Trimestrale di cultura civile

Il caso Milano città universale: economia e lavoro

Le ragioni che confermano Milano città universale nel tempo e nello spazio. Luogo di grande vitalità economica e imprenditoriale, oggi a prevalenza terziaria, il che ne ha modificato il volto urbano. Grazie alla grande laboriosità e creatività dei soggetti/attori milanesi. E per sue caratteristiche speciali è oggetto di attenzione nel mondo globale. Perché luogo aperto, che sa far rete, non provinciale. Attrattivo e inclusivo. Forte della solida architettura ambrosiana. Ciò non significa che non permangano ombre significative. Legate, in modo particolare, alle diseguaglianze sociali e ai fattori ambientali. Due diseconomie che pesano, ma che è possibile “alleggerire” con il concorso storicamente affidabile della società civile alimentato da una vera cultura sussidiaria e sostenibile dello sviluppo.

Che cosa significa affermare e testimoniare che una città è universale? Che, lungo l’asse del tempo, sa costantemente rinnovarsi e auto-trasformarsi senza generare discontinuità traumatiche per i suoi cittadini e per le imprese che vi operano; tanto da continuare a essere un riferimento e un centro di attrattività anche nel mutare delle condizioni storiche. E che, nello spazio, sa relazionarsi con il mondo intero, senza perdere coesione e identità al suo interno ma dialogando con altre città, Paesi e culture, valorizzando di volta in volta i talenti che possiede: operando, come dicono gli economisti del territorio, in una prospettiva glocale, cioè combinando le sue caratteristiche locali senza omologarsi e “annegarsi” nel mondo globale, ma relazionandosi e connettendosi senza limiti e pregiudizi.

Milano ha sempre posseduto – e tuttora possiede – queste caratteristiche di città universale, capace di testimoniarle con le sue esperienze di vita e di sviluppo. Ma una città non è un “soggetto” civile ed economico: sono i suoi cittadini e le sue imprese i soggetti (gli attori) che hanno saputo renderla universale. Un viaggio nel mondo dell’economia e del lavoro milanese aiuta a testimoniare queste sue caratteristiche “a molte facce” (multifacets).

L’universalità di Milano nel tempo

Nel tempo Milano ha sempre testimoniato una grande vitalità economica e imprenditoriale. Se in questi ultimi 50 anni ci sono stati momenti di “esplosione” di questa vitalità – si pensi alla “Milano da bere” o alla più recente dinamica imprenditoriale connessa con Expo 2015 – in realtà essa non è mai venuta meno, anche se ha saputo cambiare volto e obiettivi. Se di Milano si è continuato ad avere un’immagine prevalentemente manifatturiera – considerandola la “capitale industriale” del Paese – essa è oggi una città a prevalenza terziaria.

Le imprese manifatturiere hanno fatto sempre più ricorso a servizi (per la produzione) internalizzando quanto era a esse utile per aumentare la propria produttività, efficienza e redditività; talvolta delocalizzando fuori dal centro urbano e anche metropolitano le attività di “fabbricazione” dei prodotti in senso stretto e mantenendo nell’ambito urbano le funzioni a più alto valore aggiunto (strategia, elaborazione dati, marketing, ricerca).

Di questa trasformazione hanno beneficiato anche settori tradizionalmente considerati manifatturieri: il tessile e l’abbigliamento si sono riorganizzati nella filiera della moda; mobile e arredo hanno assunto oggi il volto del Salone del Mobile e del design; la stampa e l’informazione sono diventati editoria su supporti tradizionali (carta) e sempre più digitali.

In questo senso Milano – come tante altre città “sviluppate” – ha cambiato volto: il paesaggio urbano si è arricchito di più uffici e impoverito di fabbriche. I colletti bianchi hanno preso il sopravvento sulle tute blu.

Parallelamente alla trasformazione del manifatturiero sono peraltro nate imprese di servizi in senso stretto: da quelle più “tradizionali” (commercio, ospitalità e ristorazione, trasporti, servizi alla persona) a quelle meno tradizionali quali i servizi finanziari e i servizi di rete (assicurazioni, digitale); fino ai servizi più innovativi nei vari campi della produzione e dei consumi (fiere e manifestazioni, ricerca, sanità, formazione avanzata). Ospedali, università e centri culturali sono le “imprese” – più in senso lato le organizzazioni imprenditoriali – che hanno forse maggiormente contribuito a produrre questa nuova immagine di Milano, più terziaria. In questo senso, più capace di rispondere ai nuovi bisogni emergenti dalla società civile, con punte di grandi eccellenze rapidamente acquisite e riconosciute.

In questo “upgrading” della sua struttura produttiva, Milano ha sempre mantenuto la caratteristica di grande diversificazione. Se si osservano infatti le statistiche della sua composizione settoriale, Milano è l’area che più rispecchia il mix intersettoriale nazionale a conferma che tutti i bisogni di consumo e di servizi sono stati ascoltati e interpretati anche con soluzioni imprenditoriali e manageriali innovative.

Questa diversificazione è stata resa possibile anche da infrastrutture – di trasporto, energetiche, idriche, digitali – che hanno reso Milano una città “completa”, senza gravi carenze e sufficientemente “attrezzata” per far fronte anche ai cambiamenti esterni.

Ecco, Milano si è sviluppata con una “continuità” temporale senza grandi salti, ma anche senza cadere nelle trappole di transizioni (tecnologiche, sociali, macroeconomiche) pure drammatiche (e altrove “traumatiche”) che hanno caratterizzato gli ultimi 50 anni.

I cittadini e le imprese milanesi non si sono mai pianti addosso, non si sono neppure soverchiamente preoccupati pur di fronte a eventi-shock (ad esempio: il ’68, Tangentopoli, Covid ecc.): rimboccandosi le maniche hanno saputo essere “resilienti”, capaci cioè di “rimbalzare” sui nuovi terreni dello sviluppo senza mai “tornare da capo” ma facendo passi avanti e imparando anche dalle necessarie trasformazioni di fronte a cui si è trovata.

La reazione recente a fronte della pandemia è un esempio probante. Che essa sia stata – e ancora sia – un evento di grande drammaticità è indiscutibile: alla ricerca – faticosa e penosa – di “uscirne”, i milanesi non hanno agito con lo scopo di tornare alla situazione precedente ma hanno anche innovato: sviluppando lo smart working, rimodulando i servizi di trasporto, aumentando i tavolini di bar e ristoranti sui marciapiedi…. È “questo guardare avanti” che ha sempre aiutato Milano a “far tesoro” dei cambiamenti invece che farsene soltanto colpire passivamente.

Questa posizione dei milanesi ha avuto, nei comportamenti delle imprese, due importanti risvolti. Le imprese estere (multinazionali) hanno continuato a vedere in Milano una città desiderabile in cui localizzare rami (branches) delle loro attività, considerandola sempre e comunque come il principale “cancello di entrata” (gateway) in Italia. L’altro fattore che ha riguardato le reazioni di molte imprese è stato quello della riduzione delle loro dimensioni: è cresciuta la quota percentuale delle imprese medie (e piccole), rispetto a quella delle grandi imprese (Alfa Romeo, Falck, Breda, Pirelli).

Ma – guardando il bicchiere mezzo pieno – ciò non ha necessariamente inciso sulla loro competitività, perché si è trasformato in nuovi modelli organizzativi della struttura produttiva: più “outsourcing”, più collaborazioni in reti e filiere, più innovazione. Guardando al bicchiere mezzo vuoto, la riduzione delle economie di scala ha generato qualche problema nel reggere di fronte alle sfide globali.

Non si è persa vitalità imprenditoriale, ma se ne sono modificate le forme.

Se si dovessero cercare le ragioni culturali – e quasi antropologiche – di questa resilienza ai cambiamenti in atto potremmo ricondurli a tre caratteristiche della milanesità economica e imprenditoriale.

La prima ragione è riconducibile al concetto (e alle sue conseguenze) della responsabilità. Le imprese – e i cittadini milanesi – sanno “rispondere” ai cambiamenti: con realismo, con creatività innovativa, con una invidiabile propensione all’operosità e al problem solving.

La seconda ragione risiede nella spinta alla competitività, cioè alla corretta “ambizione” di confrontarsi con il resto del mondo. Essersi candidata – e aver vinto la candidatura, con un grande lavoro di squadra – a ospitare Expo 2015 o le Olimpiadi invernali del 2026 – sono segnali significativi della consapevolezza del proprio ruolo (e responsabilità) glocale dello sviluppo, consapevolezza peraltro accompagnata dalla generosità di una inclusività sociale (tipica della cultura cattolica ambrosiana) che non sacrifica tutto all’efficientismo competitivo.

Infine, la terza ragione – forse la più importante e trasversale del ruolo “universale” (nel tempo) di Milano – sta nelle caratteristiche delle sue “risorse umane”, cioè delle persone. I milanesi – soggetti delle imprese, delle istituzioni e del “corpo civile” di Milano – sono mediamente persone operose, generose, creative, responsabili, che si pongono di fronte alla realtà che cambia in modo positivo e propositivo. Così si spiega l’attrattività di Milano per le imprese che vi si insediano e vi si sviluppano; e per le tante persone che in passato (immigrazioni dal Sud) o nel presente (immigrazione straniera) hanno visto in Milano una propria destinazione permanente, per abitarvi e lavorarvi.

photo © Andrea Ferrario_Unsplash

L’universalità di Milano nello spazio

Se Milano ha continuato nel tempo – e per secoli, non solo per anni – a essere città universale, per le caratteristiche che abbiamo cercato di ricordare, dal secondo dopoguerra e via via sempre più precisamente, Milano è città “universale” anche nello spazio: è cioè “presente” – cioè oggetto di attenzione – in tutte le cartine geografiche e tematiche del mondo.

Perché nel mondo globale si tenga conto di qualcosa o di qualcuno devi avere delle caratteristiche “speciali”, devi avere una identità; essere oggetto di interesse (o quantomeno di rispetto e considerazione) per qualche motivo.

In questa seconda parte della riflessione sull’universalità di Milano lungo l’asse “spaziale”, proviamo a identificare alcuni di questi motivi.

Milano è, innanzitutto, una città “aperta”, non “provinciale”, chiusa in se stessa e impermeabile agli stimoli che le vengono dal di fuori. È aperta nei confronti dei “non milanesi”: si pensi agli immigrati che ospita; agli studenti stranieri che attira; più in generale ai “city users” che tutte le mattine vengono a Milano a lavorare, studiare o fruire dei suoi servizi (più del 60% dei suoi abitanti, quasi 700.000 persone!).

Anche quest’apertura non le fa tuttavia perdere “identità”. In questo senso – come abbiamo già accennato – è una città universale: perché è al tempo stesso “locale” (identificabile come qualcosa di irripetibile) e globale (cioè pronta a interagire con il resto del mondo). Si potrebbe dire che Milano è una vera città glocale.

Quest’apertura si manifesta in tutti campi, non solo in quello economico in senso stretto, ma anche culturale e formativo, sociale, turistico, fieristico, sportivo...

Questa caratteristica è tipica di una città che sta “in rete”: che appartiene a una rete e che al tempo stesso ne è un nodo importante. Che appartenga a una rete – sia una tra le prime 15-20 “networked cities” del mondo – è testimoniato dal sorprendente numero di consolati esteri presenti a Milano, che è seconda nel mondo solo dopo New York in questa peculiare classifica! Ma anche che sia un “nodo” della rete è facilmente rilevabile: per l’attrattività che esercita sulle multinazionali; sugli eventi internazionali che ospita; sulla “reputazione” che possiede anche all’estero (misurabile con le “visite” che riceve sui siti web).

La peculiarità di Milano è che esercita questo ruolo di nodo di una rete globale senza avere dimensioni – né demografiche né territoriali – particolarmente rilevanti. Certo non è una megalopoli, nel senso quantitativo e agglomerativo del termine: le sue connessioni pesano più delle sue dimensioni.

Al di là delle (troppo severe) autocritiche che spesso facciamo sulla mancanza di (apparente) coordinamento tra i suoi attori riguardo le relazioni con il resto del mondo, si rivelano forti anche le relazioni interne. Che a Milano fioriscano le filiere e i cluster produttivi (sanità, moda, design); esistano patti, accordi e “tavoli” di collaborazione tra associazioni, università, istituzioni culturali; ci sia capacità di aggregarsi pubblico-privato su eventi (Expo 2015) importanti per la sua reputazione, sono tutti segnali che le relazioni interne sono altrettanto significative di quelle esterne. Anche se queste relazioni interne non hanno sempre saputo esprimersi a livello politico – l’imprenditorialità milanese e lombarda non ha mai “alzato la voce” (soprattutto a livello nazionale) – è segno di una sua autonomia, fiduciosa di sapere reagire di fronte agli shock esterni, talvolta tacciabile di una certa presunzione di “fai da te”.

In questo ruolo di città glocale, Milano è stata anche fortunata. Non si può infatti negare che l’essere attorniata da un concerto di voci lombarde altrettanto vitali, creative e dinamiche (Monza-Brianza, Bergamo, Brescia, Varese, Como-Lecco) ha giovato alla sua funzione polarizzante e catalizzatrice di questa vitalità. Il senso del volere e dover essere efficiente è, infatti, un fattore comune ai territori più vicini – quelli regionali – ma anche di quelli meno prossimi: Torino, Genova, Bologna, Verona e Venezia, pur con le loro identità specifiche risentono e amplificano l’“effetto Milano”, anche se non è esplicito “merito” di Milano che esista una comune cultura dello sviluppo in tutta la pianura padana, tra l’altro riconosciuta e certificata anche a livello europeo da tutti gli indicatori sociali ed economici di questa macroregione di fatto.

Le “buone prassi” amministrative e istituzionali di questo contesto allargato hanno, tra l’altro, contribuito non poco ad accompagnare questo percorso di ampia coesione territoriale (e temporale), visibili in termini di leadership nazionale di Milano e (ampi) dintorni.

 

photo © Cristina Gottardi_Unsplash

Luci e ombre

Tutto bene, allora? Certamente no! Luci e ombre convivono sempre in situazioni e territori così articolati e complessi. Con le “luci” sono inevitabilmente compresenti anche non poche “ombre”.

Le ombre principali non provengono da problemi economici, ma rappresentano per l’economia della città non marginali diseconomie esterne.

La prima è quella legata alle diseguaglianze sociali. È quasi certo che in una città che è cresciuta e continua a crescere e cerca sempre di competere con altre città, non tutti riescano a stare al passo di questa dinamica. Chi “non ce la fa” rimane spiazzato e fa fatica a integrarsi, a trovare casa e lavoro dignitosi. È pur vero che la solidarietà ambrosiana cerca di sopperire, sia con azioni pubbliche che con iniziative private, ma i bisogni sono tanti e difficili da affrontare.

La povertà – come in tutte le grandi aree metropolitane – è fonte di seria preoccupazione (forse dovrebbe esserlo anche in misura maggiore) anche per le fasce sociali e il mondo produttivo più fortunato.

 

La seconda diseconomia esterna è legata a fattori ambientali.

Un’economia forte e attiva è infatti spesso caratterizzata da congestione e difficile autoregolazione del proprio impatto ambientale. L’inquinamento da mobilità e riscaldamento a Milano è alto e – se pure dovuto a forti problematiche di “aerazione” dell’intera pianura padana (quindi difficilmente controllabili) – non ha ancora trovato soluzioni totalmente soddisfacenti.

Una possibile prospettiva alla rimozione di questa seconda ombra è quella di un maggiore decentramento e allargamento dei confini amministrativi della città. Ma un’ombra diversa da quella della congestione è costituita dall’insuccesso o inadeguatezza dell’istituzione delle città metropolitane che non è ancora in grado di allentare la pressione della densificazione urbana, coinvolgendo altre amministrazioni locali contermini; programmando un sistema di mobilità più integrato e multimodale; delocalizzando talune funzioni di servizio particolarmente polarizzanti (non è una soluzione appropriata per l’Italia e l’Europa, ma non dimentichiamo che, negli Stati degli USA, la capitale amministrativa con coincide mai con la capitale economica e insediativa!)

Trasformare Milano da città “centripeta” in una città “centrifuga” – rovesciando l’asimmetria dei flussi di attrazione non è certo un problema facile da risolvere: sia per motivi “politico – istituzionali” (le modificazioni amministrative sono difficilissime da attuare nel nostro Paese), sia per motivi culturali: a Milano piace non rinunciare – con un po’ di presunzione – a nulla di quel che controlla; e ai Comuni piccoli dell’area metropolitana non piace sentirsi “inglobati” in una realtà che farebbe perdere loro identità, funzioni e (piccoli) poteri.

L’esito “urbanistico” di queste ombre è che centro e periferie non riescono a trasformare – o solo in parte – la loro gerarchia se non, in qualche caso, attraverso il volenteroso recupero di alcune aree industriali dismesse. All’esito urbanistico di questa asimmetria corrispondono le disuguaglianze sociali più marcate. Le “periferie” – in realtà spazi interstiziali dell’area metropolitana – non guadagnano funzioni urbane, produttive e culturali, rimangono spesso solo insediative e sostanzialmente dipendenti dal centro. Agli annunci programmatici di voler “recuperare” le periferie a una visione metropolitana più allargata e omogenea, non sono ancora corrisposte soluzioni particolarmente efficaci nel creare “nuovi luoghi del vivere”.

Tuttavia, per concludere e tornare alle tante luci che caratterizzano Milano – nonostante queste ombre indubbiamente esistenti – la città trova nella sua società civile un potenziale da vera cultura sussidiaria e sostenibile dello sviluppo, di cambiamento e trasformazione che non sembra aver esaurito le sue spinte a poter assumere un vero ruolo glocale nel mondo che cambia.

photo © Matteo Jorjoson_Unsplash

Riferimenti bibliografici

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Lanfranco Senn è professore emerito di Economia regionale urbana presso l’Università Bocconi, È stato visiting professor presso il Politecnico di Zurigo e presso l’Università Hitotsubashi di Tokyo è stato presidente di MM - Metropolitana Milanese S.p.A.

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