Cittadini attivi per affermare un diverso modo di fare politica. Soggetti capaci di generare una nuova concezione di vita partecipativa. Una collaborazione “dal basso” con le istituzioni esplicita affermazione e riconoscimento della propria sovranità. Una ricostruzione morale e materiale. Provocazione sana e “diffusa” alla pratica della democrazia inceppata.
L’amministrazione condivisa dei beni comuni
Da alcuni anni si sta sviluppando in tutta Italia, da nord a sud, nei borghi come nelle città, un fenomeno sociale e culturale grazie al quale centinaia di migliaia di cittadini si mobilitano, spesso in modo informale, per prendersi cura dei luoghi dove vivono. Ed è così che gli abitanti di un quartiere scendono in strada insieme con i loro vicini per cancellare le scritte che imbrattano i muri oppure per prendersi cura di un giardino pubblico, una piazzetta, un’area verde abbandonata o una scuola.
Anche se spesso non ne sono consapevoli, questi cittadini attivi stanno facendo vivere la Costituzione, in particolare l’art. 118, ultimo comma, che in seguito alla revisione costituzionale approvata nel 2001 ha introdotto in Costituzione il principio di sussidiarietà orizzontale, secondo questa formulazione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Questo principio introduce una radicale novità nel rapporto cittadini-istituzioni, perché non soltanto legittima le “autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale” (art. 118, ultimo comma), ma impone ai pubblici poteri di “favorire” tali attività.
Il problema è che i principi costituzionali hanno bisogno di norme di livello inferiore alla Costituzione per diventare realmente operativi nella vita quotidiana delle istituzioni e dei cittadini. Questo spiega come mai l’art. 118, ultimo comma, sia rimasto di fatto lettera morta dal 2001 fino al 22 febbraio 2014, quando il Comune di Bologna e l’associazione Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) hanno donato a tutti i Comuni italiani, alle associazioni e in generale ai cittadini attivi un regolamento comunale-tipo, il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, che attua il principio di sussidiarietà e a oggi è stato adottato da 235 città. 1
Grazie a questo Regolamento i cittadini possono prendersi cura dei beni pubblici presenti sui loro territori all’interno di un quadro di regole giuridiche chiare e semplici.
Il “cuore” del Regolamento sono i Patti di collaborazione, atti amministrativi assimilabili agli accordi disciplinati dalla legge n.241/1990 sul procedimento amministrativo, con i quali i cittadini (anche associati in un semplice e informale comitato di quartiere) e le amministrazioni concordano tutto ciò che è necessario per la cura dei beni pubblici oggetto dei patti e regolano i termini della propria collaborazione, indicando con precisione i compiti e le responsabilità di ciascuno, gli obiettivi, la durata, le assicurazioni, gli strumenti di monitoraggio, quelli per garantire la massima trasparenza, etc.
A oggi sono state stipulate diverse migliaia di “patti ordinari” per la cura dei più svariati beni pubblici: parchi, giardini, piazze, strade, aree abbandonate, scuole, beni culturali e molti altri beni comuni materiali e immateriali. I beni pubblici di cui si prendono cura i cittadini attivi sono più o meno gli stessi ovunque (parchi, spazi pubblici, scuole, beni culturali, spiagge, sentieri…) ma ogni patto di collaborazione è diverso dagli altri perché nei patti si combinano in maniera ogni volta diversa le infinite risorse civiche presenti nelle nostre città e nei nostri borghi, dando vita a soluzioni innovative e originali. 2
Oltre a questa tipologia di patti, che rappresentano la stragrande maggioranza, ci sono poi anche “patti complessi”, molto più impegnativi, per la rigenerazione e gestione in maniera economicamente sostenibile dei moltissimi beni immobili abbandonati sparsi sul territorio del nostro Paese, nonché dei beni confiscati alle organizzazioni criminali.
È essenziale sottolineare che gli interventi di cura dei beni comuni realizzati dai cittadini attivi sono sempre in funzione integrativa, mai sostitutiva, dell’intervento pubblico. Ma il loro contributo può essere prezioso, perché possono mettere a disposizione risorse diverse da quelle delle amministrazioni quali il tempo, le competenze, le esperienze, la conoscenza del territorio, le reti di relazioni personali e le infinite altre risorse materiali e immateriali nascoste nelle nostre comunità e che normalmente sono utilizzate soprattutto (se non unicamente) nell’ambito privato e familiare.
In più, c’è da considerare che le risorse che i cittadini possono utilizzare per la cura dei beni pubblici sono illimitate e anzi migliorano con il tempo e con l’uso, perché se è vero che “cittadini si diventa vivendo in una comunità”, ancor più vero è che “cittadini attivi si diventa lavorando per la comunità”, perché le attività di cura dei beni comuni liberano energie nascoste e sono una grande palestra di cittadinanza e di partecipazione alla vita pubblica.
La “democrazia diffusa”
L’amministrazione condivisa dei beni comuni potrebbe svolgere un ruolo fondamentale per la ricostruzione materiale e morale del nostro Paese una volta usciti, auspicabilmente, dalla pandemia, contribuendo sia a migliorare la qualità della vita di tutti noi, sia a ricostruire e rafforzare i legami che tengono insieme le nostre comunità, liberando nell’interesse generale le infinite energie nascoste nella nostra società.
Ma c’è anche un altro campo in cui la mobilitazione di migliaia di cittadini per prendersi cura dei nostri beni comuni potrebbe avere effetti straordinariamente positivi. Ed è il campo della partecipazione consapevole e responsabile alla vita della comunità ovvero, detto in altri termini, della democrazia.
L’impoverimento di vaste aree della popolazione e l’incertezza per il futuro sono stati in questi anni sfruttati da spregiudicati “imprenditori della paura” per alimentare il disprezzo per la democrazia rappresentativa, considerata non in grado di dare risposte ai bisogni e alle paure dell’opinione pubblica. Ovunque nel mondo quella espressione della sovranità popolare che chiamiamo democrazia rappresentativa è in profonda crisi, sia di credibilità, sia (di conseguenza) di partecipazione. In Italia si è passati da percentuali altissime di partecipazione al voto nei primi decenni della Repubblica, ad anni recenti in cui le percentuali di votanti sono state meno della metà degli aventi diritto al voto. Ma se i cittadini non votano viene meno la fonte stessa della legittimazione della democrazia rappresentativa.
Pertanto tutti dovremmo impegnarci per far sì che la democrazia rappresentativa e le sue regole recuperino credibilità presso gli elettori, perché la democrazia rappresentativa ha sicuramente tanti difetti, ma rispetto ad altre forme di governo della società ha almeno il pregio di sapersi autocorreggere. Nel frattempo, però, è essenziale trovare anche altri spazi e altre modalità di partecipazione alla vita pubblica, oltre a quelli tradizionali, se vogliamo mantenere e anzi se possibile aumentare il tasso di democrazia reale nel nostro Paese.
Sotto questo profilo un aiuto può venire dalle procedure della democrazia deliberativa e partecipativa, che sono state utilizzate, fra l’altro, anche per rispondere alla domanda di partecipazione proveniente da popolazioni nei cui territori si volevano insediare opere pubbliche di forte impatto ambientale e sociale. E in effetti dove le procedure della democrazia deliberativa e partecipativa sono state applicate correttamente i risultati sono stati molto positivi, sia dal punto di vista del contributo migliorativo che le idee e proposte della popolazione hanno dato ai progetti, sia in termini di partecipazione consapevole alle scelte pubbliche da parte della popolazione.
Ma la partecipazione alla vita pubblica ha tante sfaccettature e, “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1) la sovranità popolare può esprimersi in tanti modi. I nostri Padri e le nostre Madri Costituenti, coerentemente con la cultura dell’epoca, pensavano all’esercizio della sovranità popolare unicamente attraverso il voto e la partecipazione alla vita dei partiti politici nell’ambito della democrazia rappresentativa. Non potevano certo immaginare che un giorno i cittadini italiani avrebbero stretto dei patti per collaborare con le amministrazioni pubbliche nella cura dei beni comuni, esercitando così la loro sovranità in forme e modi completamente nuovi, che potremmo chiamare “democrazia diffusa”, così come sono diffuse le attività dei cittadini impegnati nella cura dei beni comuni.
I cittadini che insieme con le amministrazioni si prendono cura dei beni comuni sono sovrani, anche se non stanno esercitando il diritto di voto e anche se non partecipano ad assemblee in cui si discute su come l’amministrazione debba risolvere un problema che riguarda la collettività. I cittadini attivi sono persone che non si sentono né si comportano come supplenti che rimediano a inefficienze dell’amministrazione pubblica, bensì come “custodi” che si prendono cura di qualcosa che non appartiene loro, ma di cui si sentono ugualmente responsabili. Perciò lo fanno con entusiasmo, allegramente, approfittando dell’occasione per stare insieme con gli amici e i vicini di casa, con quel gusto per la convivialità che è una delle caratteristiche migliori del nostro popolo. 3
Oligarchia, per definizione, è esercizio del potere da parte di pochi a vantaggio di pochi, la trasformazione dell’interesse pubblico in interesse privato e lo sfruttamento delle risorse pubbliche per procurare vantaggi ai membri dell’oligarchia e ai loro amici.
La democrazia diffusa è l’esatto contrario dell’oligarchia. Essa è impegno solidale e responsabile di molti a vantaggio di tutti, è la capacità di far coincidere gli interessi privati con l’interesse generale, è l’uso di risorse private per procurare vantaggi a tutti, prendendosi cura dei beni di tutti.
La democrazia diffusa è dunque una forma nuova di partecipazione alla vita pubblica che costituisce un arricchimento del tasso complessivo di democrazia del nostro Paese ed è facilitata dal fatto che si può essere cittadini attivi anche senza appartenere a organizzazioni strutturate, assumere impegni duraturi nel tempo né acquisire competenze specialistiche come quelle che sono richieste ai volontari in settori come la protezione civile, la sanità, l’assistenza alle persone svantaggiate, e così via. Anzi, proprio questi spesso sono gli elementi che rendono così attraente la cura dei beni comuni agli occhi di tanti cittadini che per vari motivi non possono o non vogliono iscriversi a un ente del Terzo settore.
Cittadini attivi possono dunque essere gli abitanti di un paese che, sulla base di un patto di collaborazione, si organizzano per far rinascere un’area verde abbandonata, così come possono esserlo i genitori che stipulano un patto con il dirigente scolastico per riverniciare le pareti della scuola dove studiano i loro figli. È una forma di volontariato “liquido” che si sta diffondendo sempre di più, forse anche perché più in sintonia con i ritmi di vita e le esigenze di una società frammentata, mobile, precaria come quella in cui viviamo.
Lo strumento pratico con cui si realizza la democrazia diffusa sono i patti di collaborazione, grazie ai quali migliaia di persone hanno imparato a organizzarsi, a gestire delle risorse, a interloquire con l’amministrazione e con altri soggetti, in una parola hanno imparato a fare politica, sia pure sotto l’apparenza molto concreta della cura e gestione di spazi e beni pubblici, contribuendo a riempire il vuoto fra società e istituzioni, facendo circolare nuova linfa nei circuiti in parte sclerotizzati della democrazia, senza aggettivi.
I patti di collaborazione sono luoghi di incontro e di scambio fra cittadini e fra cittadini e istituzioni, spazi di libertà per un confronto di idee e proposte dirette a migliorare la vita di tutti, strumenti per la trasformazione delle energie civiche nascoste in energie di cambiamento, ma sono anche palestre di politica e di democrazia. In un’epoca in cui i partiti non svolgono più la loro funzione di vivaio di classe dirigente la democrazia diffusa rappresenta una delle occasioni in cui i cittadini possono imparare a esercitare i propri diritti costituzionali insieme con altri, nell’interesse generale.
Tant’è vero che spesso i cittadini attivi dopo aver sperimentato questo nuovo modo di fare politica decidono di fare un passo ulteriore candidandosi nelle elezioni amministrative della propria città o del proprio paese, portando così nuove energie, competenze e idee nel circuito tradizionale della democrazia rappresentativa.
I cittadini attivi nel prendersi cura dei beni comuni liberano energie, ricostruiscono i legami che tengono insieme le nostre comunità, danno fiducia perché mostrano con i fatti che la collaborazione produce risultati e conviene. Soprattutto, comunicano una cosa semplice ma oggi quasi rivoluzionaria: non soltanto è possibile coniugare il proprio interesse personale con quello generale, ma anzi questo è l’unico vero modo per proteggerli entrambi.
NOTE
1. L’elenco aggiornato è in www.labsus.org
2. Per esempi di patti www.labsus.org
3. G. Arena, I custodi della bellezza (Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e istituzioni), Touring Club Editore, Milano 2020.