Trimestrale di cultura civile

Il terreno comune di una nuova normalità

  • MAG 2021
  • Nadia Urbinati

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L’esperienza radicale che stiamo vivendo anticipa il nostro probabile cambiamento e ancora non possiamo dire se in meglio o in peggio. Un cambiamento che impatta su qualsiasi aspetto della convivenza. Dal rapporto con gli altri al dialogo con le istituzioni; dalla libertà in relazione all’autorità al considerare il mondo finalmente come un ambito unitario. E muoversi in questa direzione per motivi di utilità e convenienza potrebbe non essere necessariamente “un di meno”. Perché si tratta di motivi immediatamente più comprensibili. Più convincenti senza troppo sforzo, richiamando Hume.

La vicenda della pandemia ci ha introdotti all’esperienza di un mondo completamente cambiato. In questa situazione l’altro è emerso come problema, se non addirittura come nemico. Non un gruppo di altri – come nella classica concezione razzista e xenofoba – ma ogni altra persona, ovvero tutti noi. Temiamo ciascuno coloro che incrociamo per strada, pur senza volerlo. L’interruzione della normalità è divenuta, per un certo tempo, nuova normalità. Ed è questo l’aspetto più stridente rispetto a una società democratica, se pensiamo alla normalità come l’ambito relazionale della pratica comunicativa pubblica e degli scambi. Anzi, della curiosità ordinaria per intensificare gli scambi. La condizione di radicalità che è venuta a porsi ha certo le caratteristiche della temporaneità, tuttavia rimane un’esperienza radicale, diversa, nuova.

Cosa determina un fatto nuovo

Detto ciò, proverei a soffermarmi su qualche indicazione che possiamo trarre da un dato di oggettiva complessità e di come, da questa prova, ne usciremo probabilmente cambiati e non necessariamente in peggio, anche se ancora non sappiamo dire se in meglio.

Il mondo politico e non, forse per la prima volta, ha utilizzato la scienza in modo sistematico. La scienza è diventata un mezzo a cui far ricorso con puntualità. E anche i “laici” della scienza, cioè gli inesperti della materia, ne hanno colto la potenza e la capacità. Indubbiamente si tratta di un fatto nuovissimo. Tanto è vero che già all’inizio della pandemia si è immediatamente prospettata la soluzione vaccinale come già in fase di sperimentazione, e con una soluzione positiva vicina nel tempo. Un tempo piuttosto breve rispetto ai precedenti processi di ricerca vaccinale. È come se qualche centinaio di anni di scienze sperimentali e mediche abbiano mostrato tutta la loro potenza e il loro potere. La loro capacità. E di questa conviene tener conto.

Ma v’è un’altra cosa nuova. Kant aveva prefigurato un’umanità nella quale un diritto calpestato in una parte del mondo veniva avvertito – grazie all’interesse dell’opinione pubblica – dovunque. Quell’avvertire portava gli esseri umani a commuoversi e reagire per ogni forma di violenza e sofferenza. Oggi, possiamo sostenere di esserci sentiti parte di un’umanità “una”, ovvero “unificata” davanti alla prova della pandemia; con la paura della morte – che è uguale per tutti – e con la comune esperienza dell’intervenuta condizione di limitatezza e di vulnerabilità. Un dato che ha equiparato classi e ceti. Tutti, dal ricco al povero possono patirne gli effetti; anche se per i più vulnerabili la speranza resta assai più contenuta perché essi dispongono di meno possibilità concrete per poter pensare al futuro in maniera di sicura rinascita. Il fatto vero è comunque quello di un’umanità che nel suo complesso si è trovata unita nella condivisione di un presente segnato dall’irruzione sulla scena di una novità impensabile e di difficile comprensione.

Questi sono fatti nuovissimi. Utile sarebbe non dimenticarli quando ci troveremo al di là di questa lunga e faticosa contingenza. Per una duplice ragione di opportunità. La prima riguarda l’esperienza vissuta di un mondo finalmente così unificato; disperderne i vantaggi nella prospettiva di prossime sfide sarebbe un errore dal punto di vista dell’utilità. La seconda ragione riguarda il nostro rapporto amicale con la scienza, avendo toccato con mano come il progresso scientifico si traduce in un valore molto importante per la vita di tutti. Lo sapevamo, certo; ma non in maniera così decisa e decisiva.

Vengo ora a una terza questione sempre legata all’impatto della pandemia sulla società, sulla nostra convivenza. Per anni si è ricorso ad argomenti di natura morale, a strategie argomentative e finanche retoriche per richiamare il valore dell’uguaglianza, la giusta redistribuzione della ricchezza, il prendersi cura dei più fragili. Insomma, argomenti da coltivare che toccassero i sentimenti buoni, il senso morale. Con la pandemia, abbiamo capito che la leva dei sentimenti buoni è difficile da sostenere per tutti in un arco temporale lungo; paradossalmente, abbiamo scoperto le ragioni dell’utilità e della convenienza che, per esempio, tutti abbiano accesso alla cura. Non più per ragioni di bontà e di sentimento.

Questo è un passaggio che non va sottovalutato. In quanto l’utilità e la convenienza sono vissuti e percepiti come più immediati e universali, comprensibili da tutti. So benissimo che parlare di convenienza risulta ostico, non piacevole da sentire. Però in casi come questo – possiamo dire con Hume – quello dell’utilità è un motivo che può convincere senza troppo sforzo. E ciò è già qualcosa in quanto la categoria della convenienza attiene ai fatti materiali e dunque è tutt’altro che un fenomeno astratto. Ad esempio, abbiamo capito quanto sia conveniente la presenza di un presidio sanitario territoriale, vicino e che arrivi a tutti e abbiamo compreso facilmente il vaccino come utilità di un bene comune che è nella convenienza di tutti sia a disposizione gratuitamente. Poi, è vero, sempre a proposito dell’argomento concreto della convenienza, che qualcuno possa interpretarlo in altro senso, isolando chi dimostra di avere più possibilità di contagio, cioè i più poveri; o viceversa, provando a giustificare che è più utile vaccinare prima chi produce. Questo è avvenuto in alcune zone degli Stati Uniti che conosco piuttosto bene. Laddove interi quartieri delle aree metropolitane sono stati trasformati in veri e propri lazzaretti, separati rispetto alle zone del cosiddetto salotto buono. Tristemente, discorsi simili si sono sentiti fare anche nelle nostre regioni del Nord.

La democrazia prende o perde dal digitale?

Il tema della convenienza e dell’utilità è stringente e delicato allo stesso tempo. Ma, per così dire, è un tema inevitabile. E con la pandemia abbiamo dovuto riconoscere ancor di più la convenienza e l’utilità derivate dall’uso delle strumentazioni tecnologiche. Questo a tutti i livelli: dalle relazioni sociali alla vita politica.

Il ruolo del digitale in politica era ben presente prima della pandemia – pensiamo alla funzione determinante avuta dal digitale nell’elezione di Obama o nella riscrittura della costituzione in Islanda o della sua riforma in Irlanda – ma lo era in modo settoriale e con tutte le diffidenze del caso. Quello che ci ha mostrato, anzi ci ha costretto a fare la pandemia, è di vedere nel digitale una condizione permanente, indispensabile, quotidiana, vitale, per interagire col mondo. Anche questo è uno dei fatti nuovissimi che si sono affermati in questo tempo. E che è sperabile non scompaia. La pratica obbligatoria del digitale ci ha costretti a misurarci con la fragilità dei rapporti fisici nella socialità ma anche, se non soprattutto, nella politica. Abbiamo fatto esperienza della vulnerabilità delle relazioni fisiche. Non che non lo fossero anche prima. E forse lo sono per propria natura.

Il digitale è entrato nelle nostre vite con una forza notevole quasi a volerci dimostrare che, a differenza dei rapporti fisici tradizionali, esso non conosce fragilità. Perché annulla le separazioni, è sempre in azione e ci consente connessioni sempre. Senza limiti di tempo e spazio. Il digitale trae forza dalla nostra vulnerabilità. La novità è questa. Ma è una novità che può avere anche un’uscita negativa. Ecco allora l’urgenza di una domanda: quanto la democrazia può prendere o perdere dal digitale? Potrebbe trarne beneficio qualora – non insistendo più soltanto sul modello di democrazia rappresentativa – venisse a sorgere anche un’interazione tra democrazia rappresentativa e forme dirette di rapporto fra cittadini e istituzioni. Per esempio con forme di consultazione dirette dei cittadini; con forme di consultazione su temi specifici e per raggiungere soluzioni ragionevoli e condivise. Del resto, prima della pandemia, erano già in atto esperimenti in questo senso con soluzioni raggiunte non negative come in Canada, Finlandia, Irlanda e Islanda.

La radicalità della situazione attuale ha visto parlamenti dimezzati, svuotati; parlamenti composti di pochi rappresentanti di rappresentati, come degli scampoli dei gruppi e di conseguenza scampoli dei cittadini. A me questa fotografia ha colpito moltissimo. Il parlamento quale unico luogo dove vi era l’espressione di democrazia diretta, dove si discuteva e decideva direttamente, sembra aver perso la sua funzione. Oggi, quasi da nessuna parte, si discute e si decide insieme, neppure tra i pochi eletti in parlamento.

Questo è un tema che dovrebbe interrogare il legislatore, anzi tutti i cittadini. In primo luogo perché, a partire dall’oggettivo stato di difficoltà, potrebbe avviarsi una riflessione adeguata che ponga le basi per cambiare in meglio il rapporto istituzione/cittadini. Dico in meglio perché la situazione potrebbe anche volgere al peggio. Con un’accelerazione che renderebbe più spessa la dimensione del giudizio affidato alla chiacchiera invece che alla partecipazione larga dei cittadini alla decisione. La realtà di oggi dice questo. In forma più estrema rispetto a ieri quando comunque già si palesava questa tendenza.

La democrazia rappresentativa si regge su due gambe, quella dell’opinione e quella della volontà, cioè della decisione. Quella dell’opinione, del giudizio espresso in pubblico, ci fa oggi illudere che basti essere connessi per essere decisori, per contare; che sia sufficiente essere connessi per essere cittadini dotati di potere. Questa è un’illusione potentissima. Ed è possibile che l’illusione di essere attivi attraverso il giudizio, il commento, ma mai la decisione, venga utilizzata a ragion veduta dai leader populisti che vogliono o vorrebbero pensare di illudere che attraverso una persona, o poche persone, l’intero mondo possa parlare. È un tema molto serio, esploso durante la pandemia, anche se non creato da questa. Abbiamo assistito, in modo particolare nei mesi di marzo e aprile del 2020, a un circo di questa presenza digitale e nei media come se il mondo si fosse trasferito là.

Una rete che cospira

L’uso intensivo e invasivo della rete porta con sé la possibilità di credere o far credere quel che si vuole. Il dato preoccupante è la presenza di siti cospirazionisti assai frequentati e anche utilizzati dai politici. Penso all’entourage di Donald Trump, che ha sfruttato questa diffusa tendenza promuovendo un nuovo metodo di cospiracy per ragioni di sicurezza. Con la teoria del complotto a mezzo sociale, divenuta virale, utilizzata nella campagna per le presidenziali del 2016 a discredito di Hillary Clinton. Quel metodo lo conoscevamo nella sua forma più classica, quella del maccartismo, della caccia alle streghe, una riedizione modernissima di un fenomeno noto nella controriforma cattolica. Dove però veniva perlomeno salvata la forma giuridica dei tribunali giudicanti con un apparato visibile di ricerca della verità, prove e contro prove, e regole del processo. Non era abbastanza la chiacchiera. Invece adesso si procede secondo un metodo del tutto diverso: far sorgere dubbi, gettare discredito, alzare la nebbia, coltivare la pratica del “si dice” che fa concludere che “qualcosa di vero dovrà pur esserci”. Dunque un metodo cospiratorio che si fonda sul presumibile, sul possibile, e che utilizza la rete per cercare e creare consenso. All’opposto del vecchio sistema cospiratorio che si fondava sulla “verità” cercata, e non si accontentava del dubbio. Invece, questa distruzione di legittimità – se tu non credi più a quel che vedi non ti fidi più di nulla – determina una sfiducia radicale nelle istituzioni democratiche. Il dubbio corrode la credenza e la fiducia, soprattutto se viene alimentato come dubbio, se non si cerca di comprovarlo. Questo aspetto è molto più lesivo della legittimità che non il vecchio maccartismo che, se non altro, era una difesa dello status quo, americano e occidentale, alla ricerca di prove. La nuova cospiracy theory è, al contrario, una destabilizzazione dell’ordine costituito.

Tale pericolo non preclude la possibilità che l’uso intensivo della rete possa riservare opportunità per tutti noi. Oppure che ci riservi nuovi limiti. Mi riferisco alla questione delle proprietà delle piattaforme in mano a grandi corporation internazionali. Ma dobbiamo ricordare che i problemi di proprietà dei mezzi di comunicazione di massa ci sono sempre stati. I giornali, le televisioni, le case editrici erano e sono comunque in possesso di qualcuno. E noi li utilizzavamo e utilizziamo. Semmai oggi il problema è ingigantito perché il media digitale non può essere posseduto localmente. La rete non può avere una dimensione solo locale, ma ha una dimensione globale. E questa dimensione globale è più facilmente soggetta a generare forme di monopolio. È come se la tecnologia avesse in qualche modo fagocitato, anticipato, favorito la conglomerazione globale del capitale.

Il principio all’educazione messo in discussione

L’accesso al digitale è, come abbiamo visto, una questione dirimente a più livelli, e lo diventa ancor più quando in gioco vi è l’educazione. E questo chiama in causa sia la disponibilità di una rete adeguata, sia la disponibilità degli strumenti necessari per accedervi. Entrambi gli aspetti sono fondamentali per il diritto all’istruzione. In Italia lo abbiamo visto con la pandemia. La didattica a distanza ha reso evidente l’impatto delle condizioni economiche sull’educazione, il fenomeno dell’abbandono scolastico in alcune zone del Paese determinando una forma preoccupante di disalfabetizzazione.

In diverse aree del Paese manca la copertura della rete infrastrutturale e, inoltre, il costo non banale degli strumenti digitali necessari non può essere coperto da tutti facilmente. Si è fatto poco o nulla per risolvere il problema. Durante la pandemia i costi per l’istruzione sono drasticamente aumentati con tutte le conseguenze negative del caso. Perché, oltre ai costosi libri di testo, è intervenuto l’imprevisto obbligatorio di Internet. In queste condizioni di impegno gravoso per le famiglie, se l’istruzione è un dovere/diritto la spesa per sostenerla dovrebbe essere pubblica. Il dovere di mandare i figli a scuola è diventato più dispendioso, non meno. Questo è un fatto che preoccupa, perché denuncia la violazione di un principio fondamentale, quello dell’istruzione. Questo principio non è un diritto sociale, ma un diritto fondamentale del cittadino ed è anche un dovere da parte del pubblico renderlo possibile. Lo Stato dovrebbe porsi seriamente questo problema.

La lezione di John Stuart Mill

Termino soffermandomi su un altro tema assai dibattuto nell’Occidente, quello della democrazia al tempo della pandemia: la limitazione alla libertà di circolazione. Per molti, anche nella politica, è stata l’occasione per una contestazione radicale delle misure restrittive in nome della libertà individuale, con una reazione anarco-liberista.

Ci sono almeno tre modi di interpretare la libertà in relazione all’autorità. Il primo: faccio ciò che voglio, non ho alcuna intenzione di sacrificarmi; sulla falsariga di Robinson Crusoe, che tuttavia era da solo sull’isola, fuori della società. Dunque, una risposta antisociale sostenuta da un’idea antisociale di libertà: libertà significa il mio diritto prima e contro tutto il resto del mondo.

Vi è una seconda condizione, quella della non libertà. Cioè il fatto che l’individuo sia esclusivamente in funzione della comunità, per cui se viene presa la decisione di chiudere un intero villaggio piuttosto che una regione, non ci si pone il problema di contestare la decisione, perché l’individuo è una cellula funzionale alla vita della comunità.

Invece, nelle nostre democrazie conosciamo e viviamo una diversa libertà, per cui la libertà è goduta e vissuta con gli altri, non è l’affermazione della mia libertà contro tutti e nemmeno della vita della comunità sopra tutto. La nostra libertà è sempre limitata, anche quella mia in relazione a me stessa, se e quando mi metto in discussione e pondero le mie scelte e le mie preferenze. Il punto è uno, fondamentale: chi limita e come la libertà. Al riguardo, noi disponiamo di norme costituzionali estremamente chiare, come lo è pure la nostra tradizione. Per cui ho trovato assai oziosa e speciosa la polemica sulla società autoritaria. Anche perché non è pensabile una libertà illimitata, anche quando rivendichiamo la nostra individuale libertà contro istituzioni che regolano il nostro comportamento. Nel suo Saggio sulla libertà John Stuart Mill (On Liberty, prima edizione originale 1859), che non era un anarco-liberista come a volte si tende a presentarlo, scrive: “Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per evitare danno agli altri”. Ecco, il danno agli altri, nel tempo della pandemia, ha comportato una legittima limitazione di una libertà, quella di movimento.

Il presente articolo è tratto dall’intervento di Nadia Urbinati all’incontro inaugurale della Scuola di formazione politica “Conoscere per decidere. Pandemia e società” del 3 dicembre 2020.

Nadia Urbinati è titolare della cattedra di Scienze politiche alla Columbia University di New York; politologa e giornalista italiana è naturalizzata statunitense.

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