Trimestrale di cultura civile

Imprese comunitarie, imprenditorialità
trasformativa dal basso

L’economia informale è una ricchezza caratteristica del Continente quasi per nulla conosciuta o volutamente ignorata in Occidente. Poggia su un tessuto di norme, di abitudini e di tradizioni che da secoli regolano le relazioni sociali, economiche e comunitarie. Che influenzano nel profondo il comportamento delle persone e delle realtà imprenditoriali. Si tratta di istituzioni “dal basso” che si pongono a tutti gli effetti quali modelli alternativi di sviluppo. In grado di rispondere alle sfide economiche e sociali attraverso l’attivazione di processi creativi, sostenibili e culturalmente contestualizzati. Sono modelli che possono rappresentare un’alternativa credibile e sostenibile allo sviluppo del Continente africano. Una risposta “dall’interno” alle criticità delle Afriche. Una risposta resiliente di comunità.

Il valore nascosto della tradizione africana

Fin dal primo incontro con l’Africa, vivendola e conoscendola, emergono due aspetti che la caratterizzano: da un lato la povertà e le difficoltà strutturali che sono note in questi contesti, con una serie di grandi sfide sociali, economiche ed ambientali (povertà, fame, diseguaglianze, guerre, difficoltà di accesso alla cura e all’educazione ecc.); dall’altro, però, è difficile non cogliere la vitalità e il dinamismo che caratterizzano questi luoghi: uomini e donne, giovani e anziani, che si mettono in moto per costruire e cambiare il proprio contesto, rispondendo in modo creativo alle sfide quotidiane.

Il continente africano è spesso descritto in termini di mancanza: un continente nero, connotato da scarsità di infrastrutture, instabilità politica, limitato capitale economico. Eppure, questa narrazione ignora una realtà fondamentale: al di là delle strutture di governance ed economia – le cosiddette “istituzioni formali” –, esiste un tessuto di norme, abitudini e tradizioni che da secoli regolano le relazioni sociali, economiche e comunitarie. Sono reti di fiducia, consuetudini, norme culturali che, pur non essendo codificate dalla legge, influenzano profondamente il comportamento delle persone e delle imprese.

Queste istituzioni informali sono particolarmente cruciali nel contesto imprenditoriale africano, dove l’accesso al credito, ai mercati e alla formazione è spesso ostacolato da barriere burocratiche e da un sistema economico che non risponde alle esigenze delle comunità più vulnerabili. In tale scenario, le reti comunitarie di imprenditori rappresentano luoghi in cui sperimentare e mettere in pratica soluzioni che mettono in moto uno sviluppo dal basso, anche nei contesti più vulnerabili e marginalizzati. Non si tratta quindi di un ecosistema imprenditoriale che adotta modelli della Silicon Valley americana (dove il tessuto delle imprese è meccanicamente orientato al profitto e alla crescita), ma un sistema di rapporti e un modo di fare impresa che genera e che coinvolge gli attori locali e le loro tradizioni e abitudini: le imprese africane, in tal senso, sono guidate molto più dalle norme informali, piuttosto che dall’orientamento ai capitali e alla crescita.

Uno dei concetti chiave per comprendere questa dinamica è quello di “embeddedness”, introdotto dal sociologo Mark Granovetter nel 1985. Secondo Granovetter, le attività economiche non sono mai completamente autonome, ma sono sempre immerse in una rete di relazioni sociali. In Africa, l’economia informale è un perfetto esempio di questa teoria: le imprese non si basano solo su transazioni di mercato, ma su vincoli sociali, reciprocità e norme comunitarie; su un senso di appartenenza alla comunità stessa (Ciambotti et al., 2023).

A partire da queste considerazioni preliminari, l’obiettivo dell’elaborato è di illustrare il ruolo che queste istituzioni informali giocano nello sviluppo di un’imprenditorialità comunitaria trasformativa, capace di rispondere alle sfide economiche e sociali attraverso modelli creativi, sostenibili e culturalmente contestualizzati. Si approfondirà il ruolo delle organizzazioni comunitarie, analizzando come questi modelli possano rappresentare un’alternativa sostenibile allo sviluppo del Continente.

Le istituzioni informali e la costruzione economica dal basso

Il concetto di istituzioni informali è stato analizzato da diversi studiosi. Douglass North (1990) nel suo famoso libro intitolato Institutions, institutional change and economic performance le definisce come “i vincoli informali che strutturano l’interazione umana, come le tradizioni, le credenze e le norme sociali”. Queste istituzioni, pur non essendo formalizzate in leggi, influenzano profondamente il funzionamento dei mercati, la gestione delle risorse e la struttura delle imprese. In contesti dove le istituzioni formali sono deboli o inefficienti, come in molte economie africane, le istituzioni informali riempiono questi vuoti, fornendo strutture alternative di regolazione economica. Tali strutture alternative si fondano su meccanismi comunitari di mutua assistenza, che trovano la radice più profonda nella vita tribale dei villaggi, dove i rapporti sono spesso basati sulla cura vicendevole, gratuità e solidarietà. Uno degli esempi più emblematici di tali norme e pratiche informali è il sistema delle tontines, diffuso in diversi paesi dell’Africa occidentale come Senegal, Cameroon e Ghana. Le tontines sono gruppi di risparmio rotativo, in cui ogni membro contribuisce periodicamente con una somma di denaro che viene poi assegnata a turno a uno dei partecipanti. Questo modello consente di raccogliere capitali anche senza far ricorso al credito delle banche che spesso impongono condizioni inaccessibili alle fasce più povere della popolazione.

In Kenya, il concetto di Harambee – termine Swahili che significa “let us all pull together” – rappresenta un principio di cooperazione collettiva che ha permesso a migliaia di imprenditori di auto-finanziarsi, così come di contribuire allo sviluppo di opere pubbliche come scuole e ospedali. Attraverso la creazione di gruppi di self-support, chiamati Chamas, soprattutto le donne, i giovani e piccoli gruppi di imprenditori riescono ad accedere a prestiti e investimenti che altrimenti sarebbero loro preclusi. Tutto ciò grazie alla convinzione in un legame di condivisione che unisce tutto il gruppo, il villaggio e tutta la comunità. Questi esempi di meccanismi comunitari sono presenti in quasi tutti i contesti africani: in Sudafrica dove sono presenti circa 800.000 gruppi di self-support chiamati Stokvels, con circa 11 milioni di membri; in Ruanda il governo ha istituzionalizzato la pratica dell’Ubudehe, che è definito come “practice and cultural value of mutual assistance among people living in the same area in order to overcome or solve their socio-economic problems” (Local Administrative Entities Development Agency, Ruanda). Le pratiche e le norme informali svolgono diverse funzioni: facilitano l’accesso al credito attraverso circuiti di microfinanza comunitaria, forniscono un quadro di riferimento per la gestione delle risorse comuni e favoriscono forme di collaborazione e solidarietà tra imprenditori locali che permettono l’approvvigionamento di risorse e la crescita dell’attività economica.

Ciò che spicca, dunque, pur nelle difficoltà estreme e nelle grandi diversità dei Paesi africani, è un senso di unità che caratterizza gli imprenditori africani, soprattutto i giovani e le donne. Tale senso di unità si esprime, ad esempio, nel valore condiviso dell’Umoja, che in Swahili significa “essere uno”, o dell’Ubuntu[1], che nell’antica lingua Bantu indica l’essere “umanità verso gli altri” o che “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. Dunque, chi vive l’Africa, con le sue complessità e le diversità culturali, non può tralasciare questo senso di unità e di esistenza che si concretizza in rapporti e in un tessuto sociale che è pronto ad aiutare e supportare lo sviluppo: come una grande famiglia che accompagna nella crescita la persona, poi, con l’impegno delle organizzazioni circostanti, si concretizza l’abbraccio di tutto il villaggio.

Le Community-Based Organizations come intermediari di sviluppo

Le istituzioni informali in Africa creano le condizioni per un’economia dal basso traducendo valori, tradizioni e norme condivise in forme imprenditoriali che non mettono al centro la generazione di profitto e la crescita economica, ma – radicandosi in quelle stesse tradizioni e norme sociali – promuovono obiettivi, strategie e pratiche aziendali comunitarie. La comunità e i suoi membri, in quest’ottica, non sono dunque visti meramente come beneficiari di prodotti e servizi, ma più come agenti di cambiamento, attori che si aggregano per condividere un cammino di sviluppo. In letteratura, tali forme organizzative sono chiamate Community-Based Organizations (CBOs) o Enterprises (CBEs) e rappresentano quindi il ponte tra queste strutture tradizionali e il mondo delle politiche pubbliche, delle imprese, delle ONG e del mercato globale. Le CBOs sono, dunque, organizzazioni radicate nelle comunità locali, e promosse da membri della comunità, che lavorano per affrontare le sfide economiche e sociali attraverso strategie partecipative e inclusive (Peredo & Chrisman, 2006). Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia nel 2009, ha dimostrato che le comunità possono gestire in maniera efficace le risorse collettive senza bisogno di forti autorità centrali. Questo principio è alla base delle CBOs, attive in settori strategici come agricoltura, pesca, manifattura, promozione culturale e la formazione imprenditoriale.

Le CBOs in Africa operano all’interno dell’economia informale, una dimensione economica che, pur essendo non regolamentata dallo Stato, è largamente legittimata e accettata dalla popolazione (Webb et al., 2020). A differenza dell’economia formale, quella informale comprende attività economiche che non sono registrate, non pagano tasse e non garantiscono protezioni legali o lavorative. Questo la rende “invisibile” agli occhi delle istituzioni ma essenziale per la sopravvivenza quotidiana di milioni di persone. Il legame tra CBOs ed economia informale è profondo: le CBOs spesso nascono all’interno delle comunità locali per rispondere ai bisogni reali e immediati delle persone che vivono e lavorano in questi contesti. In assenza di un supporto istituzionale adeguato, queste organizzazioni fungono da intermediari vitali, offrendo servizi sociali, assistenza e supporto economico a lavoratori e imprenditori informali, che altrimenti resterebbero esposti a rischi elevati.

Infatti, chi opera nell’economia informale è frequentemente soggetto a forme di vulnerabilità: sfruttamento da parte dei datori di lavoro, mancato pagamento da parte dei clienti, corruzione diffusa e assenza di protezioni legali. Tuttavia, nonostante queste criticità, l’economia informale svolge un ruolo fondamentale e spesso sottovalutato nel tessuto urbano: genera occupazione, rafforza i legami comunitari e offre mezzi di sussistenza sostenibili sia per i residenti urbani che per i migranti. In tal senso, le CBOs nell’economia informale delle città africane agiscono come reti di protezione sociale dal basso, contribuendo a ridurre la povertà estrema e a prevenire il rischio che le fasce più vulnerabili della popolazione siano sempre più escluse e poste ai margini della società. Le CBOs, inserendosi in questo contesto, diventano attori chiave per sostenere, organizzare e rafforzare tali dinamiche.

Il tessuto che deriva da questi approcci cooperativi nei contesti poveri è dunque fatto di relazioni tra organizzazioni e attori di mercato che mettono al centro del loro operato l’interesse verso la comunità concependosi in collaborazione anziché in competizione (come un approccio tradizionale al mercato dovrebbe supporre).  Weiss e colleghi (2024) hanno studiato il contesto dell’imprenditorialità informale in Kenya e Sudafrica illustrando come proprio gli accordi cooperativi commerciali adempiano a funzioni cruciali di welfare economico e sociale in assenza dello Stato. Alla base di questo ordine sociale ci sono proprio le istituzioni informali (norme, valori e relazioni personali di lunga data) che generano pratiche e comportamenti commerciali adattabili al contesto di povertà. Gli autori hanno spiegato come queste forme locali di cooperazione e collaborazione fondate sull’interdipendenza tra imprese informali locali, delineano un vero e proprio legame mutualistico che unisce le aziende, nonostante esse operino in un contesto segnato da criminalità, corruzione e assenza di un sostegno governativo efficace. In questo ambiente difficile, tali imprese hanno sviluppato una soluzione collettiva e auto-organizzata per generare valore per sé, per i propri lavori e per le loro famiglie.

Un esempio emblematico è rappresentato dalle officine di riparazione auto nella zona di Dagoretti (Nairobi)[2], che illustra come queste imprese non si percepiscono in concorrenza, ma altresì:

1)     risparmiano e investono insieme, promuovendo iniziative imprenditoriali comuni,

2)     offrono apprendistati a giovani provenienti da aree rurali del Kenya che hanno abbandonato la scuola

3)     creano un sistema di assicurazione sociale dal basso, che garantisce supporto economico non solo ai titolari delle officine e ai loro lavoratori, ma anche ai rispettivi nuclei familiari.

In sintesi, lo studio di Weiss et al. (2024) illustra come queste imprese non guardano solo al proprio profitto individuale, ma promuovono un impatto virtuoso nella collettività: questo spirito di solidarietà reciproca tra gli attori economici, infatti, assicura a tutti i membri del network un sostegno concreto nei momenti di difficoltà, rafforzando la resilienza della comunità nel suo complesso.

Per documentare con qualche esempio pratico, vengono di seguito illustrate alcune storie di CBOs africane nei settori del microcredito, dell’arte e dell’agricoltura.

Il Mukuru Art Collective (Foto da Facebook)

Haki Group è una organizzazione che opera nella baraccopoli di Kibera (Nairobi, Kenya), nata nel 2012 per alleviare la povertà nello slum attraverso il supporto agli imprenditori e alle famiglie. Questa organizzazione sostiene un network di oltre 400 imprenditori suddivisi in gruppi di 15-20 membri volti ad attuare pratiche di microcredito e risparmio informali. Come anticipato, questi gruppetti sono chiamati “Chamas” e l’attività principale è quella del “Table-banking” (“Merry-go-around” nel gergo locale): un giorno alla settimana gli imprenditori si trovano in un ufficio e fisicamente ciascuno di loro deposita su un tavolo la somma concordata ad inizio anno. Il totale raccolto ad ogni sessione verrà poi suddiviso in forma di micro-prestiti immediati che il gruppo fa al singolo imprenditore, il quale dovrà poi restituire la somma con interessi. Tale meccanismo informale diventa essenziale per gli imprenditori poveri nell’ottica di comprare piccoli macchinari o avere il capitale circolante per mandare avanti l’attività nei momenti difficili o aumentare la propria capacità produttiva.

Anche in campo artistico una forma di impresa tipica è quella comunitaria. Vodo Arts Society & Lab è un’organizzazione comunitaria artistica che ha sede a Kampala (Uganda) che ha aggregato diversi giovani artisti con lo scopo di sviluppare l’industria artistica in Uganda attraverso la promozione dell’arte come opportunità di sviluppo non solo per artigiani locali ma soprattutto per le comunità più povere. Vodo, infatti, concepisce l’arte come mezzo di cambiamento sociale in grado da un lato di divulgare messaggi diretti ai policymakers e agli attori governativi, dall’altro di ispirare nelle comunità povere un cambiamento. La CBO, quindi, diventa un agente di cambiamento attraverso pratiche di advocacy politica e socioculturale, come avviene in tante imprese comunitarie artistiche in Africa. La prima forma è cosiddetta di “artivism”, e viene promossa attraverso murales in spazi stabiliti o eventi pubblici (momenti di danza, musica rap, lettura di poesie) dove vengono veicolati messaggi a chi fa politica, ad esempio sull’uso delle risorse idriche, o sulle politiche sanitarie. La seconda forma richiede un ingaggio delle comunità e una loro partecipazione alla realizzazione dell’opera (una poesia, un quadro, un’istallazione), innervando il luogo dove ripensare situazioni e concepire soluzioni pratiche ai problemi vissuti dalle comunità povere. Organizzazioni comunitarie come Mukuru Art Collective in Kenya hanno promosso iniziative comunitarie sul valore dell’educazione primaria, sulla violenza familiare di genere, sulle droghe e l’AIDS; Afropocene, a Kampala, ha invece realizzato una mostra dell’artista Ronald Odur[3] sulle possibilità o gli ostacoli agli spostamenti tra paesi africani per i più poveri che non hanno il passaporto; tali limiti rappresentano perdite di opportunità per la popolazione più fragile.

Da ultimo, in Africa l’organizzazione comunitaria gioca un ruolo chiave nel settore agricolo, che è ancora il motore di sviluppo principale dell’economia africana. Ad esempio, si consideri le cooperative rurali a Gakenke e Nyabihu, due distretti del Ruanda che sono stati particolarmente colpiti dal cambiamento climatico che sta affliggendo la produzione e il commercio del frutto della passione, dell’ananas e della patata dolce. In questa situazione, le CBOs sotto la forma di cooperative agricole hanno un ruolo cruciale nel generare nuove opportunità per le comunità di riferimento, promuovendo nuove attività imprenditoriali nei settori dell’artigianato o dell’eco-turismo. Inoltre, aggregarsi in cooperative permette ai piccoli agricoltori di elevare il proprio potere contrattuale e sviluppare nuovi sbocchi di mercato: ad esempio, alcune cooperative inviano gruppetti di agricoltori “in esplorazione” nella capitale, Kigali, per cercare nuovi clienti.

Questi esempi raccontano forme di collaborazione solidaristica e mutualistica che sono intermediarie allo sviluppo, nel senso che, attraverso pratiche di impresa, mettono al centro il bene della comunità e attivano azioni pratiche e semplici per poter contrastare le grandi sfide sociali e ambientali che affliggono il contesto.

Conclusioni: un modello di sviluppo dal basso per il futuro dell’Africa

L’approccio delle organizzazioni comunitarie e gli esempi di pratiche attivate dimostrano come le istituzioni informali non siano solo strumenti di sopravvivenza economica, ma modelli alternativi di sviluppo, capaci di promuovere un’imprenditorialità basata sulla solidarietà, sulla reciprocità e sulla fiducia.  L’Africa è un continente in rapida trasformazione, ma il suo sviluppo sostenibile non può dipendere esclusivamente dall’intervento di istituzioni internazionali o dall’adozione di modelli economici importati. Come sottolinea George Ayittey (2006) nel suo libro Indigenous African Institutions, l’Africa dovrebbe cercare di costruire sul proprio modello, non copiare meccanismi di sviluppo propri dell’Occidente. L’imprenditorialità trasformativa che nasce dalle istituzioni informali e dalle CBOs rappresenta una strada concreta per costruire un’economia più resiliente, equa e sostenibile.

Occorre porre attenzione anche alle politiche di sviluppo che cercano di sostituire l’informalità con accordi economici formali in stile occidentale. Gran parte dello sviluppo economico convenzionale si concentra su imprenditorialità, innovazione, creazione di posti di lavoro e crescita, ed è orientato alla trasformazione delle economie informali per colmare ciò che è percepito come assente. Così facendo, però, questi interventi rischiano di minare i sistemi economici e di welfare sociale esistenti. Per prevenire danni e rafforzare invece ciò che funziona già, è necessario:

-              riconoscere e valorizzare le istituzioni informali, non solo a livello di politiche pubbliche ma anche di programmi che ne facilitino l’integrazione nel sistema economico formale;

-              favorire partnership tra organizzazioni comunitarie, governi e settore privato, per amplificare l’impatto di tali iniziative di “intermediazione” con le comunità povere;

-              investire in tecnologia e formazione, per permettere alle imprese comunitarie di innovarsi e condividere meglio i propri approcci e attività a beneficio di altri contesti.

Le risposte ai problemi economici delle Afriche non devono venire da fuori, ma possono nascere dalle comunità stesse. L’attivazione di processi creativi che fanno leva sulle risorse disponibili e sulle reti sociali esistenti, dimostra che anche in contesti di scarsità è possibile costruire soluzioni imprenditoriali di successo (Ciambotti et al., 2023). È dunque un augurio quello che il Continente del futuro venga costruito dal basso, dalle sue comunità e dalle sue reti di solidarietà poiché proprio in queste istituzioni invisibili, troppo spesso ignorate, si trova il vero motore della trasformazione economica e sociale del continente.

[1] N. Mandela descrive l’Ubuntu in questo breve video: link 

[2] Bothello, J. & Weiss, T. (2025). “Strengthening Africa’s Urban Informal Economies”, Stanford Social Innovation Review, disponibile a questo link.

[3] È possibile leggere una breve intervista all’artista a questo link.

BIBLIOGRAFIA:

Ciambotti, G., Zaccone, M. C., & Pedrini, M. (2023). Enabling bricolage in resource-constrained contexts: the role of sense of community and passion in African social entrepreneurs. Journal of Small Business and Enterprise Development, 30(1), 167-185.

North, D. C. (1990). Institutions, institutional change and economic performance. Cambridge University Press.

Peredo, A. M., & Chrisman, J. J. (2006). Toward a theory of community-based enterprise. Academy of management Review, 31(2), 309-328.

Webb, J. W., Khoury, T. A., & Hitt, M. A. (2020). The influence of formal and informal institutional voids on entrepreneurship. Entrepreneurship Theory and Practice, 44(3), 504-526.

Weiss, T., Lounsbury, M., & Bruton, G. (2024). Survivalist organizing in urban poverty contexts. Organization Science, 35(5), 1608-1640.

Giacomo Ciambotti è Ricercatore e Docente di Strategia d’Impresa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove collabora nella Graduate School of Sustainable Management (ALTIS).

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