La nuova stagione della cooperazione di comunità è un percorso difficile ed entusiasmante. Dunque “un fare”. Dove la parola prossimo si traduce con più significati. Dall’essere vicini (è il valore della comunità) all’essere futuro. Si fa urgente la costruzione di ambiti di interconnessione umana fra gli individui. In relazione con i territori. Un’urgenza provocata dalla pandemia. Ecco la sfida di Confcooperative. Impegnata nel rilancio innovativo di presunte periferie ritenute fuori dai radar convenzionali. Ma invece centrali nel ridisegno del nuovo abitare i luoghi. Una provocazione sana alla mentalità solo performante delle città ad alta densità.
Abbiamo chiamato così questa nuova stagione della cooperazione di comunità perché nella parola “prossime” si racchiude il senso del nostro fare cooperazione. Prossimo porta in sé più significati, dall’essere vicini e dunque comunità, all’essere futuro.
Cosa significa fare impresa oggi dopo la pandemia? Pandemia che ancora non ha concluso il suo corso, ma ha di certo già disegnato nuovi scenari nel pensiero e nell’agire delle persone.
Siamo in uno di quei momenti catartici destinati a cambiare alcuni punti fermi del pensiero umano. Alcune cose sono già emerse, ma altre dovranno ancora essere esplicitate.
La sensibilità e l’attenzione su determinati temi hanno già intaccato paradigmi finora ritenuti inviolabili e che invece oggi sembrano essere più “prossimi” al cambiamento e a noi più vicini.
Per esempio, sappiamo in modo più consapevole che il mondo è decisamente interconnesso e nulla può più essere letto in una sola dimensione, sconnesso dal tutto e non in relazione con tanti altri numerosi fattori che lo condizionano direttamente.
Se il famoso detto “il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo” era per lo più inizialmente riferito a fattori ambientali per cui il mondo si è trovato dagli anni Settanta a interpretare e fare i conti con l’inesplorato tema ecologico della sostenibilità, si è poi passati nel 2008 ai fattori economici, quando la crisi finanziaria partita dagli Stati Uniti con il crac della Banca d’affari Lehman Brothers ha definitivamente sdoganato il concetto di “prossimità” esteso ai più complessi sistemi del mercato globale.
Insomma avremmo dovuto già imparare (o almeno intuire) la semplice lezione della inter-
connessione applicata a vari temi, ma abbiamo tralasciato – o forse volutamente rifiutato – l’ambito della interconnessione umana degli individui che oggi invece la pandemia ci richiama!
Forse ora abbiamo acquisito la certezza dell’esistenza di una nuova dimensione che chiameremo di “prossimità aumentata” che ci vede tutti connessi tra noi come abitanti globali della stessa comunità, non solo in una dimensione digitale finora esplicitata, ma anche materiale.
È come se, per la prima volta, vedessimo il mondo compiutamente in 3D oppure in multi-color ad alta definizione, come quando negli anni Settanta si è passati al colore nei televisori domestici.
Paragoni, mi rendo conto, ottimistici ma entrambi emblematici di come realmente sia fatto il mondo là fuori, perché la realtà non la si può certo rappresentare in sole due dimensioni (le cartografie sono rappresentazioni artefatte della reale complessità spaziale) e così pure senza i colori che sono una parte essenziale del creato. Per questo dobbiamo prendere coscienza di essere parte di sistemi sempre più complessi al progressivo allontanarsi dal nostro centro.
Siamo al superamento dell’individuo come macchina sufficiente e bastevole per la sopravvivenza. Occorre un individuo consapevole del proprio essere Persona, ma relazionalmente connesso con la propria “comunità prossima”, ovvero la famiglia, le amicizie, il quartiere, la città, la nazione, il continente e il pianeta (poi anche con l’universo). Ma questa chiave di lettura, sebbene già più complessa e articolata è ancora semplicistica e mono-dimensionale e va quindi declinata nella sua tridimensionalità.
Nella qualità della vita di ognuno di noi entrano in gioco fattori sempre più riconosciuti come imprescindibili, quali il benessere, l’economia, la salute, l’ambiente, la spiritualità ecc.
Ecco che le interconnessioni dell’individuo si ritrovano in differenti piani spaziali che lo portano a essere contemporaneamente parte e interprete del proprio essere, del proprio “stile di vita” e di conseguenza potenziale artefice del proprio futuro, non più aprioristicamente scritto da altri, ma che possiamo interpretare agendo direttamente su alcuni aspetti e scelte nel quotidiano.
Così, negli ultimi anni, sono sempre più le persone attente a ciò che mangiano, al fare vacanze premiando il fattore ambiente e culturale, all’uso del proprio tempo libero, insomma facendo scelte in un sistema che permette di esprimere il proprio sentire.
Ecco che la parola “prossimo” assume un significato di appartenenza a sistemi combinati che definiscono la complessità di ciò che ci circonda in una modalità di raggruppamento sempre più ampia che è meglio comprensibile con la teoria degli insiemi, branca della matematica capace di individuare sistemi a geometria complessa e variabile.
Non è quindi un caso che il recente Premio Nobel assegnato al fisico Giorgio Parisi, sia relativo ai “contributi innovativi alla nostra comprensione dei sistemi complessi e la scoperta dell’interazione tra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici dalla scala atomica a quella planetaria”, in definitiva si indagano le dinamiche che intercorrono tra gli individui e le loro interazioni reciproche in relazione con il proprio habitat. Un’indagine che dal micro porta al macro e viceversa.
La questione è dunque quella di riconnettere l’individuo alla propria comunità e questa al proprio territorio, riscoprendo una reciprocità di interscambio e osmosi tra le parti che si ritrova compiuto nell’equilibrio tra l’uomo e il proprio habitat.
Per questo nel 2018 all’interno del sistema di Confcooperative abbiamo intrapreso un cambio identitario e culturale del settore dell’abitare. Un cambio di visione e un ribaltamento copernicano del focus d’impresa del settore casa che si è dichiarato già nel cambio del nome.
Da FederAbitazione, che metteva al centro l’abitazione nel senso fisico di alloggio da realizzare in cooperativa tra i soci, si è passati a Confcooperative Habitat, ovvero costruttori dell’habitat urbano, ovvero di quello che fa “dell’abitare un’arte da perseguire”, per dirla con le parole dell’architetto e poeta Giancarlo Consonni, che ha scritto la Carta dell’Habitat di Confcooperative.
Cambia radicalmente l’oggetto del fare e dell’agire nell’ambito dell’abitare, perché non è più tanto o solo importante realizzare alloggi, quanto realizzare le condizioni per abitare i luoghi in modo consapevole, non subendo la città, ma realizzando le condizioni che mettano in armonia l’individuo con il proprio ambito territoriale.
photo © Gabriella Clare Marino_Unsplash
La Carta dell’Habitat di Confcooperative, fortemente voluta da Alessandro Maggioni, è la pietra miliare identitaria su cui avviare una nuova stagione dell’abitare consapevole dei luoghi, un solido fondamento culturale che ha rappresentato il presupposto per ripensare a un rapporto tra città e abitante, tra natura e costruito, tra campagna e paesaggio, tra politica ed economia, tra servizi e lavoro, tra arte e pensiero urbano; insomma il punto di partenza per costruire una nuova visione sul tema di come riconnettere l’individuo a una terra, la propria terra, quella che anche temporaneamente, ma con consapevole volontà, egli abita insieme alla propria comunità perché questo mix diventi insieme l’habitat.
In questo scenario la cooperazione – e nello specifico Confcooperative – ha intrapreso un cammino difficile e nello stesso tempo entusiasmante, verso le periferie intese come quei luoghi fuori dalle direttrici performanti che le città ad alta densità pensano di interpretare, scoprendo poi che molte di quelle periferie si trovano proprio al loro centro. Così la pandemia ci dice che le città implodono sulla loro stessa incapacità di mettere in sintonia l’abitante con il luogo e paradossalmente dove c’è una sovraesposizione di servizi si rimane senza.
In molti luoghi, mancano qualità vitali come lo Spazio, il Bello, la Salubrità, l’Equilibrio, l’Umanità, insomma ci sono posti tanto ricchi e potenti da non avere null’altro e luoghi ritenuti “poveri” e cosiddetti “minori” dove invece c’è tutto quello che realmente serve ai nuovi ritrovati valori.
L’habitat è dunque il fattore che fa la differenza e che oggi una sempre maggiore fascia di popolazione consapevole ricerca come aspetto primario di qualità.
Da qui è partita una stagione che Confcooperative ha interpretato a viso aperto andando in quella terra di mezzo tra il Mercato e lo Stato, dove il primo non trova vantaggi e il secondo abbandona e si ritira per debolezza.
Dal genius loci al genius faber
In questa terra di mezzo che rappresenta l’ampia maggioranza del nostro Paese, la cooperazione ha ritrovato il senso del fare impresa ed economia civile, compartecipata e fondata su valori decisivi per il futuro come la sostenibilità declinata in tutte le sue forme (ambientale, sociale, economica…).
Questa azione è prima di tutto un atto culturale perché chiama gli abitanti a essere il fattore fondante del processo, tornando al punto che “abitare i luoghi è un atto consapevole” perché è una scelta anche quando non si è deciso di andar via, diventa in quel momento stesso una volontà.
Il passaggio sta tutto nella trasformazione dal genius loci al genius faber riscoprendo l’intrapresa come energia vitale di chi abita i luoghi. Per questo la cooperazione colma quello spazio generativo che si è creato tra Mercato e Stato, agendo con gli strumenti del Mercato (in quanto impresa), ma con le finalità dello Stato ovvero per il bene comune collettivo.
Le cooperative di Comunità sono dunque imprese del territorio compartecipate dagli abitanti che lo abitano che mettono a valore (riconoscendoli) i patrimoni spesso inespressi di cui sono custodi secondo la Convenzione di Faro1, rappresentando essi stessi gli erogatori e i fruitori del servizio e dei beni prodotti. È, in definitiva, la forma ideale per adattare i propri bisogni all’ambito che li genera. Per questo aspetto sono imprese ad altissimo tasso di sostenibilità e per questo sono la punta più avanzata del futuro prossimo di noi tutti rispondendo contemporaneamente a molti degli obiettivi dell’Agenda 2030 sulla sostenibilità.
Potremmo definire le imprese cooperative di Comunità con quattro aggettivi: eroiche, innovative, rivoluzionarie e libere.
Eroiche perché giocano una partita che i più ritengono persa in partenza (lo ha fatto il Mercato e ancor più lo Stato) e sono per questo destinate a morte certa, un fallimento annunciato! Ci vuole una forte dose di coraggio a fare impresa in molti luoghi lontani da tutto, ma soprattutto ci vuole una grande energia vitale e una visione propria di chi è folle perché vede quello che altri non riescono proprio neppure ad intuire (mi viene in mente lo spot Think Different del 1997, con le parole di Steve Jobs).
Per questo le cooperative di Comunità sono certamente imprese innovative perché giocano una partita con strumenti diversi ricercando in aspetti spesso marginali il focus del loro fare impresa. Molte di queste sviluppano originali azioni economiche partendo da fattori non ritenuti primari per le economie performanti, riuscendo invece a dimostrare che sono aspetti decisivi per il mercato.
Il Paesaggio, la Cultura, il Welfare sono inneschi formidabili di “economie diverse per territori diversi”, dimostrando che fare economia non significa applicare una formula standard, indistinta e in modo indifferente a Zurigo così come a Lampedusa. Ogni luogo richiede una propria economia specifica, come un abito sartoriale cucito appositamente sui propri patrimoni. Qui entra in gioco l’alto valore innovativo di queste imprese non omologate ai modelli di successo consolidati ma che sviluppano ambiti che oggi gli stessi sistemi speculativi stanno studiando con attenzione. Altro aspetto del fare innovazione sta nella costruzione di una economia non estrattiva di valore ma generativa di valori, ovvero che nel prodotto fa entrare decisamente il fattore umano e di territorio che lo connota e lo distingue nell’offerta globale. L’aumentata sensibilità del mercato ad aspetti come: eticità, ambiente, salubrità, cultura, comunità, rappresentano sempre più fattori distintivi ricercati e premiati da nuovi consumatori attenti.
Sono decisamente imprese rivoluzionarie perché giocano una difficile partita con strumenti legislativi pensati per il mercato speculativo; sarebbe come giocare a basket con le regole del calcio! Eppure le imprese cooperative di Comunità stanno ugualmente interpretando il loro ruolo; sarei proprio curioso di vedere sistemi profit aprire un’alimentare in un borgo di montagna con trecento abitanti e avere costi di sistema fuori scala.
Essere rivoluzionari significa assumersi il rischio di infrangere le regole che sono inique e dunque essere consapevoli del limite da oltrepassare con consapevolezza. Ci sono luoghi dove le regole sono “fuori luogo” per cui è necessario ideare sistemi e regolamenti alternativi sapendo di non incidere su fattori come la concorrenza; fare bandi per appalti in certi luoghi è di per sé un nonsenso!
Da questo punto di vista stiamo vivendo un difficile momento di transizione per trasformare queste imprese da fragili esperienze in embrione che vivono sulla propria pelle un’insostenibile condizione, in strutture riconosciute come portatori di valori differenti e che richiedono per questo di essere inquadrate giuridicamente con una specifica e diversa natura (dai codici ateco, alla mutualità, ai fattori di multi-settorialità, agli aspetti giuslavoristi ecc.).
È in fieri l’iter della legge nazionale per superare le tante legislazioni locali che provano a interpretare questo fenomeno che, invece, richiede una solida univoca cornice nazionale.
Infine queste imprese sono libere perché non soggette alle morse del Mercato per cui il fatturato non è l’elemento dominante e soprattutto non sono ostaggio della politica pur registrando quest’ultimo aspetto come maggiore insidia del processo.
Obiettivo: attivare una rete nazionale
In questo scenario Confcooperative ha finanziato due edizioni del Bando di FondoSviluppo dedicato alla promozione della Cooperazione di Comunità in Italia.
La prima edizione del 2018 ha sostenuto 33 realtà e l’edizione del 2020 poco meno di 60; numeri inaspettati che superano le previsioni e ci fanno capire come il fenomeno sia decisamente in crescita e per questo, a luglio del 2021, Confcooperative ha compiuto un passo strutturale istituendo il settore della cooperazione di Comunità nella federazione di Confcooperative Habitat, quale forma di impresa che partendo dal piano dell’abitare si declina nelle tante forme che oggi regolano la materia cooperativa. Per questo non è possibile definire univocamente queste realtà che spessissimo sviluppano progetti integrati di territorio che, pur partendo da una azione specifica, si trovano ad agire contestualmente in agricoltura, turismo, società, cultura ecc.
Un fenomeno che richiede di essere maneggiato con cura, non applicando i rigidi schemi con cui oggi siamo abituati a gestire il complesso mondo delle imprese, ma piuttosto promuovendo una forma di valorizzazione delle potenzialità per non perdere la capacità innovativa che queste realtà si portano al loro interno e che sono una a una, sperimentazioni particolari.
L’obiettivo è quello di attivare una rete nazionale delle più di cento realtà (chiamata in codice “la carica dei 101”) per costruire un sistema di reciproco scambio su tutto il territorio nazionale ispirandosi un po’ alla rete delle cooperative di Comunità in Abruzzo borghiIN (borghiinrete.it), che sta rappresentando a oggi l’esperienza più evoluta di sistema e infrastruttura di un intero territorio/regione, con 32 cooperative di Comunità e altre cooperative come cantine vinicole, cooperative sociali e sanitarie, cooperative turistiche e di servizi; tutte insieme a fare sistema per costruire una solida realtà capace di atterrare concretamente nei borghi e nei quartieri delle città.
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NOTE
1. La Convenzione di Faro è stata adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 13 ottobre 2005 e aperta alla firma degli Stati membri a Faro (Portogallo) il 27 ottobre dello stesso anno. È entrata in vigore l’1 giugno 2011. Ad oggi, 21 Stati membri del Consiglio d’Europa hanno ratificato la Convenzione e 6 l’hanno firmata. La Convenzione è una “convenzione quadro” che definisce le questioni in gioco, gli obiettivi generali e i possibili campi di intervento degli Stati membri per progredire.