L’Africa sono le Afriche. Al plurale. Per via di storia, lingue (1.800 diverse), tradizioni, religioni, etnie. Eccetra. Gli Stati sovrani (almeno sulla carta) che compongono l’affascinante e complicato mosaico sono 54. Qualcheduno azzarda che possano essere 55 se si comprende il Sahara occidentale che si trova sulla costa nord- occidentale dell’Africa occidentale, colonia spagnola fino al 1975 e poi conteso tra il Regno del Marocco e la Repubblica democratica araba dei Sahrawi. E uno di quei tasselli dove è esplicita la contraddizione che esprime il Continente e che, nei decenni, ha prodotto fino ad oggi un conflitto a bassa intensità tra il regno marocchino e il Fronte Polisario. Di norma vengono definite così le guerre che infiammano le Afriche. Ma se aggiungiamo la parola dimenticate si offre una fotografia più consona alla drammaticità della situazione, più aderente alla complessità e più avvertita nel porre in rilievo le responsabilità. Interne e internazionali.
I vizi della mentalità coloniale
Ecco perché si possono certamente dire delle cose sulle Afriche decostruite degli stereotipi occidentali, ma muovendo dalla semplice e di norma trascurata considerazione che di quel Continente, in verità, conosciamo assai poco. E, il più delle volte, quando l’Occidente lo racconta, conserva l’antico vizio del colonizzatore. E questo non aiuta alla comprensione. C’è distanza, insomma. Relazione poca e zoppicante tranne che per le meritevoli e ormai storiche attività di alcune Ong e per la presenza missionaria delle Chiese.
Perché la relazione prevede il dialogo e la collaborazione fra pari. La mentalità colonizzatrice poggia su altro. La storia insegna. La mentalità colonizzatrice si domanda: quanto può valere l’Africa? (al singolare, naturalmente). Chi crede nel valore umano della relazione si chiede invece: quanto possono valere le Afriche per gli africani? Fa tutta la differenza del mondo. Fa tutta la distanza dal mondo. Il pensiero che viaggia sorretto solo da logiche economiche e commerciali manifesta la volontà di potenza di chi non intende proprio mollare la presa. L’uomo economico siffatto bada solo a se stesso, è iper – individualista, il suo programma non è interessato ai beni comuni da preservare e al metodo della relazione.
La paura esistenziale del Sud del mondo
Dentro questa prospettiva rientra il titolo di copertina del settimanale liberal The Economist scelto per avviare il 2025: “The capitalism revolution Africa needs”. Dunque, il continente più povero del mondo avrebbe bisogno di una bella rivoluzione di segno capitalista per uscire dalla propria precaria condizione. E per rinforzare il concetto l’immagine che sostiene il titolo programmatico mostra plasticamente un bel pugno chiuso di un afro che contiene un mazzo di dollari. In sintesi: l’africano può realizzare profitto perché c’è il partner esterno a sostenerlo nella mission. Magari eteroguidato dalla City londinese.
Le Afriche si stanno muovendo per liberarsi una volta per tutte dalla mentalità del Nord del mondo. Sanno di essere il Sud e sulla riappropriazione dei suoi pilastri sono impegnate a giocare finalmente da protagoniste la partita più difficile ma vieppiù inevitabile. Tuttavia, la presa di coscienza di essere il Sud del mondo porta con sé un gravoso problema, una sorta di paura che si potrebbe definire esistenziale. Se sei nato e cresciuto come persona colonizzata il timore è di non potercela fare e infine di dover tornare in quella deficitaria condizione di dipendenza. Le nuove Afriche, il cosiddetto rinascimento africano, sono chiamate a fare i conti con questo travaglio. L’educazione autoctona può essere il fattore decisivo per affermare l’indipendenza esistenziale dal virus del percepirsi colonizzati. Investendo in questa direzione le future generazioni vivranno l’esperienza della completa liberazione dai traumi che hanno accompagnato e segnato la vita delle generazioni precedenti.
La ricchezza delle economie minute
Si capisce allora perché il presente delle genti africane è costellato da un tragitto da compiersi assai frastagliato, costellato di salite ripide, di inciampi e intralci inevitabili. Ma non può essere il paradigma dell’homo oeconomicus il modello da seguire – checché ne scriva l’Economist – visti, tra l’altro, i danni prodotti alla globalizzazione dalle teorie neoliberiste che nel mondo anglosassone continuano ad essere il pensiero economico di riferimento. Come non può esserlo la versione, magari aggiornata, del capitalismo di Stato che già in passato i popoli africani hanno subito a causa di regimi dittatoriali e oligarchie corrotte. Fenomeni tutt’altro che usciti di scena.
Le accademie africane – i luoghi della conoscenza sono laboratori fondamentali per costruire classi dirigenti illuminate – stanno facendo i conti con l’originalità e la diversità del Continente. Da qualche tempo è in atto un ripensamento complessivo e strutturale che mette drasticamente in discussione la visione individualistica che innerva l’uomo economico. Le Afriche sono una dimensione altra. Che, in forza delle proprie specificità, sfugge a qualsiasi tipo di riduzione antropologica e sociale. In buona sostanza la letteratura delle Afriche dice che lo sviluppo sostenibile del Continente passa anche dalla ricchezza delle economie minute, dall’intrapresa solidale delle comunità rurali, da processi di emancipazione dal gigantismo muscolare fondato sulla crescita per la crescita. E non sulla crescita legata allo sviluppo sostenibile. Vale per tutti, ma per il Sud del mondo la questione è dirimente: la cooperazione è da ritenersi la leva fondante della vita economica. L’economia di mercato, alimentata da questa energia, prende l’aspetto della dimensione “relazionale” proprio perché viene ad essere innervata da discipline tipicamente sociali. Dunque, il cuore dell’economia di mercato non è l’homo oeconomicus ma l’uomo in quanto tale che consiste nella relazione con gli altri.
La corsa del ghepardo africano
Lo sviluppo delle Afriche non potrà che essere endogeno e, per l’appunto, relazionale. Sono gli africani stessi il potenziale di questo percorso di trasformazione. Lo snodo cruciale è proprio questo. Carlos Lopes, economista originario della Guinea Bissau, sul suo seguitissimo blog ha raccontato il Continente che potrebbe essere ricorrendo all’immagine della corsa del ghepardo africano. Animali che possono raggiungere i cento chilometri in appena tre secondi, ma che hanno altre qualità da vendere: “Cacciano in gruppo con spirito di squadra, non lo fanno per il gusto di uccidere, pianificano gli sforzi e non sbagliano un colpo. Sono corridori – strateghi, capaci di selezionare e ordinare le priorità”. Quella del ghepardo africano è l’immagine di chi ha chiaro l’obiettivo da raggiungere e per riuscirvi adotta il metodo efficace di fare sistema. Si relaziona. La metafora utilizzata dall’economista, che in passato ha ricoperto il ruolo di vicesegretario generale delle Nazioni Unite e poi Alto Rappresentante dell’Unione africana per i rapporti con l’Europa, lascia intendere come nel Continente vi siano risorse fuori dal comune, specificità straordinarie che vanno valorizzate in un gioco di squadra. La cooperazione può essere il perno di questa corsa virtuosa. Il perno di un’economia di mercato che scommette in primo luogo sulle capacità dell’uomo a tutto tondo.
Globalizzazione equilibrata
L’aver tagliato il traguardo dell’indipendenza economica, politica, alimentare significherebbe per il Continente la chiusura del cerchio: l’affermazione di uno status autentico di realtà sovrane. Siamo ancora lontani da questo scenario virtuoso. Divisioni intra–paesi africani si sommano al perdurare di rapporti sbilanciati con le potenze economico/finanziarie del Nord del mondo, con annessi interessi sproporzionati delle multinazionali. Ma quando i paesi africani saranno in grado di produrre ciò di cui hanno bisogno? Difficile fare previsioni. Neppure gli analisti più avveduti cedono alla tentazione di sbilanciarsi. Anche perché il cammino post coloniale, a dire il vero, è tutt’altro che completato. Le tracce sono ancora assai evidenti e influenti come raccontiamo in questo numero della rivista. Il condizionamento complessivo permane come lo sfruttamento dei territori per estrarre le ricchezze naturali (ci sono il 30% delle riserve di materie prime del mondo e il 60% delle terre arabili), tra le piaghe oggi più traumatiche da sopportare insieme all’emergenza sanitaria e alle disuguaglianze. Come ci ha spiegato la scrittrice e attivista Tsitsi Dangarembga, se pare superata la stagione del colonialismo politico lo stesso non può dirsi per il colonialismo economico. Che continua a contagiare e a trasmettere messaggi illusori ai popoli africani sui vantaggi che produce il sistema capitalistico, il solo in grado di generale un profitto infinito. E perciò di garantire il benessere delle persone.
La sovranità delle Afriche passa dallo sradicamento e dall’emancipazione dalle molteplici espressioni del colonialismo economico. Si tratta di recuperare la fiducia e lo spirito di cooperazione. Nel Continente ci sono numerosi esempi di questo illuminante e illuminato tentativo. Il ridisegno delle Afriche emancipate è nell’utilizzo, prima di tutto, di matite africane. Temperate al punto giusto. La relazione intro–africana è la necessaria premessa alla relazione con i mondi. Laddove il Continente ha tutti i fondamentali per essere protagonista di una globalizzazione equilibrata. La prossima.