due imprenditori che hanno avuto un grande peso nell’innovazione della cultura d’impresa italiana, caratterizzandone anche le dimensioni internazionali: Adriano Olivetti e Leopoldo Pirelli.
Il richiamo a Olivetti riguarda il suo discorso “ai lavoratori di Pozzuoli” per l’inaugurazione dello stabilimento nel grande golfo di Napoli, il 23 aprile del 1955: “Può l’industria darsi dei fini? E si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita d’una fabbrica? [...] La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede infine che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità d’elevazione e riscatto”.
Una “fabbrica a misura dell’uomo”, quella di Pozzuoli. Rigore razionalista. E bellezza: “Di fronte al golfo più singolare del mondo questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”.
Sono valori che si ritrovano anche nelle testimonianze di Leopoldo Pirelli. Per esempio, nella prima delle sue “dieci regole del buon imprenditore”, enunciate durante un discorso al Collegio degli Ingegneri di Milano nell’ottobre 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei Paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”.
Ancora più netto il richiamo alle relazioni tra cultura scientifica, etica e civiltà si ritrova nell’intervento per il “Colloquio sul Novecento”, il 31 gennaio 2001, a Roma, citando il padre Alberto Pirelli: “Quanto più si sale nella gerarchia della cultura scientifica, tanto più si ritrova un senso di fratellanza fra uomini pur di diversa origine e anche di diverse specializzazioni. C’è da chiedersi se la progressiva diffusione della civiltà tecnologica non favorirà una comunanza nel mondo di orientamenti mentali, più di quanto non sia avvenuto in passato con le strutture politiche, le religioni e anche le arti, ed è doveroso augurarsi che alle sue attrattive e alla sua signoria si accompagni sempre l’affermazione dei valori spirituali della vita e soprattutto non si scatenino quelle forze del male che essa stessa può generare, così come può dar vita a tanto bene”. Un’indicazione che ha ancora un deciso gusto d’attualità. Un’impresa, infatti, vive nel corso del tempo se ha dei valori che ispirano le persone che la guidano e coinvolgono tutti coloro che vi operano. La passione per il lavoro ben fatto, per esempio. Il gusto spiccato per l’innovazione. La consapevolezza di essere un attore fondamentale non solo della crescita economica, ma più in generale dello sviluppo sociale, civile, culturale. Sono valori forti, elementi di un’identità che si evolve, ma che mantiene salde radici nella propria memoria e uno sguardo sempre aperto al cambiamento, alle sfide della contemporaneità.


Per le ragazze e i ragazzi
Proprio a questi valori vale la pena fare riferimento oggi, dopo una lunga e dolorosa stagione di crisi, per dare forza a una prospettiva di ripresa, di ripartenza e, perché no? di “rigenerazione” (come ha sostenuto Assolombarda nella sua recente assemblea) dell’economia e della società italiana, sfruttando bene le risorse del Recovery Plan della Ue, centrate su green economy e digital economy, su ambiente e innovazione, e sulle riforme necessarie per modernizzare finalmente l’Italia nel contesto europeo: la giustizia, la formazione, la ricerca, la pubblica amministrazione, il welfare e il mercato del lavoro. Le scelte avviate responsabilmente dal governo guidato con autorevolezza da Mario Draghi con il PNRR (il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) vanno in questa direzione, con politiche espansive per la crescita e, appunto, il lavoro. E meritano di essere sostenute.
Il nostro sguardo, come indica la Commissione Ue, va rivolto verso la Next Generation, i nostri figli e i nostri nipoti, le ragazze e i ragazzi che chiedono giustamente condizioni per potere crescere in un orizzonte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.
Serve, all’Italia, insistere sulla buona cultura dell’impresa e del lavoro, su una cultura del mercato efficiente e ben regolato, su una cultura del merito che premi conoscenze, competenze, intraprendenza e passione del fare. Tutte caratteristiche che si ritrovano, come abbiamo visto, nella nostra storia ma che purtroppo non sempre hanno avuto lo spazio e il riconoscimento sociale e politico che meritano. Viviamo una profonda trasformazione dell’industria e del lavoro, nelle stagioni dell’economia della conoscenza e dell’innovazione digitale, dei radicali cambiamenti legati alla diffusione dell’Artificial Intelligence e alle nuove opportunità, per la produzione e i servizi, offerte dalla crescente influenza dei Big Data. E la globalizzazione, pur nella ricerca di migliori assetti per evitare gli squilibri economici e sociali più stridenti e per fare fronte alle fragilità rivelate dalla pandemia da Covid-19, ha bisogno di una più giusta governance dei mercati e delle istituzioni sovranazionali che cercano di indirizzarne la crescita, di un multilateralismo denso di dialoghi e progetti.
Cambiano le competenze richieste, per stare al passo con tutte le sfide che l’innovazione rapida e spesso disruptive pone sia alle imprese che alle persone. Ed è necessario definire e mettere in pratica una nuova dimensione del lavoro, agile e flessibile, in una relazione originale tra produzione e conoscenza, tra formazione e attività lavorative. Serve un dialogo stretto fra scuola e impresa, sia nella fase scolastica che soprattutto nella prospettiva di un long life learning, in un contesto di grandi e profonde variazioni delle attività professionali. La valorizzazione degli Its e delle lauree STEM (science, technology, engineering e mathematics) è una indicazione strategica fondamentale, in cui coinvolgere una sempre più ampia componente femminile. E da arricchire con una modifica di contenuti, aggiungendo la A di arts, la nostra tradizione umanistica degli architetti, dei pittori, degli ingegni polivalenti del Rinascimento. STEAM, dunque. Un percorso formativo molto italiano e, contemporaneamente, di respiro europeo.
“Imparare a imparare”, può essere il nuovo indirizzo, per la scuola, le imprese, i poteri pubblici che presiedono ai meccanismi della diffusione della conoscenza. E il punto di riferimento va trovato ancora una volta nella migliore storia italiana, in quella “cultura politecnica” che, sia nella tradizione che nell’attualità della nostra esperienza di imprenditori, sa mettere insieme saperi umanistici e conoscenze scientifiche, bellezza e tecnologia, genius loci delle competenze territoriali e competitività di valore internazionale.
Nascono da qui anche l’attenzione per la qualità degli ambienti di lavoro e per la sicurezza, la cura per la soddisfazione sul posto di lavoro, la legalità, l’impegno per la crescita personale e professionale. E l’attenzione per un maggiore e migliore inserimento professionale delle donne, in condizioni di parità di partenza e di opportunità: una ricchezza professionale, culturale e creativa che è indispensabile cogliere in pieno.
La diffusione dello smart working, accelerata nella stagione della pandemia, pone nuove questioni, sia culturali che organizzative, in rapida evoluzione. E tutta questa serie di trasformazioni mette in evidenza la necessità di innovazione anche per le relazioni industriali, gli ammortizzatori sociali, il welfare aziendale e i contratti di lavoro. Un tema con cui già adesso ci troviamo a fare i conti e che, se ben impostato, potrà contribuire fortemente alla crescita della produttività e della competitività del sistema Paese e alla sua migliore modernizzazione.

Dove investire
C’è un mismatch di fondo, tra domanda e offerta di lavoro, con cui fare i conti. Le imprese cercano lavoratori che non trovano, con professionalità in linea con le esigenze di produzione e mercati (da qualificare con robusti investimenti di formazione interna). I giovani, soprattutto, cercano lavori di qualità correttamente retribuiti e non lavoretti da salari precari, opportunità per costruire un futuro di lavoro dignitoso e di impegno, non sussidi e assistenzialismo che scoraggino l’impegno nel lavoro e nell’impresa.
L’economia della conoscenza chiede un sempre più alto livello di scolarità, ma l’Italia è in coda all’Europa per numero di laureati (appena il 19,6% nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, rispetto a una media UE del 33,2%) e ha una quota elevatissima di persone con un bassissimo livello scolastico: 13 milioni di persone con appena la licenza media inferiore.
È da questa trappola che bisogna uscire. Investendo massicciamente sulla formazione, sia scolastica che professionale. I fondi UE del Recovery Plan offrono una seria opportunità di intervento. E le imprese che investono in formazione sulle trasformazioni digitali vanno incentivate e sostenute.
Le trasformazioni coinvolgono profondamente, dunque, la stessa cultura d’impresa, con l’affermazione dei valori di sostenibilità, ambientale e sociale, come asset fondamentali di competitività. Il passaggio dal primato dello shareholders value (comunque fondamentale) all’importanza degli stakeholders values, ai valori e agli interessi legittimi delle comunità con cui l’impresa è in relazione disegna il contesto in cui ci muoviamo, nella consapevolezza crescente della centralità delle persone.
L’impresa è il luogo in cui si producono ricchezza, lavoro, benessere diffuso. Ed è ancora oggi uno dei pochi ascensori sociali in piena operatività, seguendo i valori della meritocrazia e dell’inclusione sociale.
Le due grandi transizioni in corso, quella ambientale e quella digitale, sono occasioni importanti, di ampliamento e di riqualificazione per gli spazi del lavoro. “Il lavoro deve tornare umano”, ricorda Papa Francesco, chiamando giustamente in causa la nostra responsabilità di uomini e donne di impresa. L’etica pubblica non può non sposarsi con le ragioni dello sviluppo equilibrato e dell’economia circolare.
La forza competitiva delle migliori imprese italiane sta, appunto, in una sintesi originale tra spinte innovative, passione per la qualità e la bellezza, valori della coesione sociale e cultura politecnica, di cui abbiamo appena detto. Una creatività e una intraprendenza che ci permettono di superare le crisi, crescere, conquistare mercati esigenti e selettivi, nonostante i limiti di efficienza e produttività del sistema Paese. E, forti di questi valori, vale la pena, per noi imprenditori, raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, che l’impresa, ricca di memoria e gusto per il futuro, è un bel posto per lavorare, sperimentare, partecipare responsabilmente al cambiamento.

 

Marco Tronchetti Provera è imprenditore e dirigente d’azienda, CEO di Pirelli dal 1992, è attualmente Vice presidente esecutivo e Amministratore delegato di Pirelli & c. SpA. È amministratore di RCS Media Group SpA e siede nel Consiglio generale di Assolombarda e di Confindustria.

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