Uno dei più innovativi e autorevoli paesaggisti nel contesto mondiale, impegnato in un nuovo approccio al verde in città, spiega: “Per me l’estetica è un obiettivo primario. Nella progettazione del verde spesso creiamo paesaggi sterili o senza vita: io voglio stabilire un potente legame emotivo tra il cittadino e il suo ambiente. Sotto sotto siamo tutti animali, la città moderna è per noi un ambiente innaturale: abbiamo bisogno di avvertire il potere della natura per sentirci completi”. Pensieri green oltre i luoghi comuni.
Nigel Dunnett è una delle voci principali al mondo per quanto riguarda gli approcci innovativi alla progettazione del verde urbano. È un pioniere della nuova tendenza ecologica nella piantumazione di giardini e spazi pubblici. Cerca di superare un ruolo solo cosmetico, decorativo e funzionale della progettazione per affrontare i grandi problemi del cambiamento climatico e di un futuro sostenibile per le nostre città.
Il suo lavoro si basa su decenni di dettagliate ricerche sperimentali, e su una vasta applicazione pratica. Tra i suoi progetti, il Queen Elizabeth II Olympic Park a Londra (insieme a James Hitchmough), una delle più grandi aree verdi urbane d’Europa: un sito post-industriale e contaminato, riprogettato in modo del tutto nuovo; le terrazze del Barbican Centre, sempre a Londra; “Sheffield dal grigio al verde”, progetto per impiantare la più grande arteria “green” interna a una città del Regno Unito. Nel 2018 ha vinto il Landscape Institute Fellows Prize. Insegna Planting Design e Urban Horticulture nel Dipartimento di Architettura del paesaggio dell’Università di Sheffield. Negli ultimi mesi per il festival “I maestri del paesaggio” Dunnett ha realizzato un progetto per trasformare (temporaneamente) Piazza Vecchia, cuore medievale di Bergamo Alta, in una “piazza verde”. E sta studiando nuove modifiche permanenti nei quartieri centrali della città lombarda.
Quello che dovremmo fare – dice – è mettere al primo posto i processi naturali ed ecologici nel modo in cui sono pianificate le nostre città e gli edifici sono posizionati e sviluppati – un approccio guidato dal paesaggio e dall’ecologia, che ci permetta di cogliere e lavorare con questi processi per il nostro bene, così come per il bene di un ecosistema più ampio. E abbiamo bisogno di pensare alla dimensione umana in ciò che facciamo. La mia idea è portare la natura in città, ma non solo il verde: natura colorata, emozionante, allegra, gioiosa. Realizziamo giardini, ma anche opere d’arte, con miscele di tinte diverse. Il mio lavoro è portare bellezza e colori nelle città, far spazio alla natura in sé non è sufficiente.
Molto spesso i giardini sono disegnati e pianificati solo con criteri decorativi, abbiamo bisogno invece di una combinazione di ricerca scientifica, di arte e design e di attività di piantumazione, se vogliamo essere veramente ecologici e sostenibili. E non basta discutere su come dev’essere la città del futuro, occorre agire. Oggi ciascuno ha una responsabilità speciale verso la città: che tu sia un funzionario comunale, un designer o un privato cittadino, puoi comunque avviare un cambiamento, piccolo o grande che sia.
Qual è il principale guadagno di questo approccio?
Normalmente nell’architettura del paesaggio, nell’urbanistica, la progettazione di giardini non è la prima cosa a cui si pensa. Si pensa prima agli edifici e il paesaggio va a inserirsi nello spazio che resta tra di essi: io voglio cambiare questo approccio, voglio che la creazione di aree verdi e colorate nella città sia messa al primo posto.
Lei parla di una “natura progettata”.
Abbiamo bisogno di un’ecologia progettata, sì. La questione non è ciò che accade in natura, ma ciò che noi possiamo fare con la natura. Dobbiamo selezionare, guidare, amplificare la natura: renderla migliore. Perché ci sono molti ambienti naturali in cui non vorremmo affatto vivere.
Sarà più facile operare nelle città grandi o in quelle piccole?
Forse è più facile nelle città più piccole, perché lì è ancora possibile avere un collegamento tra l’ambiente esterno e il cuore della città. Ma il bisogno è maggiore nelle metropoli, perché è lì che perdiamo completamente quella connessione. La vera risposta è che è possibile intervenire ovunque, la trasformazione della natura deve avvenire a tutte le scale, dall’ambito piccolo e locale all’intera città e regione. E la cosa fondamentale è che i vari livelli sono connessi.
Questa trasformazione dovrebbe essere più pragmatica o visionaria?
Una combinazione delle due. È sempre importante essere visionari perché le trasformazioni necessarie devono cambiare l’aspetto dei luoghi, come vengono utilizzati, chi li usa e come vengono curati. Non è sufficiente apportare modifiche piccole o localizzate. È sempre essenziale sfidare lo status quo e i metodi abituali, e avere grandi idee. Ma allo stesso tempo essere troppo visionari, troppo puri, troppo idealisti può diventare un problema. Perché dobbiamo realizzare queste trasformazioni, e affinché questo accada devono essere qualcosa di realizzabile e adattabile.
Le moderne megalopoli affrontano un forte processo di densificazione, lo spazio manca.
Abbiamo perso la natura, e le nostre emergenze sono amplificate da questa situazione. Dobbiamo riportare la natura in città, ma non in piccola scala: un albero qui, un nuovo giardino laggiù... Abbiamo bisogno di una grande trasformazione. Dobbiamo cambiare il modo di pensare al verde: non c’è molto spazio per nuovi parchi, quindi dobbiamo operare su aree commerciali, parcheggi per auto, tetti, non solo sulle aree verdi più tradizionali.
Rispetto alle soluzioni ottocentesche, che ancora dominano la planimetria delle nostre città, vuol dire che non dovremmo concentrare il verde in aree specifiche ma distribuirlo un po’ ovunque?
I giardini del futuro saranno lungo le strade, cominciando con il liberarle dalle macchine. Abbiamo il potenziale per cambiare l’aspetto e l’atmosfera della città. E fare questo non è contro l’economia: se il posto è bello più persone verranno, più persone rimarranno più a lungo, più persone spenderanno soldi. E i nuovi spazi verdi all’interno dei quartieri avranno bisogno di meno irrigazione rispetto a prima. Questo nuovo paesaggio urbano sarà più economico da mantenere: la maggior parte delle persone pensa che sia più costoso e invece è il contrario. Certo non possiamo affrontare il problema allontanando le persone e le loro attività dai nuclei vitali della città: dobbiamo far funzionare il verde insieme a tutte le attività umane. Dobbiamo farlo funzionare anche con l’economia.
Abbiamo ancora bisogno di bellezza?
Sì, certo, la bellezza è essenziale. Per me questa è la chiave per ottenere il cambiamento e un più ampio funzionamento ecologico delle città. L’incapacità di riconoscere questo fatto è il motivo per cui la progettazione del paesaggio ecologica e sostenibile non è l’approccio prevalente oggi. Troppo spesso si pensa a soluzioni “ecologiche” ma non importa molto che aspetto abbiano. Io ho adottato l’approccio opposto: cerco di creare bellezza come obiettivo primario. Quando le persone osservano una bellezza naturale, ad esempio un’ampia fioritura, non vogliono solo vederla, vogliono starci dentro; vogliono farne parte. Questo la dice lunga su ciò di cui hanno bisogno. Queste dovrebbero diventare esperienze comuni in città, non solo in giardino o al parco ma anche per strada, o a scuola. La sensazione di trovarsi in un meraviglioso ambiente naturale è qualcosa che tutti dovremmo poter provare. Dobbiamo essere artisti con l’ecologia. Nella progettazione del verde, spesso creiamo paesaggi sterili o senza vita: io voglio stabilire un potente legame emotivo tra il cittadino e il suo ambiente. Cerco un’esperienza ad alta energia. Non dovresti essere solo un osservatore ma un attore, partecipare. Bisogna creare un habitat. Noi designer abbiamo il potere di entrare nel profondo delle persone e sbloccare emozioni potenti e gioiose, fino a provocare una risposta emotiva. Raggiungere la testa e il cuore delle persone, non solo realizzare qualcosa di decorativo.
Quale errore non dovremmo fare?
Trasformazione green e design ecologico spesso falliscono perché non pensano alle persone, che non vengono coinvolte in queste discussioni. Non possiamo semplicemente immaginare di portare in città un pezzo di campagna o qualche pianta alpina: dobbiamo pensare in modo radicalmente diverso. A un nuovo tipo di natura in città. Non dovremmo guardare a come erano prima, nei secoli passati, le nostre città: dobbiamo pensare invece a cosa potrebbero essere in futuro.
Il suo lavoro, mi pare, conserva ancora una sensibilità particolare verso il grande potere della natura: mi ha ricordato un po’ l’architetto italiano del XVIII secolo Luigi Vanvitelli. Pensa che dovremmo mantenere un certo senso di “mistero” nelle città del futuro?
Sì, il “potere della natura” porta un elemento sublime nell’esistenza umana. Dovrebbe essere una forza potente che tira fuori le persone da se stesse. In questi termini, il senso barocco di esuberanza ed esagerazione è molto appropriato in questa discussione. Ma lo è anche l’elemento più romantico del profondo richiamo alle emozioni umane. Sotto sotto siamo tutti animali, e abbiamo una storia evolutiva di adattamento all’ambiente naturale, è ancora tutto lì nel nostro subconscio. La città moderna è per noi un ambiente del tutto innaturale, e di conseguenza estremamente malsano. Abbiamo bisogno del potere della natura per farci sentire completi come persone.
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