Trimestrale di cultura civile

Ingold: città da mangiare

  • GEN 2022
  • Carlo Dignola

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Per l’antropologo britannico, solo superando il rapporto tipicamente moderno ed economicista di sfruttamento (vale a dire estrazione dei beni dalla natura) si può davvero iniziare a immaginare una vita urbana nuova. Capace di recuperare tanti concetti del passato oscurati da una certa scienza “mainstream”: come l’ascolto degli altri esseri viventi, dei materiali costruttivi, e una riconoscenza per tutto quello che dal mondo continuamente riceviamo. “Bisogna vedere l’ambiente, all’interno della città, come il luogo dove nutrirsi e da cui è possibile trarre la maggior parte di ciò di cui abbiamo bisogno – anche se non tutto”.

Non si tratta di vagheggiare nature “incontaminate” dall’uomo, come predica una certa ideologia “green”. Ma di ristabilire un rapporto “utile”, produttivo, sano tra noi e l’ambiente che ci circonda. Non evadere dalle città, ma ritrasformarle in ambienti più naturali e al tempo stesso più umani: “C’è ancora questa convinzione errata secondo la quale se si vuole preservare la biodiversità e difendere la varietà delle specie bisogna far fuori l’uomo, in modo da assicurare protezione alle aree naturali. In realtà, qui nel Regno Unito, la maggior parte delle aree caratterizzate da biodiversità si trova lungo le strade, nelle città, nei giardini privati, mentre i casi peggiori sono le aree di campagna abbandonate all’agricoltura intensiva”.

L’antropologo scozzese Tim Ingold a novembre è intervenuto con l’architetto e presidente di Triennale Milano Stefano Boeri in “Rivoluzione urbana”, una serie di dialoghi realizzati da “Sette” del Corriere della Sera su come le città stanno cambiando dopo la pandemia: conversazioni con ambientalisti, architetti, professionisti di vari settori. Si è parlato di come “La natura vivente deve far parte della nuova architettura”.

Ingold è professore emerito di Antropologia sociale all’Università di Aberdeen e membro della British Academy. Ma è uno studioso le cui riflessioni attraversano territori come la geografia umana, l’archeologia, l’architettura, la storia dell’arte, e anche psicologia, biologia, tecnologia, musica, teologia, filosofia. È un antropologo, in sintesi, che pensa che per capire l’uomo non basti parlare solo dell’uomo.

Ripensare la sostenibilità

Ingold è partito nel suo intervento da una parola molto di moda oggi, anche in architettura: “sostenibilità”. Mettendo immediatamente in discussione il fatto che noi abbiamo una idea chiara e distinta di cosa significhi. E descrivendola come un fenomeno tipicamente complesso: “Penso che sia necessario ripensare meglio questo concetto: la sostenibilità non può valere solo per alcune cose e non per altre, o per un certo periodo e non per altri. L’unico modo in cui la sostenibilità può esistere, è se essa vale per tutti e per tutto, sempre: perché stiamo semplicemente parlando della possibilità che il pianeta ha di andare avanti. Dobbiamo smettere di pensare al ‘tutto’ come un insieme di individui, di gruppi, di interessi, come qualcosa che possa essere calcolato; qualcosa che si ottiene addizionando tutte le cose possibili. E pensarlo invece come un grande continuum, un campo senza interruzione. Il mondo intero è una trama continua di rapporti, in cui tutto e tutti, ogni persona, ogni organismo, è una sorta di vortice in quell’ambito. Il nostro problema è che pensiamo ancora alla sostenibilità come se si trattasse di mantenere in pareggio il bilancio di un’azienda, calcolando quanto si è guadagnato e quanto si è perduto, sommando e sottraendo, e immaginando di poter in qualche modo mantenere le cose in equilibrio, in una condizione statica. Non credo che questo sia possibile. Sarebbe come tentare di far stare immobile una barca su un’onda dell’oceano. Perciò penso che, anziché insistere su questa idea di sostenibilità, dovremmo tornare a pensare di nuovo a ciò che ogni cosa è veramente, al posto che ha sul pianeta. È una questione fondamentale, direi ‘filosofica’, ma credo che ingegneri, economisti, politici non ci riflettano sufficientemente.

Una delle cose che mi preoccupano è fino a che punto l’oggettività razionale, scientifica, abbia avuto il sopravvento sull’idea di verità. Credo che esista una verità che va oltre l’oggettività dei nostri parametri tecnici: osservare significa in realtà prestare attenzione a quello che le cose ci stanno dicendo. Solo così è davvero possibile aprirsi alla verità delle cose per ciò che effettivamente sono. E dovremmo fare un’altra distinzione tra la responsabilità verso l’ambiente e una ‘respons-abilità’: una cosa infatti è assumersi una responsabilità in senso etico o anche legale, ad esempio verso i beni del pianeta, altro è essere davvero in grado di rispondere alle cose anche sul piano ‘affettivo’. L’uomo contemporaneo ha questo rapporto ‘estrattivo’ nei confronti della natura: ma certi elementi – pensiamo al nichel, al mercurio – che sono innocui in natura, se estratti dalla mescolanza in cui si trovano e concentrati in forma pura diventano tossici. Questo ci succede in continuazione: cerchiamo di estrarre una ‘essenza purificata’ delle cose – che si tratti di esseri umani, di metalli, o di animali – e questo ci porta sempre a conseguenze disastrose. Dobbiamo trovare la verità dietro le analisi che tracciamo. Scoprire e sottolineare un ordine di relazione nel mondo. Dobbiamo trovare un modo di ricambiare il mondo per ciò che esso ci sta offrendo. In fondo noi esistiamo solamente grazie a quello che il pianeta ci dà: il cibo, l’aria e tutto ciò che ci occorre per vivere. Perciò non possiamo basare il nostro rapporto con la Terra su una logica estrattiva, dobbiamo basarlo su una logica di reciprocità: restituiamo in segno di riconoscenza per quello che abbiamo ricevuto”.

Imparare dalle cose

In questo senso – dice Ingold – il mondo vegetale è destinato ad avere un nuovo ruolo nelle città del futuro. Ma non basterà ritagliare delle “aree verdi”, è tutto il nostro rapporto con piante e alberi a dover essere ripensato e ritrovato, grazie a un lavoro di “ascolto”, a un “imparare dalle cose” di cui ci siamo dimenticati, e che è il cuore invece di un’antropologia davvero “umana”, l’elemento che potrebbe cambiare il nostro modo di abitare: “All’inizio del XIX secolo, Goethe diceva che se davvero desideri comprendere una pianta, devi semplicemente abbassarti con le mani e le ginocchia a terra accanto a essa e trascorrere ore, giorni, solo a osservarla svilupparsi, standole accanto. Dopo un po’ di tempo, cominci a pensare come quella pianta che entra nel tuo modo di ragionare. Cominci a vedere con gli occhi della pianta, ad ascoltare con le sue orecchie, ed è solo allora che riesci a comprendere davvero cosa significa essere una pianta o un albero. Dunque, questo non è affatto un approccio nuovo. Il punto è che è stato messo in ridicolo dalla scienza, da quella mainstream, almeno”.

Ingold dice che il nostro stesso rapporto con le cose si è “snaturato” attraverso una frequentazione troppo esclusiva con l’oggettivazione tipica delle scienze degli ultimi secoli. Ricorda che l’etimologia del termine “materiale” – un elemento-base così importante in architettura, il punto di partenza di qualsiasi “costruzione” – è particolarmente affascinante, e va a recuperare un approccio anche in questo caso dimenticato: “La parola ‘materiale’ – dice – deriva dal latino mater, che significa madre; gli antichi romani sono stati i primi a utilizzare questo termine, con il quale solevano indicare soprattutto il legno. I rami di un albero crescono prima all’interno del tronco, per poi espandersi esternamente, esattamente come succede a un bambino che nasce nel grembo della madre, da cui esce poi per iniziare una vita tutta sua. Dunque, i latini si riferivano al legno con il termine mater, che poi ha assunto il significato più generale di ‘materiale’; per quei falegnami antichi era ovvio che i ‘materiali’ andavano trattati come qualcosa di vivo, e la vita è un processo che continua a diversificarsi a partire dal suo interno. Nella vita le cose non vengono accostate e congiunte esternamente come in un mosaico, ma continuano a formarsi e a dividersi entro se stesse: è così che funziona la vita e penso che questo sia un insegnamento su come si potrebbe progettare anche l’ambiente attorno a noi. Lo stesso termine skill (abilità) si riferisce etimologicamente a una divisione; e c’è un legame anche con la parola shell (conchiglia): capacità, talento significa riuscire a effettuare un taglio che segue una linea naturale, piuttosto che incrociarla. Non si tratta di un processo additivo esterno, che consiste nell’unire le cose da fuori, ma di una differenziazione interstiziale, che consiste nel dividere le cose dall’interno nel momento in cui vengono alla vita”.

Tagliare le lunghe filiere

Molte città oggi stanno provando a immaginare un nuovo rapporto con la natura, ma anche qui, per Ingold, occorre andare a ripescare conoscenze e abitudini del nostro passato, che solo una certa idea (industriale) di “produzione” per un paio di secoli ha, appunto, “tagliato fuori” dal tessuto del nostro rapporto organico con il mondo: “Penso che uno degli elementi più importanti sia che molte città stanno tornando a vedere la possibilità di essere di nuovo luoghi per la produzione di cibo. Alcune stanno introducendo o sviluppando orti urbani, e in ogni caso siamo di fronte a un’architettura che non si limita alla realizzazione di luoghi dove la gente può solo lavorare o andare a dormire.

Penso che oggi la priorità sia tagliare le lunghe filiere di approvvigionamento a cui siamo soggetti e dare la possibilità alla gente di consumare alimenti prodotti ‘a chilometro zero’.

Questo avrà tantissimi benefici, si ridurranno i trasporti e di conseguenza i gas responsabili dell’effetto serra emessi sulle lunghe distanze dalla movimentazione di merci su tir, navi, aerei… Credo che il futuro della città sia nel riuscire a convincere la gente che, come si faceva in passato, la maggior parte del cibo dovrebbe provenire dalla propria abitazione o da una zona vicina. Insegnare architettura dovrebbe essere sempre anche insegnare agraria, le due discipline dovrebbero assolutamente operare in stretta collaborazione. Ci sono moltissimi progettisti in Europa, Nord America, America Latina, Asia sudorientale che stanno iniziando a pensare in questi termini. E anche la politica si muove. Al giorno d’oggi molta gente vive nelle città e credo che l’iniziativa partirà proprio da loro; da queste generazioni urbane possiamo aspettarci un rinnovamento e un ringiovanimento della politica. Sono piuttosto ottimista, sono convinto che stiano accadendo molte cose positive. Bisogna vedere l’ambiente, all’interno della città, come il luogo dove nutrirsi e da cui è possibile trarre la maggior parte di ciò di cui abbiamo bisogno – anche se non tutto”.

Tim Ingold è antropologo sociale e culturale, membro della British Academy e della Royal Society di Edimburgo, professore emerito di Antropologia sociale all’Università di Aberdeen.

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