Si profila una nuova normalità negli ambiti della convivenza, nei luoghi del nostro vivere. Una trasformazione, innanzitutto, umana e culturale. Che si articola in una domanda di senso aggiornata riguardo l’abitare del post pandemia. Dove si ricentra e si riattualizza l’esperienza della comunità come unione organica di individui. Dove, nel ripensamento complessivo, i luoghi accettano la sfida di essere rigenerati. Dove il digitale, così impattante nella quotidianità di tutti, diventa anch’esso opportunità comunitaria e non separazione. Va colta l’occasione per interrogarsi sull’emergenza di tre nodi rilevanti per la vita personale e le diverse forme della convivenza: i beni relazionali, il bene comune, lo spazio pubblico.
Il Covid-19 ha rappresentato un evento spartiacque e, come in ogni evento di simile portata, archiviata la drammatica fase emergenziale – il cui obiettivo è stato tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio – ci si interroga ora sul suo post.
La prima evidenza che emerge è, innanzitutto, una domanda di senso, che riguarda il come vivere insieme alla luce dei radicali cambiamenti occorsi. L’eccezionalità dell’evento, che ha messo in luce una condizione di vulnerabilità di individui e comunità, offerto occasione di una nuova consapevolezza e mostrato con ancor più evidenza la struttura complessa e interconnessa della realtà, lascia infatti il campo al profilarsi di una nuova normalità, destinata a impattare ogni ambito della convivenza. Si tratta, allora, di cogliere in questo momento di messa tra parentesi dell’ordinario l’opportunità di un profondo ripensamento del nostro modo di abitare la terra e delle forme che la convivenza può assumere, nonostante la scure della distanza spaziale.
Cosa ne è stato della comunità?
Il lockdown dello scorso anno ha reso maiuscoli bisogni in precedenza non solo taciti, ma forse anche inconsapevoli, riportando alla luce – complice l’obbligo di prossimità – un concetto apparentemente obsoleto ed euristicamente inattuale, nell’epoca della mobilità, globalizzazione e velocità, come quello di “comunità”1.
Già nel 1887, quando Tönnies scriveva Comunità e società2, quello di “comunità” era considerato un concetto arcaico, appartenente al passato. Nelle sue riflessioni, la comunità veniva intesa come un’unione organica di individui che condividono progetti e interessi, uniti da un rapporto reciproco vissuto con sentimento dai partecipanti e fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva; nella società, invece, a prevalere sarebbe un sistema di relazioni formali e di leggi necessarie alla convivenza civile ma obbliganti solo “esteriormente”.
Se Tönnies sottolinea la differenza tra vita di comunità e quella all’interno di una totalità impersonale e astratta, Zygmunt Bauman, più di un secolo e mezzo dopo, considera i due tipi di esperienza come compresenti nel modo di convivere contemporaneo, seppur appartenenti a due piani diversi e difficilmente sovrapponibili. A suo avviso, pur nella vastità e incontrollabilità della società in cui inevitabilmente è inserito, l’individuo mantiene anche oggi ben saldo il rapporto con la comunità: che sopravvive nel locale, nell’ambito in cui si è nati, ci si è formati, dove si mantengono i legami forti, la cultura, gli affetti. Pur riconoscendo che nella società contemporanea non si può non attestare una minore rilevanza dell’accezione localistica di comunità tradizionalmente intesa3, per cui si fatica a connotarla come un gruppo di persone che condivide un medesimo spazio e le stesse consuetudini e in cui nessuno dei membri è un estraneo, non per questo si dovrebbe parlare di una irrilevanza dei legami comunitari, quanto piuttosto di una loro trasformazione. Siamo diventati, in questo senso, orfani della comunità locale: in primis a causa dei grandi mutamenti indotti dalla società urbano-industriale, con l’accresciuta estensione della città che, di fatto, ha reso i contorni urbani sempre più labili fino a creare smarrimento anziché rassicurazione; con il lavoro in fabbrica, che ha frantumato i tempi e gli spazi della dimensione domestica del lavoratore, imponendone di propri in nome delle esigenze di produzione; con l’aumentata mobilità, che inibisce il crearsi di residenzialità durevoli.
Come un Giano bifronte, la diffusione dei media digitali ha agito, in questa situazione, da un lato come strumento utile alla continuità di relazioni messe alla prova dagli stravolgimenti della contemporaneità, dall’altro – però – ha inferto un vero colpo alla comunità, così come era stata prima pensata. Se da una parte consente una maggiore facilità di comunicazione, dall’altra la rete induce gli individui a una connessione perenne che favorisce la convinzione di poter prescindere dai luoghi e dai rapporti non mediati con le persone.
Se la condivisione di uno spazio, la prossimità, il parlarsi faccia a faccia – nonché il condividere obblighi e responsabilità reciproche – erano condizioni imprescindibili per il darsi di relazioni autentiche che, diversamente, nell’impossibilità di comunicare in modo continuativo, non avrebbero potuto avere luogo, con la rete tutto muta. Qui lo spazio fisico non è più condizione di possibilità imprescindibile per far accadere e condividere esperienze o per identificarsi in un gruppo. Ma la traslazione dal concetto di comunità a quello di community appare non neutrale se non in qualche modo fuorviante: cosa ci rende una comunità è ciò stesso che ci rende una community? Basta un certo numero di persone che interagisce contemporaneamente, magari condividendo anche interessi e valori, a dar vita a una comunità? La neutralizzazione del gesto corporeo, della dimensione emotiva stabilizzata anche in geometrie familiari, trasforma l’esperienza della convivenza?
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Dalla rete non ci si aspetta la costruzione di legami profondi e duraturi ma, al più, reiterati, ripetuti, continuamente da confermare; nello stesso tempo attraverso di essa si può continuare a coltivare quelle relazioni profonde messe alla prova da spostamenti di lavoro, esigenze di studio, gestione della vita familiare.
Comunità, rete, pandemia
L’esperienza della pandemia – in quanto radicale, universale e trasversale – sembrava custodire la promessa di un cambio di paradigma. Nell’isolamento forzato abbiamo scoperto quanto la prossimità e la vicinanza fossero importanti per la costruzione di relazioni, quanto i rapporti di vicinato, la partecipazione alla vita politica e sociale cittadina, gli incontri casuali prima o dopo il lavoro fossero occasioni per nutrire la convivenza e l’appartenenza a luoghi, contesti, gruppi, così come per fare esperienza della città stessa, ora vuota, immobile, osservata e vissuta soltanto dalle finestre, dai balconi o dallo schermo di un pc. Confinati all’interno delle nostre abitazioni e sollecitati a mantenere, almeno nei luoghi pubblici, quella distanza che nella prossemica è definita sociale4, si è cercata la possibilità di incontrare l’altro nella rete: alla tecnologia si è fatto ricorso per il lavoro, che è divenuto smart, per proseguire nell’insegnamento e nell’apprendimento scolastici (DAD), per sviluppare rapporti sociali, sostituendo la videochiamata ai consueti rituali quotidiani dell’incontro in piazza o in qualche bar. Nello spazio digitale si sono avviati anche nuovi processi sociali, condividendo informazioni, scambiando opinioni e incoraggiandosi a vicenda: nella riduzione di incontri offline sono aumentate le possibilità di interazione online. La messa in luce dei guadagni e delle potenzialità dovuti alle nuove tecnologie non deve, tuttavia, rendere ciechi dinanzi ad alcune criticità derivanti da un impiego che, paradossalmente, rischia di essere escludente. Si tratta di riflettere su almeno due questioni.
Da un lato la direttiva rigorosa e apparentemente innocua di stare a casa e lavorare o studiare da remoto presuppone che tutti dispongano almeno di un luogo tranquillo, di un dispositivo, della connessione alla rete e della capacità di gestire la connessione al web. Ma il possesso
di certe tecnologie, nonché l’accesso ai servizi e una alfabetizzazione adeguata non sono
garantiti a una parte di popolazione che, spesso, non può fruire nemmeno di alloggi adeguati (gli appartamenti delle nostre città per lo più sono piccoli, ancorché costosi, per non dire dei casi estremi come i campi profughi, gli insediamenti precari, le baraccopoli, le situazioni dei senzatetto e degli alloggi temporanei o transitori diffusi nelle città di tutto il cosiddetto mondo sviluppato). L’esclusione che ne deriva può essere letta come una mancanza di riconoscimento nei confronti di cittadini relegati così in condizione di subalternità, e, nei casi estremi, di rifiuto esplicito di certe forme e modalità di vivere la città: traducendosi quindi in difficoltà di costruzione di identità personali e collettive socialmente integrate. Per arginare il pericolo dell’esclusione sociale occorre tener presente che il divario digitale riguarda i territori, le classi sociali, le generazioni ma anche le risorse da cui dipendono il loro utilizzo e la capacità di fruirne.
L’altra questione rilevante che non può essere trascurata, e che riguarda direttamente le dinamiche della convivenza, è quanto la diffusione e l’utilizzo dei mass media digitali provochino una perdita di possibilità di incontro con l’estraneo e una deprivazione di competenza nella relazione con la diversità (è stato messo in luce il fenomeno cosiddetto delle filter bubbles). Si tratta di una questione che investe anche le relazioni comunitarie: perché esse sono fiorenti se vivono di un continuo ridefinirsi, riarticolarsi, approfondirsi e trasformarsi, se sono autoriflessive, se evitano la rigidità e la fissità che le condanna alla sclerotizzazione, quindi in un ambiente ricco di relazioni molteplici, non rivolte solamente a quanto è già acquisito ma generatrici di possibilità.
Ambiente digitale
L’emergenza ha, quindi, comportato la necessità di ripensare la configurazione del legame comunitario così come era stata categorizzata finora, e delle sue patologie che, come sempre accade, sono per eccesso o per difetto.
Si osserva, da un lato, l’impossibilità da parte della comunità locale di essere “significante universale” di ciò che una comunità può essere: infatti oggi il luogo in cui si risiede non è più riconosciuto come l’unica occasione e necessaria condizione di possibilità per la costruzione di un legame di comunità, perché le esistenze si dipanano sempre più in una molteplicità di luoghi d’esperienza5. Dall’altro lato, questo non ha significato l’irrilevanza della dimensione di prossimità, di relazione vissuta e condivisa: come hanno mostrato l’inedito utilizzo di tetti e balconi, e la sorprendente costruzione di reti di solidarietà condominiale o di vicinato.
Si può registrare l’occasione, positiva, di una complessificazione dell’esperienza, che però può anche correre il rischio di una riduzione. Per questo è importante, nella messa in luce del darsi di diverse forme di relazione comunitaria, individuarne peculiarità, rischi, possibili indici di deprivazione e punti di forza: mettendo in luce la costituzione trascendentale dell’essere umano, che è coscienza incarnata che vive nel mondo intessendo la propria esistenza con altri sempre secondo spazio e tempo. Ad esempio, le comunità virtuali non sono meri sottoprodotti dei processi di socializzazione fondati sulla copresenza di luogo, la differenza rispetto alle comunità locali non deve essere cercata nella forma o nell’intensità delle relazioni tra gli individui, ma proprio nel contesto che ospita l’azione. E il contesto co-costituisce la relazione e l’agency di coloro che la costruiscono: si deve ancora capire cosa significhi l’abitare un ambiente digitale, che si sviluppa sempre in qualche modo attraverso e nell’essere allocati degli esseri umani che lo producono, lo usano, lo gestiscono.
I luoghi non sono contenitori indefiniti, all’interno dei quali possono anche avvenire dei fenomeni ma sostanzialmente indifferenti rispetto ai corpi che ospitano e alle pratiche che vi accadono, ma materia viva che plasma le vite degli esseri umani, che inibisce o promuove azioni, interazioni, realizzazioni.
Richard Sennett6, in questa direzione, ha messo in luce come la sfida del post pandemia consista principalmente in una nuova configurazione dell’architettura della densità, rispondendo al bisogno di trovare forme fisiche diverse di prossimità, che permettano la relazione pur nella distanza: che consentano alle persone di comunicare, di vedere i vicini, di partecipare alla vita di strada, alla vita pubblica senza perdere consapevolezza della corporeità.
Da più parti la soluzione alla questione del come poter vivere insieme in città senza il peso delle sue storture (la congestione degli spazi, il maggior rischio di contagio, ecc.) si è di fatto tradotta nella proposta di un esilio dalla città stessa, in quella che il sociologo Eric Charmes ha indicato come la “vendetta dei villaggi”, in riferimento alla tendenza degli abitanti delle città a trasferirsi fuori dal centro. Il rischio è che all’ideologia della città venga a sostituirsi l’ideologia del borgo, del “piccolo è bello”: come soluzione già subito a portata di mano che non solo lascia impensate le questioni di senso più profonde, ma può riprodurre pericolose “forbici sociali” tra coloro per cui il piccolo può solo significare isolamento e diminuzione di libertà e occasioni e coloro che invece dispongono di tutti i mezzi per farne una scelta anche ecologica.
Forse può essere un approccio più generativo cogliere l’occasione per interrogarsi sull’emergenza di tre nodi rilevanti per la vita personale e le diverse forme della convivenza: i beni relazionali, il bene comune, lo spazio pubblico. Non per il domani, ma per adesso.
NOTE
1. Cfr. M. Castrignano, Comunità, capitale sociale, quartiere, Franco Angeli, Milano 2013.
2. F. Tönnies, Comunità e società, Laterza, Roma-Bari 2011 (prima ed. Gemeinschaft und Gesellschaft, Verlag di Fues, Lipsia 1887).
3. Cfr. M. Aime, Comunità, Il Mulino, Bologna 2020.
4. Cfr E. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, Milano 1968.
5. Cfr C. Danani, Ambiguità, potenzialità e trasformazioni dell’essere comunità, in Dialoghi, n. 77/2020.
6. R. Sennett, Come dovremmo vivere? La densità nelle città del post-pandemia, in Domus, n. 1046/2020.
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