La crisi delle rappresentanze investe le espressioni del sindacalismo italiano. Una difficoltà che ha precise origini storiche. E responsabilità manifeste. Il giornalista e inviato del Corriere della Sera assassinato nel 1980 da un commando di giovani terroristi, ragionava sulle ragioni di un sopraggiunto ritardo culturale dovuto all’affermarsi di visioni ideologiche e su una progressiva distanza fra i vertici delle organizzazioni e la base dei lavoratori. Tuttavia, ne rilanciava la fondamentale funzione sociale e di difesa. Un argomento che attraversa e interroga anche questo presente.
A volte pare che il destino riservi a una persona appuntamenti che si ripetono per tutta una vita. Appuntamenti che riguardano problemi che contrassegnano la passione di una esistenza vissuta con grande intensità. Walter Tobagi veniva assassinato per strada, da “apprendisti” che volevano entrare a far parte delle Brigate Rosse, il 28 maggio del 1980. Erano da poco passate le 11 del mattino e Walter stava andando a prendere la sua auto in un garage vicino a casa per raggiungere la sede del Corriere della Sera.
Nel volantino di rivendicazione di quel delitto, con tanto di colpo di grazia, si diceva che Tobagi veniva eliminato “perché intelligente nell’analisi del terrorismo”, “perché era entrato al Corriere come uomo di Craxi”, “perché era presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti”.
Quel volantino, di raffinata cultura marxista-leninista, non era stato certo scritto da quei giovani assassini apprendisti brigatisti, come argomentarono dopo un’attenta analisi e scrupolose indagini sia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sia un grande giurista e magistrato come Adolfo Beria d’Argentine. C’era un punto centrale che aveva decretato la condanna morte di Walter Tobagi: il suo riformismo culturale, sindacale e politico.
Passione e formazione di un riformista
Tobagi, in particolare, aveva la visione di un grande sindacato autonomo e riformista, secondo una precisa concezione che Filippo Turati aveva espresso al Congresso socialista di Livorno del 1921, quando i comunisti decisero di abbandonare il Psi.
Vale la pena – mentre oggi si assiste a un dramma epocale di disoccupazione, di disuguaglianze sociali, di un nuovo salto tecnologico che potrebbe mettere a rischio migliaia di posti lavoro ma anche crearne di nuovi – rivedere il ruolo che hanno avuto e che devono avere i sindacati, i principali difensori dei diritti sociali e civili dei lavoratori.
Ecco, in sintesi, gli appuntamenti con la sua personale storia che hanno accompagnato la vita di Walter Tobagi. Ucciso alla fine di maggio, nel mese di giugno dello stesso anno, il 1980, esce il suo ultimo libro (Che cosa contano i sindacati, Rizzoli editore) a cui aveva dedicato l’impegno di un anno.
Si può fare un breve riassunto delle passioni di Walter e dei suoi studi. Tobagi ha voluto sempre essere, sin da giovanissimo, un giornalista. Cominciò a sedici anni con il settimanale Milaninter, proseguì al liceo Parini diventando direttore della famosa La zanzara, poi passò un’estate di apprendistato all’Avanti! di Milano, quindi divenne redattore de l’Avvenire, poi del Corriere d’Informazione e infine inviato del Corriere della Sera. Poteva scegliere altre strade, ma il giornalismo era la passione principale accanto allo studio della storia del sindacato. Si era laureato con una tesi che si può definire pressoché monumentale (quasi mille pagine) sulla storia del sindacalismo italiano, avendo come relatore Brunello Vigezzi, storico della Statale di Milano, che aveva offerto a Tobagi un posto di assistente.
Ma il richiamo del giornalismo fu più forte e Vigezzi, in quella triste primavera del 1980, se ne disperò perché quel desiderio aveva portato Tobagi a incontrare la morte per strada, ucciso su un marciapiede con inaudita ferocia e determinazione.
Tobagi aveva operato una sintesi incredibile. La passione per il giornalismo e quella per la storia del sindacato le aveva coniugate nella fondazione di una nuova corrente sindacale tra i giornalisti, Stampa democratica, che si distaccava, rivendicando autonomia e oggettività di informazione, dalla corrente di sinistra di Rinnovamento, egemonizzata dai tutori del compromesso storico, dai comunisti in redazione. Dai fautori del “no alla trattativa” nel corso del sequestro di Aldo Moro.
Stampa Democratica fu fondata da Walter e da altri dodici giornalisti (tra cui chi scrive) nel 1978 e fu la sintesi che fece esplodere le contraddizioni del giornalismo italiano, perché Stampa Democratica ebbe un successo clamoroso sin dalle prime elezioni di categoria.
L’avvento del massimalismo
Raccontare questo retroterra serve a comprendere che cos’era il sindacato e quale era il suo ruolo in una società democratica, che Tobagi vedeva negli anni successivi al cosiddetto “autunno caldo” e quale futuro spetta ora ai sindacati, in un mondo sociale, politico, economico e di organizzazione del lavoro completamente diverso e sempre in piena evoluzione.
I diversi momenti storici che Tobagi aveva analizzato rimanevano ancorati a due principi fondamentali: riformismo e indipendenza. Concetti non facili in un’Italia divisa da scontri politici tra le masse lavoratrici. Tobagi ricordava la nascita della Cgil nel 1906, le prime contraddizioni interne, lo scioglimento durante il fascismo e poi la rinascita nel 1944. Ma subito dopo il riesplodere di dissensi e scissioni che portarono, dopo il “patto di Roma”, alla successiva nascita della Cisl e della Uil.
Nel secondo dopoguerra la Cgil era condotta da un uomo di grandi vedute, con un antico spirito riformista, Giuseppe Di Vittorio, ma l’invadenza e l’egemonia del Pci arrivò al punto, nel 1956, di smentire (e di far piangere pubblicamente) Di Vittorio per il suo appoggio agli ungheresi che si ribellarono ai sovietici, quando Togliatti, insieme a Nilde Jotti, “brindava” (come lui stesso dichiarò) ai carri dell’Urss “liberatori” che uccidevano gli insorti nelle strade di Budapest.
Storie antiche, ma pesanti, e che hanno avuto un riflesso sulla storia del sindacato italiano. Il problema era che quando il sindacato diventava massimalista, perdeva la sua indipendenza e la sua autonomia andava incontro sempre a grossi guai e a grandi sconfitte.
Quando scrive Che cosa contano i sindacati, Tobagi fa un bilancio dell’“autunno caldo”, del sessantottismo, in un periodo dove persino nel sindacato erano infiltrati gli aspiranti terroristi.Scrive Tobagi: “Questo libro è nato nelle aule d’università e davanti ai cancelli di Mirafiori, da ricerche sulla storia del sindacalismo e dal lavoro quotidiano di giornalista. Eravamo poco più che ragazzi e alla generazione del sessantotto il sindacato apparve come l’angelo vendicatore della condizione operaia. Ci sentivamo da una parte sola, la parte dei lavoratori; sognammo l’immagine di un sindacato capace di rovesciare quanto di vecchio, ambiguo, ingiusto si annidava sotto la crosta della società. Credemmo al fascino delle parole, pensammo che uno slogan bastasse a rovesciare il mondo.
“Questo libro è il tentativo di capire e raccontare che cosa è stato il sindacalismo italiano nel decennio tumultuoso. Il sindacato delle grandi teorie e del piccolo cabotaggio. Il sindacato dei leader famosi e degli “operatori” sconosciuti. Il sindacato dell’immagine e quello della realtà, con l’emergere di un ceto politico, la nuova classe formata da migliaia di funzionari a tempo pieno. Il sindacato fuori dalla retorica e dall’agiografia, protagonista decisivo del sistema politico.
Chi trascura la presenza massiccia, ramificata di sindacalisti in tutte le pieghe della società italiana rischia di non comprendere la mutazione avvenuta negli anni Settanta. Lo spostamento a sinistra del baricentro politico nasce nella fabbrica, nei rapporti sociali, e soltanto in seguito viene sanzionato dalle elezioni del biennio 1975-76.
“La realtà, si capisce, è sempre meno bella ed entusiasmante dell’immaginazione. Il sindacato in carne e ossa denuncia limiti, angustie, contraddizioni, commette errori. È indispensabile, doveroso, parlarne senza ipocrite autocensure. La verità è una medicina che giova a un organismo sano, ricco di vitalità.
“Tra mille errori, fra cento crisi, conviene non perdere di vista un dato elementare: il sindacato organizza il nerbo delle classi lavoratrici. Stare dalla parte del sindacato significa stare dalla parte dei lavoratori. In termini di principio, è questo lo spirito che anima le pagine del libro, in termini pratici, la domanda che ritorna, implicita e martellante, resta sempre la stessa: quale sindacato è più capace di rappresentare e difendere i lavoratori? Quale sindacato garantisce un progresso sostanziale? Gli sconvolgenti anni Settanta offrono l’esperienza senza precedenti d’un potere sindacale che rivendica l’egemonia nell’indicare il percorso delle grandi riforme.
“Con l’autunno caldo il ‘nuovo modello di sviluppo’ diventa uno slogan quasi scontato, la promessa di una trasformazione ‘rivoluzionaria’. Dieci anni dopo, i miti si stemperano nella riscoperta di una verità antica come la storia dell’uomo: non sono le parole tonanti ma i comportamenti di ogni giorno che modificano le situazioni e danno senso all’impegno sociale: il gradualismo, il riformismo, l’umile passo dopo passo sono l’unica strada percorribile per chi vuole elevare per davvero la condizione dei lavoratori. Ecco la lezione che le ‘dure repliche della storia’ ripetono ancora una volta”.
I colpevoli ritardi
Tobagi sembra ripetere per il sindacato, quello che Turati diceva per la politica italiana nel 1921 a Livorno: “Cari compagni, il sogno russo svanirà e noi dovremo tornare al quotidiano lavoro sindacale, a quello delle cooperative, della cultura, dei municipi”. Per Turati questo significava “marxismo scientifico”.
Negli scritti di Walter Tobagi comparivano già i segni della sconfitta sindacale di quegli anni e del futuro possibile. Il movimentismo incontrollato e non riformistico viene prima sfruttato da frange estremiste e terroriste che penetrano all’interno del sindacato. La reazione dei leader sindacali è tardiva e deve subire contestazioni durissime come quella fatta a Luciano Lama, il 17 febbraio 1977, all’Università “La Sapienza” di Roma, da parte di estremisti di sinistra che “si sentono traditi”. Quindi arriverà la sconfitta alla Fiat. Tobagi è morto da pochi mesi quando il pansindacalismo di quegli anni provoca la reazione della “marcia dei quarantamila” organizzata da Cesare Romiti e dai vertici padronali della Fiat il 14 ottobre del 1980. E a quel punto il sindacato appare sconfitto e quasi in fuga.
Eppure, guardando a fondo quella lunga esperienza, Tobagi sembra comprendere che il sindacato si è mosso come “un superpartito”, che andrà incontro a un periodo difficile, ma sarà insostituibile in qualsiasi società democratica futura basata sul lavoro.
Quando si apre il dibattito sugli errori fatti, viene a cadere ogni ipocrisia. Tobagi riprende un passo di Giorgio Benvenuto: “Bisogna fare breccia finalmente nella cortina di pregiudizi che pretendono di tenere il sindacato italiano in una condizione di minorità politica e decisionale rispetto ai più forti movimenti europei. I residui della ‘demonizzazione’ delle esperienze di partecipazione dei sindacati dell’Europa centro-settentrionale, imposta in questi anni dall’egemonia della cultura comunista, sono ancora duri a morire e ne paghiamo tutti le conseguenze”.
In questo tipo di partecipazione, sul modello delle socialdemocrazie e del laburismo inglese, Tobagi vede il futuro del sindacato, il suo riscatto da una sconfitta che è, innanzitutto, storica e culturale.
Tobagi guarda questo nel futuro del ruolo del sindacato e lo ribadisce nella prefazione a un libro di Claudio Torneo, Il sindacalista d’assalto, in cui viene tracciata la figura del leader della Cisl, Pierre Carniti. Scrive Walter: “Al fondo dell’azione di Carniti è una concezione ideologica, per molti aspetti nuova, nella storia del movimento operaio italiano. Dalle origini del secolo scorso fino agli anni Cinquanta, il nostro sindacato non è riuscito a liberarsi da una condizione di organica sudditanza ai partiti, alle forze politiche. Come ha giustamente sottolineato Leo Valiani, il sindacalismo italiano non poteva sperare di emanciparsi completamente dai partiti, fino a quando il sistema economico presentava vaste sacche di disoccupazione che minavano alle fondamenta il potere contrattuale del sindacato”. Si pensi solamente allo scontro, all’interno dello stesso Pci, sul ruolo della Cassa del Mezzogiorno.
Ma Carniti non proponeva solo la liberazione dai partiti, andava oltre. Pierre Carniti, leader della Cisl, superava il “pauperismo” suggerito da Pio XII, che esaltava i valori della “parsimonia cristiana”, e anche “l’unità di classe” predicata dalla Cgil. Scrive Tobagi: “I modelli di Carniti – dal momento in cui Giuseppe Pastore ha voluto costruire nel 1950 un sindacato non ‘cristiano’, ma ‘libero’ – sono quelli anglosassoni e, in primo luogo, quello americano, guidati da una logica fermamente economicistica, decisi a battersi per gli alti salari, senza paura di far ricorso a una conflittualità estremizzata, nella convinzione che ciò non danneggi ma rafforzi il sistema. Su queste basi si fonda la peculiarità della Cisl: contrattualismo, autonomia sostanziale per le federazioni che rappresentano i diversi settori industriali. Ne deriva un modo assolutamente nuovo d’impostare il rapporto tra sindacato e partiti politici, in quanto il sindacato – in un quadro dinamico di relazioni industriali e di programma economico e sociale – può rappresentare un fattore sostanzialmente autonomo. Da qui deriveranno non pochi equivoci sul pansindacalismo: che non è neppure nelle fasi più accese, dell’autunno 1969, un tentativo di sostituire i partiti, ma piuttosto l’accentuazione del potere contrattuale del sindacato a tutti i livelli, dalla fabbrica alla società”.
Oggi tutti questi discorsi, queste teorie e analisi, queste innovazioni del sindacato, sembrano risalire ad altri tempi. Il problema potrebbe essere vero se si pensasse a un passaggio normale dalla prima alla cosiddetta “seconda repubblica”. Ma così non è stato e ogni giorno che passa ce ne si rendo conto sempre di più.
Il crollo culturale, politico, sociale, imprenditoriale, di un’intera classe dirigente che cercava di sostituire quella che chiamava “casta” è miseramente fallito. E ha coinvolto anche il sindacato e i suoi leader.
Uno degli ultimi libri di Sabino Cassese ha questo titolo: Una volta il futuro era migliore. Può anche darsi che un popolo recalcitrante ai cambiamenti come quello italiano si arrenda di fronte all’evidenza. E ritornino le analisi di qualche nuovo Tobagi, i discorsi di nuovi Benvenuto e di nuovi Carniti che potrebbero ridare un ruolo determinante anche a un sindacato ormai popolato soprattutto da “pensionati” insoddisfatti, ancora prima dello scoppio della pandemia.