Trimestrale di cultura civile

Ritmi dell'anima: gioia di vivere e serenità

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Oggi la musica africana sta avendo un’influenza sorprendente a livello globale. L’Africa non è solo la culla della musica, piuttosto il suo cuore pulsante. Capace di mantenere ben vivo il suo significato originario di aggregazione e identità sociale. Con Andrea Pomini, giornalista e dj, autore di una guida allegata alla rivista Rumore intitolata Africa ieri, oggi e domani. 50+50 dischi per amare il continente, abbiamo fatto un viaggio dentro la sorprendente originalità delle sonorità africane. Tra autori, tradizioni, tendenze. Per scoprire che la musica occidentale deve tantissimo a quella pluralità di generi e di culture.

Secondo The Economist, gli streaming di afrobeats su Spotify sono aumentati del 34% nel 2024, a dimostrazione della crescente influenza della musica africana a livello globale. Nonostante l'Africa sia spesso associata a povertà e disastri, la sua tradizione musicale è ricca e diversificata, e riflette la complessità culturale del continente.

La musica africana ha una lunga storia ed è sempre stata parte integrante della vita sociale, spirituale e politica. Per molti occidentali, la scoperta della musica africana è avvenuta con Graceland di Paul Simon (1986), un album che mescolava sonorità sudafricane con folk e pop occidentale. L’album rese celebri artisti come Ladysmith Black Mambazo e aprì le porte alla diffusione globale della musica africana, nonostante le controversie legate al boicottaggio culturale imposto al Sudafrica per l’apartheid.

La musica africana ha influenzato profondamente la musica mondiale a seguito della tratta transatlantica degli schiavi, che portò alla nascita di generi come blues, jazz, samba, reggae e rumba. Ancora oggi, diversi stili musicali caratterizzano le varie regioni africane: l’Africa occidentale è famosa per i griot, l’highlife e l’afrobeat di Fela Kuti, che univa jazz, funk e musica tradizionale per denunciare ingiustizie sociali. L’Africa orientale è nota per il taarab e il benga, mentre l’Africa meridionale ha tradizioni come l’mbube e il marabi. Il soukous congolese domina l’Africa centrale, mentre il chaabi e il gnawa sono diffusi nell’Africa settentrionale, influenzati dalla cultura araba e berbera.

Grazie alla globalizzazione, la musica africana continua a evolversi e a ispirare la scena musicale internazionale, con generi come afrobeats e amapiano che conquistano sempre più pubblico. Andrea Pomini, giornalista e dj, sottolinea che in Africa la musica ha ancora un forte valore comunitario, unendo le persone e mantenendo il suo significato originario di aggregazione e identità sociale. L’Africa non è solo la culla della musica, ma il suo cuore pulsante. Ne abbiamo parlato con lui, autore della bella guida Africa ieri, oggi e domani. 50+50 dischi per amare il continente allegata alla rivista Rumore: “La musica serve per riunirsi intorno a qualcosa, non c’è occasione migliore. È qualcosa che unisce e dà una identità. In Africa, a differenza che qui da noi, la musica ha mantenuto dei significati comunitari. Una volta era così anche da noi, quando si finiva di lavorare nelle campagne ci si ritrovava alla sera a suonare e cantare insieme. In Africa la musica ha mantenuto il suo significato di socialità. L’Africa è ancora un posto dove la musica ha un ruolo che non è di semplice intrattenimento come da noi”.

La rivista The Economist scrive di un boom dell’afrobeats negli ascolti sulla piattaforma digitale Spotify. Ci spiega di cosa si tratta?

Afrobeats, da non confondere con afrobeat, è un modo di chiamare una versione nigeriana e ghanese di un misto di hip hop, trap e R&B con un sapore locale. È un fenomeno molto forte, l’America lo guarda con attenzione e come spesso succede lo saccheggia. È uno stile molto vivo, con produttori africani, che sta vivendo un momento assai felice.

Tra le tante cose che si scoprono leggendo la sua guida, ce ne sono alcune sorprendenti che cambiano il nostro modo di vedere l’Africa. È il caso dell’Etiopia, di cui cita Mahmoud Ahmed, una star di quella che negli anni 60 e 70 veniva chiamata “swinging Addis”. Per noi l’Etiopia è il paese dove i bambini muoiono di fame e delle guerre sanguinose, invece c’era una fiorente scena musicale, è così?

In Etiopia c’era una scena incredibile, un misto di jazz, funk e R&B applicati a delle scale e armonie completamente diverse dalle nostre. Teniamo conto che questa fiorente scena musicale si svolgeva nella capitale Addis Abeba, non certo nei villaggi sperduti. D’altronde in Africa la maggior parte delle persone vive nelle grandi città. Erano musicisti e band pagate dallo Stato che si esibivano negli alberghi.

Però era una musica contaminata con la musica americana, il contrario di quello che era successo in passato quando la musica africana arrivò in America.

Negli anni 60 e 70 un artista come James Brown era qualcosa di globale, come arrivava in Italia possiamo immaginarci quanto risuonava in Africa un nero che portava avanti istanze di orgoglio razziale. Il funk e il soul americani arrivavano in Africa come arrivavano qui. Personaggi come Otis Redding o i Funkadelic erano molto popolari e ognuno li rivedeva a suo modo.

La stessa cosa accadeva in Somalia, lei cita un album pubblicato recentemente intitolato Lost Somali, Tapes from the Horn of Africa. La Somalia è devastata da decenni di guerra sanguinosa, eppure anche qui c’era una fiorente scena musicale. 

È quasi impossibile citare un paese africano dove non ci sia mai stata una guerra. Sono Stati che abbiamo fatto noi con il righello e la penna creando problemi drammatici, mettendo insieme popoli che si odiavano da sempre e separando altri che invece vivevano insieme da altrettanto tempo. Geograficamente, la Somalia è un paese con caratteristiche particolari. Si trova in una posizione dove davanti c’è l’India, il sud est asiatico, mentre sopra ha il mondo arabo. È un miscuglio e la musica descrive questo miscuglio. Sono canzoni che erano scomparse e sono state recuperate da archivi statali e locali spesso nascosti. Io definisco il disco che ha citato un miracolo, più che una compilation. Mogadiscio, che allora era conosciuta come la perla dell’Oceano Indiano, negli anni 70 e primi 80 era un piccolo sogno cosmopolita. Musiche locali come il qaraami, il banaadiri o il dhaanto si mischiavano con il funk, il soul.

Un’altra storia affascinante è quella della raccolta Music from Saharan Cellphone, registrazioni fatte con i cellulari di chitarre tuareg, dance ivoriana, synth mauritani, hip hop maliano. Stiamo parlando della regione sub sahariana, deserto e povertà, eppure la tecnologia è arrivata anche qui.

Quando gli smartphone stavano appena cominciando a diffondersi, nel deserto utilizzavano semplici telefoni usati come device multimediali polivalenti. Si condividevano canzoni con metodo totalmente underground bypassando l’industria discografica in modo geniale e alternativo.

Di questa scena sono molto popolari in occidente i Tinariwen, un gruppo tuareg che fa contaminazione con il rock. Eppure quando si citano i tuareg in occidente si pensa a loro come dei guerriglieri.

Alcuni membri originali dei Tinariwen hanno fatto anche i guerriglieri, prima della chitarra avevano in braccio un mitragliatore. La chitarra è importante in Africa come da noi, è uno strumento fondamentale. I Tinariwen nascono dall’ascolto dei grandi chitarristi rock occidentali, per loro Mark Knopfler è un mito. La loro musica è un blues che si è sviluppato in altra maniera come due lingue che hanno lo stesso ceppo, ma questo vale per tanti altri artisti africani.

Il gruppo algerino dei Tinariwen

Ecco: il blues. È consolidato dire che è stato importato in America dagli schiavi africani, ci spieghi meglio questo passaggio?

Certo, stiamo parlando di schiavi che erano lontani solo una generazione dall’Africa. I loro genitori o i loro nonni erano nati in Africa. Quando Ali ‘Farka’ Touré, che è stato uno dei musicisti africani più famosi, da ragazzo ascolta John Lee Hooker va per così dire fuori di testa e dice: “È musica che viene da qui”. Riportare il blues in Africa diventa la sua missione.

In America gli afroamericani hanno perso completamente le loro radici, a un concerto di blues ci vanno i bianchi, non i neri. In Africa è così o no?

Sì e no. La musica commerciale americana in Africa va fortissimo. Un ragazzo maliano tra Beyoncé o i Tinariwen, ascolta Beyoncé. Il blues negli Stati Uniti è una cosa per i bianchi, forse perché sono più legati loro a certe tradizioni, per il nero il blues è la musica dei trisnonni che gli ricorda la schiavitù e non ha voglia di ascoltarla.

Lei definisce King Sunny Adé “la prima stella pop globale”: ce ne parla?

Lui è veramente un re, si chiama così perché è un re del suo popolo, imparentato con i regnanti di Akure nella Nigeria occidentale. È il primo musicista africano che le major occidentali scoprono e pensano di poter trasformare in una star globale. La sua musica ha caratteristiche molto internazionali, usa la talking drum e poi usa una produzione occidentale. Una volta il gusto globale preferiva sonorità esotiche, africane e sudamericane. La major però se ne è stufata presto, sperava di farne un nuovo Bob Marley e lo hanno scaricato. Il suo disco del 1982, Juju Music, è uno degli atti di nascita dell’afro pop e della world music ed è un capolavoro.

Un altro personaggio assai conosciuto anche da noi è il camerunese Manu Dibango, con una storia molto particolare.

Da giovane si era trasferito in Francia per studiare musica, si innamora del jazz, poi torna in Camerun e diventa ricercatore delle musiche tradizionali, come il makossa. Il suo pezzo più famoso, ballato in tutto il mondo, è Soul Makossa, che registrò solo per riempire la facciata B del 45 giri dedicato alla Coppa d’Africa del 1972 che si teneva proprio in Camerun. Passato inosservato, il brano venne scoperto da un dj di New York che, affascinato, comincia a suonarlo facendolo diventare un successo clamoroso.

E poi c’è quella che è una delle cantanti più amate del mondo, Cesaria Evoria, “la diva a piedi nudi”, mandata a Lisbona dalle Isole del Capo Verde quando era ancora una ragazzina a registrare canzoni. Secondo lei, oggi, ci sono delle sue eredi?

Ci sono tante cantanti dell’Africa lusofana, quella di lingua portoghese, che la usano come ispirazione. Ma era un personaggio davvero unico, anche lei con una storia affascinante. Aveva smesso di cantare, per problemi di alcolismo e depressione, poi qualcuno la obbligò a tornare sulle scene dicendole che una cantante del suo carisma e della sua voce non poteva smettere di cantare. È difficile dire se ci siano suoi eredi. Meglio così, ci teniamo i suoi dischi meravigliosi.

Cosa pensa di Graceland, il disco di Paul Simon, un successo mondiale ma anche molto criticato per aver aggirato il divieto di registrare in Sudafrica.

Il disco è bellissimo, tutti hanno cominciato ad ascoltare la musica africana grazie a quel disco. È un album controverso perché allora era in atto un boicottaggio fortissimo che ha contribuito a sconfiggere l’apartheid. Certo, se tutti avessero fatto come lui, aggirando il boicottaggio, l’apartheid non sarebbe stato sconfitto, ma rimane il fatto che è un disco splendido che ha permesso di conoscere l’Africa. Forse avrebbe avuto più senso chiamarlo Paul Simon e i musicisti sudafricani.

Nella sua guida c’è un universo di musica in cui perdersi. Ha un disco in particolare che per lei ha più significato di altri?

Quello che mi piace sempre citare è il disco di Angelique Kidjo - cantante del Benin, minuscolo stato dell’Africa occidentale - con il rifacimento che fece di Remain in light dei Talking Heads. Come tanti da giovane si era trasferita a Parigi e qui una sera a una festa ascoltò quel disco, in particolare il brano Once in a Lifetime. Stupefatta disse: “ma questa è musica africana”. I suoi amici la prendevano in giro, le dicevano che non era abbastanza raffinata per capire un disco di un gruppo rock americano. Ma aveva ragione. Gli stessi Talking Heads avevano detto di essersi ispirati a Fela Kuti. Una trentina di anni dopo, nel 2018, decide di rifare completamente il disco, come una sorta di rivalsa verso quell’atteggiamento che ignora le evidenti influenze africane nella musica occidentale. Lei immette nelle canzoni le sue radici africane rendendole a tratti quasi irriconoscibili, come a voler dire: basta guardare all’Africa come a una curiosità da cui copiare, noi e voi siamo alla pari. Lo rifaccio da africana perché è roba africana. È ora di trattare la musica africana come qualunque altra musica. In una parola: è un capolavoro.

 

Andrea Pomini è giornalista, scrittore e radio DJ. Gestisce l’etichetta indipendente Love Boat. Ha collaborato con Repubblica, Rumore, Rolling Stone, Esquire, Il giornale della musica, Il Tascabile, Soundwall, Wired.
Paolo Vites è giornalista, scrittore e critico musicale.

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