Trimestrale di cultura civile

La città dopo la pandemia

Tutti gli attori della scena urbana sono impegnati a interrogarsi sul funzionamento del “vivere insieme” messo a dura prova dall’esperienza del Covid-19. Criticità già evidenti prima e che oggi richiedono un cambio di rotta. Per costruire un modello di sviluppo sostenibile, inteso in tutti e tre i suoi significati: ambientale, economico, sociale. L’alternativa ai centri urbani “allargati” non potrà essere quella di andare a vivere in un borgo. Quella rimarrà una soluzione per pochi. Soprattutto per coloro che dispongono di un lavoro. All’ordine del giorno non è il tema antropico se le città si salveranno (si sono sempre salvate), piuttosto se le costruiremo in modo tale da essere resilienti alle crisi future

La pandemia ha minato alla radice il nostro modo tradizionale di “vivere insieme” per citare il titolo della Biennale di architettura dello scorso anno (How Will We Live Together?). Un modo costruito nei secoli della civilizzazione urbana e che nessuno pensava potesse essere minacciato così gravemente.

Essa forse ha disvelato alcune modalità di funzionamento della città che richiedevano un cambio di rotta in ogni caso. Funzionava perché funzionava, ma aveva costi nascosti molto elevati e opportunità completamente ignorate.

Effetti del modello centripeto

Se guardiamo Milano – una città di 2,2 milioni di abitanti durante il giorno, di cui meno di 1,4 milioni registrati come residenti; almeno 200.000 abitanti temporanei, 6-700.000 pendolari che entrano quotidianamente dalla vasta regione urbana – possiamo oggi ragionare sugli effetti di questo modello centripeto.

Certo, la città centrale è il luogo della densità delle relazioni, della urbanità, della contaminazione che è fonte dell’innovazione, ma anche della iper-congestione delle infrastrutture stradali e di trasporto, di elevati livelli di inquinamento da traffico, che grazie alla sua straordinaria capacità attrattiva produce impoverimento della vitalità urbana in tutto il vasto bacino da cui trae la propria forza propulsiva. Una regione urbana che cede popolazione durante il giorno e la riprende durante la notte, seguendo un ritmo pompato dalla città centrale, con costi personali molto elevati per molti, in termini di tempo dedicato al pendolarismo.

Un effetto di questo modello è una disuguaglianza spaziale marcata, dentro e fuori i confini della città, rappresentata dai prezzi delle abitazioni, con la residualità dell’edilizia sociale pubblica, la sofferenza di alcune parti della città, e la affordability per le categorie a reddito più basso conquistata andando ad abitare sempre più lontano.

L’interruzione che non avremmo voluto, ci permette di mettere in discussione e di riflettere criticamente sulla sostenibilità di questo modello di sviluppo urbano.

Sostenibilità in tutti e tre i significati: ambientale, economica e sociale.

E se molti credono e pensano di poter tornare come eravamo prima, ci potrebbero essere ragioni per pensare che forse non è il caso di tornare dove eravamo prima, anche se è difficile cambiare un modo di pensare radicato in tutti gli attori della scena urbana.

Se volgiamo lo sguardo prima a Milano, al modo in cui la città ha attraversato i mesi più difficili e a come ha cercato di uscirne, possiamo osservare alcune cose:

I grattacieli degli uffici, le scuole, le università, i centri commerciali si sono svuotati. La gente costretta a stare nelle proprie case ha certamente sofferto le chiusure, ma ha anche scoperto alcuni aspetti positivi: i negozi di vicinato dove non andava più nessuno sono diventati importanti, così come è risultato importante l’accesso al verde. Nei quartieri dove il commercio di strada è sparito risucchiato dai centri commerciali si sono avute le difficoltà maggiori.

La case sono diventate luogo per molte funzioni, lo studio, il lavoro, il loisir, e hanno mostrato la loro capacità di accogliere queste funzioni laddove le abitazioni hanno dimensioni adeguate e buona connessione alle reti, e grandi difficoltà per case troppo piccole e con una connessione carente.

L’aria è diventata più pulita per la drastica riduzione del traffico, la natura si è ripresa uno spazio che non ha mai avuto; abbiamo guardato tutti con sorpresa gli effetti drammatici di uno svuotamento dei luoghi pubblici che però lasciava spazio ai rumori e agli odori di una natura normalmente soffocata dalla circolazione affollata di mezzi meccanici.

Le misure per l’allargamento dello spazio pedonale e ciclabile, nella fase di prima riapertura, ci hanno fatto capire che è possibile un uso diverso dello spazio pubblico, non monopolizzato esclusivamente dalle automobili, o dalle attività che se ne possono appropriare; la diffusione dei “dehor” ha reso alcune funzioni più estroverse e più capaci di contribuire alla vitalità urbana.

Le persone, costrette negli spazi condominiali, sono state spinte a conoscersi e a condividere momenti che hanno favorito una socializzazione prima sconosciuta, e le persone più in difficoltà spesso hanno trovato aiuto dai vicini o da associazioni di volontariato.

Gli esercizi commerciali, per poter sopravvivere si sono organizzati per effettuare consegne a domicilio. Lo hanno fatto soprattutto per il cibo, ma poi questo uso si è allargato ad altri beni di consumo, e alla fine del lockdown questa opportunità è stata mantenuta da molti come una possibile espansione della propria attività e come opportunità di servire persone anziane o con mobilità ridotta.

Guardando al modo in cui la città ha continuato a funzionare nonostante il blocco, abbiamo capito che ci sono lavoratori che fanno funzionare la città anche quando siamo chiusi in casa e che sono in parte invisibili e in parte poco riconosciuti socialmente: dalla sanità, all’agricoltura, al funzionamento e alla manutenzione delle infrastrutture, alla gestione dei rifiuti, al commercio, alla logistica, agli operatori dei servizi essenziali, ai rider che hanno continuato a consegnare cibo e ogni altro genere di prima necessità.

Si tratta di una serie di elementi che, pur nati da una drammatica limitazione, hanno anche aperto non solo spazi di sopravvivenza durante il lockdown, ma hanno anche indicato interessanti prospettive per pensare a un modo diverso di utilizzazione dello spazio urbano, sia individualmente che come comunità.

Ci hanno mostrato che la rigidità della relazione tra le funzioni – risiedere, lavorare, svagarsi, consumare – e gli edifici che le ospitano può essere infranta e si possono aprire nuove opportunità di grande interesse per un uso flessibile degli spazi che aiuta la capacità di adattamento e di resilienza.

photo © Tommaso Prinetti

La regione urbana

Se allarghiamo lo sguardo alla regione urbana, e per questo intendo la vasta regione che costituisce il bacino dei pendolari da e verso Milano, abbiamo potuto osservare oltre a quanto indicato per la città, anche alcuni elementi aggiuntivi.

Per alcuni mesi gli abitanti sono stati costretti a vivere nei quartieri dei comuni suburbani, e hanno imparato delle cose: hanno riscoperto l’esistenza o la mancanza di servizi di prima necessità molto diseguali.

Hanno rivalutato il migliore accesso al verde, a case generalmente più grandi, il valore dei tanto vituperati standard urbanistici degli anni Settanta con i quali molte parti dell’area milanese sono cresciute. L’estroversione dei dehor, che ha fatto scoprire l’esistenza di tracce di urbanità anche dove ristoranti, bar, pizzerie sembravano invisibili.

Costretti dalle limitazioni gli abitanti hanno iniziato a passeggiare prima attorno alla propria casa senza varcare il limite dei 200 metri, poi nel proprio comune, poi si sono potuti muovere più liberamente solo nella propria regione, e in ognuno di questi passaggi hanno scoperto qualità che prima non erano apprezzate.

La cosa sorprendente è che, finito il lockdown, queste pratiche di vita quotidiana hanno mostrato una certa inerzia: le persone hanno continuato a usare di più i loro spazi di prossimità che prima venivano semplicemente saltati.

Il balzo in avanti del telelavoro, sentito ancora più marcatamente per la posizione arretrata dell’Italia, ci fa capire che non si tornerà completamente indietro. Una indagine svolta dalla School of Management del Politecnico di Milano tra le grandi imprese, cui è stato chiesto come pensano che sarà strutturato dopo la pandemia il rapporto tra lavoro da remoto e lavoro in presenza, ci dice che in media i manager delle aziende pensano che per 2,7 giorni alla settimana si continuerà a lavorare da remoto, e per 2,3 in presenza.

Si tratta di una prospettiva che può cambiare il futuro della città in modo significativo. Vuol dire non tanto che andremo ad abitare nei borghi: questo è un altro discorso, che riguarderà solo alcuni. È risultato evidente, infatti, che andare a vivere lontano dalla città affidandosi al lavoro a distanza e al solo episodico incontro in presenza è ciò che possono fare coloro che un lavoro lo hanno già, non certo chi lo cerca o lo deve apprendere. Chi ha già una sua rete professionale, non certo chi la deve costruire.

Sarà invece possibile per tutti allargare davvero la città, includendo aree della regione urbana che grazie alla presenza di home-worker, non sarà più composta solo da luoghi di residenza ma anche da luoghi di lavoro; con la presenza di persone che saranno per un tempo significativo liberate dai costi e dal tempo del pendolarismo, breve o lungo, e che potranno quindi ricercare condizioni di utilizzo e occasioni di investimento del loro tempo anche nelle comunità in cui risiedono. Che potranno cercare condizioni di home-working non solo nella casa ma anche in situazioni di co-working distribuite nei quartieri.

Questo può voler dire che verranno ricercate condizioni di urbanità e servizi culturali e associativi che in passato si sono prosciugati (i cinema che si sono progressivamente chiusi ovunque, i servizi sanitari allontanati, il commercio locale cancellato dai grandi mall). Possono svilupparsi energie significative per riabitare la periferia metropolitana in un modo diverso.

Già oggi chi gira per Cinisello, San Donato, Corsico, San Giuliano, Opera, si rende conto che gli abitanti hanno imparato a restare nella loro città, a ricercare servizi di prossimità che in passato venivano ignorati per andare in centro, e continuano a farlo anche se non è più necessario.

Si tratta di un allargamento fluido della città, attraverso un processo di riappropriazione e di inspessimento di attività in aree esterne: non è l’ideologia del decentramento delle grandi funzioni che si sognava negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

La densificazione delle attività potrà essere invece la premessa per costruire in futuro anche una capacità attrattiva di nuove funzioni in aree ora solo o prevalentemente monofunzionali e povere di urbanità. Un processo progressivo e cumulativo che, alla fine, potrebbe farci scoprire davvero una città realmente policentrica.

Ciò potrà portare benefici anche alla città centrale, una Milano meno tesa, con un mercato dei prezzi delle abitazioni meno selettivo, con una maggiore dotazione di case in affitto, per i giovani, gli studenti, i lavoratori temporanei, i lavoratori essenziali; meno soffocata dall’ipersfruttamento del territorio, meno inquinata e forse per questo più sostenibile, vivibile e attrattiva anche per quel turismo che era stata la grande novità dopo Expo e che è così repentinamente scomparso, con tutto il suo indotto.

Vuol anche dire che i molti cittadini di Milano provenienti da altre regioni italiane potranno alternare periodi diversi nelle loro città di provenienza senza intasare treni e autostrade il venerdì e la domenica sera. Ricostruendo un legame con città lontane, del Centro e del Sud-Italia, cui restituire parte delle risorse del brain-drain che le ha depauperate. In questo offrendo la possibilità di uno scambio meno diseguale e più capace di costruire alleanze con i territori di provenienza.

Sono convinto che questa non sarebbe una prospettiva di impoverimento ma addirittura di aumento, di moltiplicazione della capacità di Milano, che potrebbe allargare il suo raggio di influenza in modo nuovo.

photo © Nick Staal_Unsplash

Perché tutto questo funzioni non basta però l’inerzia, occorrono strategie consapevoli, occorrono infrastrutture digitali efficienti e infrastrutture di trasporto ben funzionanti, perché ci si possa comunque recare in centro nei 2-3 giorni dell’ipotizzato lavoro in presenza, perché si possa lavorare e svolgere una serie di attività da remoto con una buona qualità della connessione.

Tutto questo mi sembra, paradossalmente, obblighi tutti a un ritorno di attenzione agli spazi della prossimità. Della prossimità locale degli spazi in cui ciascuno si troverà a riorganizzare una vita meno scandita dai ritmi del passato e più aperta alla esplorazione di nuove possibilità: per tutte le funzioni previste e imprevedibili di una città che rallentando aumenta le sue potenzialità, diventa più capace di sviluppare nuove traiettorie di crescita, esaurita una fase che era giunta forse a toccare un limite.

Se non sprecheremo questa crisi, come si dice, saremo in grado non tanto di salvare le città – che si salveranno comunque, come è sempre avvenuto nella storia – ma di costruire una città più sostenibile e più in grado di resistere a crisi future.

Alessandro Balducci è architetto, dottore di ricerca in Pianificazione territoriale. È professore ordinario di Pianificazione e politiche urbane presso il Politecnico di Milano e membro del collegio del Dottorato in Urban Planning, Design and Policy. È stato fondatore e primo presidente di Urban@it - Centro Nazionale di studi per le Politiche Urbane (2013-2018). 

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