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ARTICOLO | Primo piano di “Atlantide” n. 38 (2016)

Identità, incontro e accompagnamento: alla radice di una vera partecipazione

Da diversi decenni le organizzazioni internazionali e le istituzioni non governative (NGO) hanno adottato teorie e politiche per favorire uno sviluppo dal basso permettendo in questo modo la partecipazione di comunità e gruppi locali nel processo di sviluppo. Concetti quali community-driven, community engagement o empowerment sono diventati popolari.

 

Uno degli obiettivi chiave della partecipazione è quello di incorporare le conoscenze e le preferenze locali nelle decisioni e politiche dei governi, organizzazioni e donors (Mansuri e Rao, 2013). I cosiddetti Participatory Rural Appraisal (PRA), sono stati adottati da NGO e governi locali con lo scopo di facilitare il coinvolgimento delle realtà contadine nella pianificazione, analisi e implementazione di progetti di sviluppo (Chambers e Guijt 2011). A partire dal 1990, attraverso i Rapporti sullo Sviluppo Umano, le Nazioni Unite hanno sancito l’importanza di un approccio dello sviluppo dal basso, capace di amplificare la voce dei più poveri e stabilire così una maggiore partecipazione e opportunità per tutti. Nel 2006, con la creazione dei Millennium Villages Projects, le Nazioni Unite hanno cercato di creare delle comunità modello, intervenendo, sempre con la partecipazione degli attori locali, su diversi settori contemporaneamente e iniettando una grande quantità di denaro.
Gli approcci partecipativi sono stati in parte criticati in quanto favorirebbero l’istituzione di governi informali con il rischio di minare governi democraticamente eletti (Summers, 2001), inoltre il coinvolgimento di comunità attraverso élite locali può generare il fenomeno di élite capture (Platteau 2004) dove influenti membri della comunità si avvantaggiano di benefici dei progetti a scapito di altri membri. Mosse (2001) osserva che in altri casi alcuni membri della comunità possono “calcolare” i loro bisogni in base alle opportunità date dal progetto. Da ultimo, anche i Millenium Development Villages sono stati oggetto di critiche in quanto favoriscono un modello di sviluppo dall’alto che impone schemi e soluzioni prefissati e poco contestualizzati (Carr 2008).
Nel 2014 mi è stato chiesto di valutare il progetto di sviluppo partecipativo UPFORD (University Partnership For Outreach, Research and Development) nato da una partnership tra l’University of Notre Dame e The Uganda Martyrs University. Il progetto, della durata di sette anni (2007-2014), coinvolgeva dodici villaggi nel distretto di Mpigi, a due ore dalla capitale Kampala. Attraverso l’ascolto e il dialogo, il progetto aveva come scopo il coinvolgimento della popolazione locale nella definizione dei bisogni e delle risorse. Nonostante il progetto abbia portato ad alcuni risultati positivi, quali nuove conoscenze agricole e la nascita di diversi gruppi di risparmio e credito, la maggioranza delle persone sono rimaste dipendenti dagli aiuti esterni e il progetto non sembra essere sostenibile a lungo termine. Lo studio svolto attraverso un approccio qualitativo (interviste in profondità e gruppi di discussione) ha mostrato che un processo partecipativo non è sufficiente da solo per generare un soggetto protagonista del proprio sviluppo.
Ma vediamo nel dettaglio che cosa è successo. Nel 2006 una delegazione di Notre Dame, accompagnata da un rappresentante dei Millenium Development Villages delle Nazioni Unite, incontra alcuni residenti dei villaggi di Nndinye (Mpigi), poco distante dal campus universitario della Uganda Martyrs University, promettendo alle comunità grandi investimenti e che sarebbero diventati un villaggio modello. La visita suscita molte aspettative. Le Nazioni Unite nei mesi successivi decisero però di non coinvolgersi nel progetto e Notre Dame si fece carico del progetto.
Il progetto UPFORD prese il via nel 2009 attraverso alcuni incontri con membri del governo locale e la popolazione dei dodici villaggi, con lo scopo di condividere la filosofia del progetto e capire i bisogni delle diverse comunità attraverso un processo di “ascolto”. Durante questi incontri la popolazione ha elencato una lista di priorità: acqua potabile e strutture igieniche elementari, salute, agricoltura, educazione, accesso al credito ed energia. In generale le comunità locali identificarono l’elenco delle priorità con l’immediata realizzazione di attività. Nonostante acqua e salute fossero prime nella lista, le comunità dei dodici villaggi decisero di cominciare dai progetti agricoli. Questa decisione fu probabilmente dovuta in parte al desiderio di alcuni leader delle comunità di indirizzare parte del progetto alle loro principali attività agricole e in parte dalla competenza in agricoltura della Uganda Martyrs University, partner locale del progetto. L’educazione, malgrado fosse risultata quarta nell’elenco delle principali necessità, non fu mai veramente considerata come attività da realizzare nel corso del progetto, nonostante la competenza delle università coinvolte e nonostante il fatto che nelle interviste molte mamme avessero dichiarato che l’educazione dei loro figli fosse una delle loro principali preoccupazioni, nella quale venivano investiti più soldi.
La principale fonte di confusione di UPFORD fu la scarsa comunicazione degli obiettivi del progetto tra staff locale, leadership del progetto e comunità locali: il processo fu capito in diversi modi dai diversi attori coinvolti. Mentre la leadership del progetto a Notre Dame aveva indicato come obiettivo principale l’ascolto e il dialogo costruttivo con le comunità, lo staff locale lo tradusse sul territorio come una semplice mobilitazione delle comunità locali in risposta alle loro necessità. Dal canto loro i residenti dei villaggi intesero il coinvolgimento come un semplice elenco di bisogni e potenziali attività dei progetti, con l’aspettativa di diventare un giorno un villaggio modello delle Nazioni Unite, come era stato loro promesso. Il risultato fu che il processo di ascolto non coinvolse mai realmente le comunità dei villaggi in una riflessione critica sulle attività del progetto con i rispettivi bisogni, valori, significati, tradizioni culturali ed esperienze. L’assenza di un dialogo non ha facilitato la possibilità di un effettivo e genuino incontro con i residenti a un livello più profondo, non solo come risposta e offerta di servizi, ma come scoperta della propria identità e valore come persone. È interessante notare che durante le interviste il termine “ascolto” non venne mai nominato dai residenti come metodologia dell’intervento.
Inoltre, per seguire le attività e per facilitare un dialogo con le varie comunità, fu creato un comitato direttivo del progetto costituito da membri dello staff locale e rappresentanti eletti nei diversi villaggi. Interviste con vari residenti hanno però evidenziato che la costituzione di una nuova leadership nei villaggi ha di fatto generato nuovi livelli di potere (sia economico che decisionale) che prima non esistevano, e un uso delle risorse non sempre trasparente o visibile da tutti. Un membro del comitato ha dichiarato: “Siamo diventati famosi nella società e anche i leader locali ci rispettano”. Nonostante il nuovo comitato fosse stato creato per rendere la popolazione responsabile del proprio sviluppo, esso ha di fatto creato il fenomeno di élite capture descritto da Summers (2001) e Platteau (2004). Infatti, per coinvolgere le comunità a livello della loro identità, determinante è la qualità di relazioni che i coordinatori del progetto riescono a stabilire con i diversi attori locali, tenendo conto dei vari livelli di governo sul territorio.
Nelle fasi finali del progetto, il comitato ha espresso il desiderio di svolgere un ruolo più attivo nella partnership del progetto, proponendo di costituirsi come un’associazione indipendente legalmente riconosciuta e la creazione di una carta costituzionale. Interviste con membri dei villaggi hanno però rivelato che in generale le comunità non erano a conoscenza dell’iniziativa o erano scettiche nell’aderirvi (solo alcuni avevano di fatto voluto pagare la tassa d’iscrizione, altri hanno dichiarato poca fiducia nei membri del comitato). In generale, lo studio ha mostrato che il comitato direttivo avrebbe potuto comunicare più efficacemente alla popolazione lo scopo e i possibili benefici di creare una associazione locale. Di fatto, la mancanza di informazione e la crescente sfiducia nei membri del comitato ha ridotto la possibilità di creare capitale sociale.
Il riconoscimento della propria identità e, più in generale, l’esigenza di significato avviene in un incontro. Rendere partecipi le persone nel loro processo di sviluppo non richiede soltanto un’espansione delle loro opportunità socioeconomiche e/o libertà politiche; richiede che accada a ciascuno, personalmente, qualcosa che li spinga a muoversi, qualcosa che agisca a livello dei loro valori e del significato per cui vale la pena adoperarsi nella realtà. Il concetto di identità proposto da Charles Taylor (1997) è utile per capire in che modo il soggetto si mette in azione. Una persona diventa protagonista del proprio sviluppo e della crescita della società intorno a sé quando prende coscienza della propria identità, quando comincia a rispondere a domande quali “chi sono?” o “perché esisto?”. Ballet et al. (2014) affermano che l’identità è qualcosa di dinamico e avviene quando il soggetto accetta le proprie responsabilità in relazione con altri soggetti.
Lo sviluppo avviene cioè in un processo relazionale, mediante un incontro, e in seguito attraverso un sostegno reciproco, un accompagnamento. In un precedente studio di due casi di sviluppo in Brasile, abbiamo identificato il fattore incontro come decisivo per innescare nei beneficiari un altro modo di percepire il proprio valore e le proprie possibilità, creando nuova fiducia e speranza (Berloffa et al. 2012). Un esempio significativo di questo processo è l’esperienza del Meeting Point International (MPI) di Kampala, Uganda, dove un gruppo di donne originarie del Nord del Paese e per la maggior parte vittime della guerriglia e malate di AIDS, incontrando l’infermiera Rose Busingye, hanno cominciato a sperimentare un bene per la propria vita prima inimmaginabile. Agli inizi degli anni Novanta, Rose, un’infermiera ugandese, comincia a lavorare con pazienti affetti da HIV/AIDS nello slum di Kireka, nella periferia di Kampala, fornendo vari tipi di cure e medicinali. Molti pazienti rifiutavano però di curarsi, di mangiare, di vivere e gli sforzi di Rose rimanevano privi di risultati. Una donna del MPI racconta: “Sai, avevo mio marito, ho 6 figli, il rapporto con mio marito era l’unico rapporto in cui stavo bene, mi dava senso, adesso non c’è più [...] non ho più consistenza, sono smarrita, niente, voglio morire”. Rose afferma: “La nostra amicizia con i malati e le loro famiglie è una scuola dove impariamo come amare veramente e totalmente la vita delle persone e il loro destino” (Busingye 2001). In un’esperienza di affermazione del proprio valore, della propria identità (in cui la libertà personale, l’apertura e vulnerabilità giocano un ruolo fondamentale) la persona comincia a riprendere iniziativa. Nel 2005, dopo la notizia del disastro naturale causato dall’Uragano Katrina e le vittime che portò con sé, le donne del MPI raggrupparono i loro guadagni di un mese di lavoro e li spedirono all’ambasciata americana per consegnarli alle vittime. Qualche anno più tardi, nel 2010, per iniziativa delle donne e con i soldi delle vendite delle loro collane e l’aiuto della Fondazione AVSI, prese il via una scuola secondaria per i loro figli all’interno dello slum. Nel 2016, sempre a Kireka, l’asilo e la scuola elementare sono state rinnovate.
La persona scopre la propria identità e le proprie potenzialità per sé e per la comunità intorno a sé nell’incontro con un’altra persona o con altre persone. Per incontro si intende un momento di riconoscimento in cui la persona, sentendosi affermata, voluta e amata, prende coscienza del proprio valore, riscopre sé stessa ed è così in grado di coinvolgersi in nuove iniziative. Quando questo un incontro non avviene, come nel caso del progetto UPFORD descritto in precedenza, le persone non riescono a mettersi in azione e lo sviluppo rimane inconsistente; quando invece l’incontro è al centro della modalità d’intervento, come nell’esperienza di Rose e delle donne del MPI, è un seme che germoglia rendendo protagonisti le persone coinvolte e portando frutti inaspettati per la comunità e la società circostante.

Riferimenti bibliografici
Ballet J., Dubois J.L., & Mahieu F.R. (2014), Freedom, Responsibility and Economics of the Person, Routledge, New York.
Berloffa G., Folloni G. & Schnyder von Wartensee I. (2012), At the Root of Development: the Importance of the Human Factor, Fondazione per la Sussidiarietà, Milano.
Busingye R. (2001), Discorso di Rose Busingye. Messaggio del Santo Padre per la Quaresima, Città del Vaticano.
Carr E.R. (2008), “The millennium village project and African development”, in Progress in Development Studies, 8, 4.
Chambers R. & Guijt I. (2011), “PRA five years later”, in Cornwall A. (2011), The Participation Reader, Zed Books, London & New York.
Mansuri G. & Rao V. (2013), Localizing Development. Does Participation Work? Policy Research Report. The World Bank, Washington.
Mosse D. (2001), “People’s Knowledge, Participation and Patronage: Operations and Representations in Rural Development”, in Cooke B. and U. Kothari (a cura di), Participation: The New Tyranny, Zed Books, London.
Nebel, M. & Herrera, R.T. (2006), “A hermeneutic of Amartya Sen’s concept of capability”, in International Journal of Social Economics, 33(10), pp. 710-722. doi 10.1108/030682906106689741.
Platteau J.P. (2004), “Monitoring elite capture in community-driven development”, in Development and Change, vol. 35, (2), pp. 223-246.
Summers L. (2001), Speech at World Bank Country Director’s Retreat, May, Washington D.C (http://www.jubilee2000uk.org/opinion/Larry_summers120601.htm)
Taylor, C. (1997), “The Politics of Recognition”, in A. Heble, D. Palmateer Pennee, & J.R. Struthers (a cura di), New Context of Canadian Criticism, Broadview Press, Peterborough, Ontario.

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