Trimestrale di cultura civile

Da dove nasce
il risentimento populista

  • MAG 2021
  • Michael J. Sandel

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La nostra epoca è attraversata da rabbia e polarizzazione politica. Le élite democratiche, facendo proprio il metodo del merito tecnocratico, alla prova dei fatti hanno fallito come modalità di governo. Il sentimento di rancore che si è tradotto in protesta e sostegno a politici autocratici non è però la semplice traduzione di una rimostranza economica. C’è di più. C’è altro. È la risposta all’approccio tecnocratico alla politica e allo strappo del legame tra merito e giudizio morale che tende a escludere coloro che le élite e i partiti mainstream non considerano meritevoli. I vinti. Pubblichiamo, in esclusiva per l’Italia, il contributo alla riflessione sulle ragioni della crisi della democrazia negli USA, ma non solo in quel Paese dell’Occidente, del professor Michael J. Sandel tratto dal libro La Tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, recentemente pubblicato da Feltrinelli

Sono, questi, tempi pericolosi per la democrazia. Possiamo scorgerne i segnali nella crescente xenofobia e nell’aumento del sostegno a figure autocratiche, che mettono a dura prova le norme democratiche. Queste tendenze sono preoccupanti di per sé. Altrettanto allarmante è la scarsa comprensione che i politici e i partiti mainstream mostrano di avere nei confronti del malcontento che sta scuotendo la politica in tutto il mondo.

Alcuni denunciano l’insorgere del nazionalismo populista come poco più di una reazione razzista e xenofoba agli immigrati e al multiculturalismo. Altri lo considerano soprattutto in termini economici, come una protesta contro la perdita di posti di lavoro provocata dal commercio globale e dalle nuove tecnologie.

Tuttavia, è un errore vedere nella protesta populista soltanto una forma di intolleranza oppure considerarla semplicemente una rimostranza di natura economica. Come il trionfo della Brexit nel Regno Unito, così l’elezione di Donald Trump nel 2016 è stata un verdetto dettato dalla rabbia nei confronti di decenni di crescente disuguaglianza e di una globalizzazione che avvantaggia chi sta ai vertici, mentre lascia ai cittadini comuni la sensazione di aver perso potere. L’elezione di Trump è stata anche una forma di rimprovero nei confronti di un approccio tecnocratico alla politica, sordo al risentimento di quanti si sentono lasciati indietro dall’economia e dalla cultura.

La cruda verità è che l’elezione di Trump ha attinto alla fonte delle ansie, delle frustrazioni e delle legittime rimostranze alle quali i partiti mainstream non hanno dato risposte convincenti. Una situazione analoga affligge le democrazie in Europa. Prima ancora di sperare di riconquistare il sostegno pubblico, questi partiti devono ripensare alla propria missione e al proprio scopo. Per fare ciò, dovrebbero trarre insegnamento dalla protesta populista che li ha rimpiazzati – non riproducendo la xenofobia e il nazionalismo stridente, ma prendendo invece in seria considerazione le legittime rimostranze con cui sono intrecciati questi sentimenti negativi.

Una simile riflessione dovrebbe iniziare dal riconoscere che queste rimostranze non sono soltanto di carattere economico, ma sono anche morali e culturali; non riguardano soltanto i salari e i posti di lavoro, ma anche la stima sociale.

I partiti tradizionali e le élite governative, che si trovano a essere il bersaglio della protesta populista, faticano a dare un senso a tutto ciò. In generale, diagnosticano il malcontento in due modi: come un’animosità contro gli immigrati e le minoranze etniche, oppure come un’ansia di fronte alla globalizzazione e ai cambiamenti tecnologici. Entrambe le diagnosi tralasciano qualcosa di importante.

Diagnosticare il malcontento populista

La prima diagnosi vede la rabbia populista contro le élite principalmente come una reazione all’aumento delle differenze razziali, etniche e di genere. Abituati a dominare la gerarchia sociale, gli elettori maschi bianchi delle classi lavoratrici, che hanno dato sostegno a Trump, si sentono minacciati dalla prospettiva di diventare una minoranza all’interno del “proprio” Paese, di diventare “stranieri nella propria terra”. Sentono di essere, più delle donne o delle minoranze razziali, le vittime della discriminazione e si sentono oppressi dalle istanze del “politicamente corretto” della discussione pubblica. Questa diagnosi sullo status sociale offeso mette in luce le componenti negative del sentimento populista: il nativismo, la misoginia e il razzismo, evocati da Trump e dagli altri populisti nazionalisti.

La seconda diagnosi attribuisce il risentimento delle classi lavoratrici alla confusione e allo smarrimento causati dalla velocità del cambiamento in un’epoca globalizzata e tecnologica. Nel nuovo ordine economico, l’idea che il posto di lavoro duri per tutta la vita non esiste più; ciò che conta oggi è l’innovazione, la flessibilità, l’imprenditorialità e una costante volontà di apprendere nuove competenze. Ma, secondo questa visione, molti lavoratori inorridiscono alla richiesta di reinventarsi, perché i posti di lavoro che occupavano sono stati delocalizzati in Paesi dai bassi salari o sono stati robotizzati. Il loro desiderio nostalgico sarebbe di tornare alla stabilità delle comunità e delle carriere del passato. Sentendosi in balìa delle forze inesorabili della globalizzazione e della tecnologia, questi lavoratori inveiscono contro gli immigrati, contro il libero commercio e contro le élite al governo. Ma la loro furia è mal indirizzata, perché non si rendono conto di scagliarsi contro forze inalterabili come il tempo. Le loro preoccupazioni vengono affrontate meglio dai programmi di formazione professionale e dalle altre misure che li aiutano ad adattarsi agli imperativi del cambiamento globale e tecnologico.

Ciascuna di queste diagnosi contiene un elemento di verità, ma nessuna delle due attribuisce al populismo ciò che gli è dovuto. Interpretare la protesta populista come malevola o come mal diretta assolve le élite governative dalla responsabilità per la creazione delle condizioni che hanno eroso la dignità del lavoro e che hanno lasciato che in molti si sentano privati di rispetto e di potere. La perdita di status economico e culturale dei lavoratori negli ultimi decenni non è il risultato di forze inesorabili; è il risultato del modo in cui i partiti politici mainstream e le élite hanno governato.

Queste élite sono oggi in allarme, ed è giusto che lo siano, alla luce della minaccia alle norme democratiche rappresentata da Trump e dagli altri autocrati sostenuti dai populisti. Tuttavia, queste élite non riescono a riconoscere il ruolo avuto nel provocare quel risentimento che guida la reazione populista. Non riescono a vedere che i tumulti cui stiamo assistendo sono una risposta politica a un fallimento politico di proporzioni storiche.

Tecnocrazia e globalizzazione amica del mercato

Il modo in cui i partiti mainstream hanno concepito e portato avanti il progetto della globalizzazione negli ultimi quattro decenni sta al cuore di questo fallimento. Due aspetti di tale progetto hanno dato origine alle condizioni che alimentano la protesta populista: uno è il suo modo tecnocratico di concepire il bene pubblico; l’altro è il suo modo meritocratico di definire vincitori e perdenti.

La concezione tecnocratica della politica è legata alla fede nei mercati, non necessariamente il capitalismo laissez-faire senza freni, bensì una convinzione più generale che i meccanismi di mercato siano i principali strumenti per realizzare il bene pubblico. Questo modo di concepire la politica è tecnocratico nel senso che prosciuga il dibattito pubblico da argomentazioni morali sostanziali, trattando le questioni controverse dal punto di vista ideologico come se fossero materia di efficienza economica e, quindi, àmbito degli esperti.

Non è difficile vedere come la fede tecnocratica nei mercati abbia preparato il terreno per il malcontento populista. Questa versione di globalizzazione guidata dal mercato ha portato a una disuguaglianza crescente, oltre a svalutare le identità e le fedeltà nazionali. Mentre beni e capitali si muovevano liberamente attraversando i confini nazionali, coloro che stavano cavalcando l’economia globale valorizzavano le identità cosmopolite quale alternativa progressista e illuminata alle visioni ristrette e campanilistiche del protezionismo, del tribalismo e del conflitto. La vera frattura politica, sostenevano, non era più tra sinistra e destra, ma tra apertura e chiusura. Ciò implicava che i critici della delocalizzazione, degli accordi sul libero mercato e del flusso di capitali senza restrizioni fossero considerati di mentalità chiusa anziché aperta, tribali anziché globali.

Nel frattempo, l’approccio tecnocratico al governo trattava molte questioni pubbliche come materia di competenza tecnica fuori dalla portata dei cittadini comuni, restringendo l’ambito delle argomentazioni democratiche, svuotando i contenuti del dibattito politico e producendo un senso crescente di perdita di potere.

La concezione della globalizzazione in chiave tecnocratica e amica del mercato era stata adottata dai partiti mainstream sia di destra sia di sinistra. Tuttavia, è stata l’adozione della logica di mercato e dei suoi valori da parte dei partiti di centro-sinistra a rivelarsi più gravida di conseguenze, per il progetto stesso della globalizzazione e per la protesta populista che ne è conseguita.

Al momento dell’elezione di Trump, il Partito democratico era diventato un Partito liberale tecnocratico più congeniale alle classi professionali che ai colletti blu e agli elettori della classe media che una volta costituivano la sua base. Lo stesso vale in Gran Bretagna per il Partito laburista ai tempi della Brexit e per i partiti della socialdemocrazia europea.

Queste trasformazioni risalgono agli anni Ottanta. Ronald Reagan e Margaret Thatcher sostennero che il governo fosse il problema e i mercati la soluzione. Quando abbandonarono la scena politica, i politici di centro-sinistra che succedettero loro – Bill Clinton negli Stati Uniti, Tony Blair in Gran Bretagna e Gerard Schröder in Germania – confermarono, seppur con toni più moderati, la fede nel mercato. Smorzarono gli aspetti più accentuati dei mercati senza restrizioni, ma senza sfidare la premessa centrale dell’era reaganiana e thatcheriana, ovvero che i meccanismi del mercato sono i principali strumenti per realizzare il bene pubblico. Coerenti con questa fede, fecero propria una versione della globalizzazione amica del mercato e accolsero con favore la crescente finanziarizzazione dell’economia.

Negli anni Novanta, l’amministrazione Clinton condivise con i Repubblicani la promozione di accordi commerciali sul mercato globale e la deregolamentazione del settore finanziario.
I benefici di queste politiche andarono soprattutto a quanti stavano ai vertici, ma i Democratici fecero ben poco per affrontare le profonde disuguaglianze e il potere crescente dei soldi in politica. Deviando dalla propria missione tradizionale di mettere un freno al capitalismo e di mantenere il potere economico in mani democratiche, il pensiero liberal ha perso il proprio ruolo di guida.

Tutto questo sembrò cambiare quando Barack Obama apparve sulla scena politica. Durante la sua campagna elettorale per le presidenziali del 2008, Obama usò un linguaggio carico di emozione, diverso da quello manageriale e tecnocratico che aveva caratterizzato il discorso pubblico dei liberal. Egli mostrò che la politica progressista poteva parlare un linguaggio ispirato a propositi morali e spirituali.

Tuttavia, l’energia morale e l’idealismo civico che Obama aveva trasmesso come candidato sono sfumati durante la sua presidenza. Assumendo la carica nel bel mezzo della crisi finanziaria, Obama nominò gli stessi consiglieri economici che avevano incoraggiato la deregolamentazione del settore finanziario durante gli anni di Clinton. Sotto la loro influenza, salvò le banche sollevandole dalla responsabilità di aver provocato la crisi, mentre offrì pochi aiuti a quanti avevano perso la casa.

Messa a tacere la sua carica morale, Obama placò anziché interpretare la rabbia che ribolliva tra l’opinione pubblica nei confronti di Wall Street. La rabbia persistente per il salvataggio delle banche con i fondi pubblici gettò un’ombra sulla presidenza Obama e alimentò un malumore incline alla protesta populista, che attraversò l’intero spettro politico: a sinistra, con l’Occupy Movement e la candidatura di Bernie Sanders; a destra, con il movimento del Tea Party e l’elezione di Trump.

La rivolta populista negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Europa è stata una reazione contro le élite in generale, ma le sue vittime più evidenti sono stati i partiti liberal e di centro-sinistra: il Partito democratico negli Stati Uniti, il Partito laburista in Gran Bretagna, il Partito socialdemocratico in Germania (la cui percentuale di voti nelle elezioni federali del 2017 fece segnare un minimo storico), il Partito democratico italiano (sceso al di sotto dei 20 punti percentuali) e il Partito socialista in Francia (che al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017 prese solo il 6 per cento dei voti).

Questi partiti, prima che possano ambire a riconquistare il sostegno pubblico, devono rivedere il proprio modo tecnocratico e orientato al mercato di approcciarsi al governo. Devono inoltre riflettere su un elemento più impercettibile ma altrettanto importante: l’atteggiamento verso il successo e il fallimento, che ha accompagnato la crescita della disuguaglianza negli ultimi decenni. Devono domandarsi perché coloro che non hanno avuto successo con la new economy si sentano giudicati con disprezzo dai vincitori.

La retorica dell’ascesa

Che cosa dunque ha scatenato il risentimento di molti elettori delle classi lavoratrici e della classe media contro le élite? La risposta parte dalla crescente disuguaglianza degli ultimi decenni, ma non si ferma qui. Ha a che fare, alla fin fine, con il mutamento in atto dei termini del riconoscimento e della stima sociali.

L’era della globalizzazione ha elargito le sue ricompense in modo a dir poco non uniforme. A partire dagli anni Settanta, negli Stati Uniti la maggior parte degli aumenti di reddito ha interessato il 10 per cento più ricco del Paese, mentre la metà dei più poveri non ha in pratica ricevuto nulla. In termini reali, il reddito mediano dei lavoratori, pari a 36.000 dollari, è più basso rispetto a quarant’anni fa. Oggi, l’1 per cento più ricco degli americani guadagna più della metà più povera del Paese.

Ma anche questa esplosione di disuguaglianza non è la fonte primaria della rabbia populista. Gli americani hanno tollerato a lungo le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, nella convinzione che, qualunque fosse il punto di partenza nella vita, sarebbe stato possibile passare dalla povertà alla ricchezza. Questa fede nella possibilità di una mobilità sociale verso l’alto è al cuore del sogno americano.

In linea con questa fede, i politici e i partiti mainstream hanno risposto alla crescente disuguaglianza invocando una maggiore uguaglianza di opportunità, mediante la riqualificazione professionale dei lavoratori che hanno perso il lavoro a causa della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica; il miglioramento dell’accesso all’istruzione superiore e la rimozione delle barriere di razza, etnia e genere.

Questa retorica delle opportunità è riassunta nella massima secondo cui coloro che lavorano sodo e giocano rispettando le regole possono salire “fin dove li porterà il loro talento”.

Negli ultimi anni, i politici dei due principali partiti tradizionali hanno ripetuto questa massima fino alla noia. Tutti quanti l’hanno invocata, da Ronald Reagan, George W. Bush e Marco Rubio tra i Repubblicani a Bill Clinton, Barack Obama e Hillary Clinton tra i Democratici. Obama si era affezionato a una variazione sul tema, ispirata a una canzone popolare: “You can make it if you try” (“Se ci provi, puoi farcela”). Durante la sua presidenza, usò questa frase in dichiarazioni e discorsi pubblici più di 140 volte.

Ma ora la retorica dell’ascesa suona falsa. Nel sistema economico odierno, non è facile emergere. Gli americani nati da genitori poveri tendono a rimanere poveri da adulti. Tra coloro che sono nati nell’ultimo quintile della scala reddituale, all’incirca soltanto uno su venti salirà nel primo quintile; la maggior parte non raggiungerà neppure la fascia della classe media. È più facile uscire dalla povertà in Canada o in Germania, in Danimarca e in altri Paesi europei che negli Stati Uniti.

Ciò contrasta con la fede nel fatto che la mobilità sociale sia la risposta alla disuguaglianza in America. Gli Stati Uniti, siamo soliti raccontarci, possono permettersi di preoccuparsi meno della disuguaglianza rispetto alle società classiste dell’Europa, perché qui da noi l’ascesa sociale è possibile. Il 70 per cento degli americani crede che i poveri possano affrancarsi dalla povertà grazie alle proprie forze, mentre la pensa così soltanto il 35 per cento degli europei. Questa fede nella mobilità sociale potrebbe spiegare perché il welfare degli Stati Uniti sia meno generoso rispetto a quello della maggior parte dei Paesi europei.

Tuttavia, oggi i Paesi con la più alta mobilità sociale tendono a essere quelli con la più grande uguaglianza. La capacità di emergere sembra dipendere meno dallo sprone della povertà e più dall’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e alle altre risorse che dotano le persone dei mezzi per avere successo nel mondo del lavoro.

Negli ultimi decenni l’esplosione della disuguaglianza non ha accelerato la mobilità sociale verso l’alto ma, al contrario, ha dato modo a quanti stanno in cima di consolidare i propri vantaggi e di trasmetterli ai propri figli. Negli ultimi cinquant’anni, i college e le università d’élite hanno abbattuto le barriere di razza, religione, genere ed etnia che in passato riservavano l’ammissione ai figli dei privilegiati. Lo Scholastic Aptitude Test (sat) nacque con la promessa di ammettere gli studenti sulla base del merito accademico anziché del pedigree di classe e di famiglia. Nonostante ciò, la meritocrazia odierna si è rafforzata come un’aristocrazia ereditaria.

Due terzi degli studenti di Harvard e Stanford provengono dal primo quintile della scala reddituale. Nonostante le generose politiche di sostegno finanziario, poco meno del 4 per cento degli studenti della Ivy League proviene dall’ultimo quintile della scala reddituale. A Harvard e in altri college della Ivy League, sono più gli studenti appartenenti all’1 per cento delle famiglie ai vertici della scala reddituale (quelle con un reddito superiore a 630.000 dollari all’anno) rispetto agli studenti che vengono da tutte le famiglie della metà più bassa nella distribuzione del reddito.

La fede americana secondo cui, con il duro lavoro e il talento, ciascuno può emergere non si adatta più alla realtà dei fatti. Ciò potrebbe spiegare perché la retorica dell’opportunità non riesce più a essere motivante, come lo è stata in passato. La mobilità sociale non può più fare da compensazione alla disuguaglianza. Qualsiasi risposta seria al divario tra ricchi e poveri deve fare i conti direttamente con le disuguaglianze di potere e di ricchezza, anziché accontentarsi del progetto di aiutare le persone ad arrampicarsi su una scala i cui gradini sono sempre più alti.

L’etica meritocratica

Il problema con la meritocrazia non ha a che fare soltanto con il fatto che la pratica non soddisfa appieno l’ideale. Se il problema fosse questo, la soluzione consisterebbe nel perfezionare l’uguaglianza di opportunità e nel realizzare una società in cui le persone possono, quale che sia il loro punto di partenza nella vita, salire davvero fin dove le portano i propri sforzi e i propri talenti. Si può però dubitare che persino una meritocrazia perfetta sia soddisfacente dal punto di vista morale o politico.

Dal punto di vista morale, non è chiaro perché i talentuosi meritino le ricompense spropositate che le società guidate dal mercato elargiscono a quanti hanno successo. Centrale nel caso dell’etica meritocratica è l’idea che non meritiamo di essere ricompensati, o di essere tenuti indietro, sulla base di fattori al di fuori del nostro controllo. Ma avere (o non avere) certi talenti è davvero agire nostro? Se non lo è, è difficile comprendere perché quanti emergono grazie al proprio talento meritino ricompense più ingenti rispetto a quanti possono essere altrettanto laboriosi, ma sono meno dotati delle doti che a una società di mercato capita di premiare.

Coloro che inneggiano all’ideale meritocratico e ne fanno il centro del proprio progetto politico non tengono conto di tale questione morale. Essi ignorano anche qualcosa di politicamente più potente: gli atteggiamenti moralmente poco attraenti che l’etica meritocratica promuove, tra i vincitori così come tra i perdenti. Tra i vincitori, produce tracotanza; tra i perdenti, umiliazione e risentimento. Questi sentimenti morali sono al cuore della rivolta populista contro le élite. Più che essere una protesta contro gli immigrati e la delocalizzazione, la rimostranza populista riguarda la tirannia del merito. Ed è una rimostranza giustificata.

La continua enfasi sulla creazione di un’equa meritocrazia, in cui le posizioni sociali riflettono lo sforzo e il talento, ha un effetto corrosivo sul modo in cui interpretiamo il nostro successo (o la sua mancanza). L’idea che il sistema premi il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo come il risultato delle proprie azioni, una misura della propria virtù, e a guardare dall’alto in basso quanti sono meno fortunati di loro.

La tracotanza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a godere troppo del proprio successo, dimenticandosi della fortuna e della buona sorte che li ha aiutati nel proprio cammino. Quanti stanno ai vertici si compiacciono di essersi meritati il proprio destino, così come sono convinti che quanti stanno in basso si sono meritati il loro. Questo atteggiamento è il compagno morale della politica tecnocratica.

La percezione viva della contingenza del nostro destino porta a una buona dose di umiltà: “Se non fosse per la grazia di Dio o per accidente della sorte, sarei io al suo posto”. Ma una meritocrazia perfetta bandisce qualsiasi concezione di dono o grazia e inibisce l’attitudine a considerare noi stessi parte di un destino comune, lasciando poco spazio alla solidarietà, che potrebbe sorgere nel momento in cui riflettiamo sulla precarietà del nostro talento e delle nostre fortune. Questo è ciò che fa del merito una sorta di tirannia o una regola ingiusta.

La politica dell’umiliazione

Vista dal basso, la tracotanza delle élite è irritante. A nessuno piace esser guardato dall’alto al basso. Ma la fede meritocratica aggiunge al danno la beffa. L’idea che il destino sia nelle tue mani, che “se ci provi, puoi farcela”, è un’arma a doppio taglio, che da una parte può ispirare ma dall’altra può generare invidia. Ci si congratula con i vincitori ma si denigrano i perdenti, anche ai loro stessi occhi. Per coloro che non riescono a trovare lavoro o a sbarcare il lunario, risulta difficile sfuggire al pensiero demoralizzante di essere la causa del proprio fallimento, di non avere il talento e la grinta per ottenere successo.

La politica dell’umiliazione si differenzia dalla politica dell’ingiustizia in questo aspetto. La protesta contro l’ingiustizia è rivolta verso l’esterno: accusa il sistema di essere truccato e i vincenti di aver raggiunto i vertici con inganni o manipolazioni. La protesta contro l’umiliazione è più articolata dal punto di vista psicologico. Combina il risentimento nei confronti dei vincenti con un assillante dubbio nei confronti di se stessi: forse i ricchi sono ricchi perché più meritevoli dei poveri e forse, alla fin fine, i perdenti sono complici delle proprie sfortune.

Questa caratteristica trasforma la politica dell’umiliazione in un sentimento più esplosivo di altri, in un potente elemento di quella sostanza volatile composta di rabbia e risentimento che alimenta la protesta populista. Donald Trump, pur essendo un miliardario, ha capito e sfruttato questo risentimento. Diversamente da Barack Obama e Hillary Clinton, che parlavano in continuazione di “opportunità”, Trump non ha fatto quasi mai accenno a questa parola e ha parlato invece schiettamente di vincitori e perdenti (è interessante che anche Bernie Sanders, un populista socialdemocratico, parli raramente di opportunità e mobilità sociale, concentrandosi invece sulle disuguaglianze di potere e di ricchezza).

Le élite hanno così tanto valorizzato la laurea – come una strada per l’avanzamento e come la base per la stima sociale – da non capire che la meritocrazia può generare tracotanza e giudizi sprezzanti nei confronti di coloro che non avevano frequentato il college. Questi atteggiamenti sono al centro della reazione populista e della vittoria di Trump.

Quella tra laureati e non laureati è tra le fratture politiche più profonde oggi in America. Alle elezioni del 2016, Trump ottenne i due terzi dei voti degli elettori bianchi non laureati, mentre Hillary Clinton conquistò in modo netto il voto degli elettori con diplomi post-laurea. Una frattura simile si manifestò al referendum sulla Brexit in Gran Bretagna. Gli elettori senza istruzione universitaria votarono in modo schiacciante a favore della Brexit, mentre la stragrande maggioranza degli elettori con un titolo post-laurea votò contro.

Riflettendo un anno e mezzo dopo sulla sua campagna presidenziale, Hillary Clinton spiegò come la tracotanza meritocratica abbia contribuito alla sua sconfitta. “Ho vinto nelle zone del Paese che rappresentano i due terzi del Prodotto interno lordo americano,” disse a una conferenza del 2018 a Mumbai, in India, “ovvero in quelle zone che esprimono ottimismo, diversità e dinamicità e che guardano avanti.” Al contrario, Trump trovò sostegno fra coloro ai quali “non piace che le persone di colore abbiano diritti” e ai quali “non piace che… le donne ottengano posti di lavoro”. Hillary Clinton pescò i voti dei vincitori della globalizzazione, Trump quelli dei perdenti.

In passato il Partito democratico aveva rappresentato gli agricoltori e gli operai contro i privilegiati. Adesso, nell’era della meritocrazia, la sua portabandiera sconfitta si vantava del fatto che la parte benestante e illuminata del Paese avesse votato per lei.

Donald Trump era molto sensibile alla politica dell’umiliazione. Dal punto di vista dell’equità economica, il suo populismo era fasullo, una sorta di populismo plutocratico. Propose un piano per la sanità che avrebbe tagliato l’assistenza sanitaria a molti dei suoi sostenitori appartenenti alle classi operaie ed emanò una legge fiscale piena di tagli alle imposte per i ricchi. Ma focalizzarsi soltanto sull’ipocrisia non permette di capire la cosa più importante.

Quando firmò l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul cambiamento climatico, Trump argomentò, in modo poco plausibile, che lo stava facendo per proteggere i posti di lavoro in America. Ma il significato vero della sua decisione, la sua ratio politica, stava in un’affermazione soltanto in apparenza casuale: “Quand’è che l’America viene sottovalutata? Quand’è che cominciano a deriderci come Paese?… Noi non vogliamo che altri leader e altri Paesi ridano ancora di noi”.

Sollevare gli Stati Uniti dai presunti fardelli dell’accordo sul cambiamento climatico in realtà non aveva a che fare con l’occupazione o con il riscaldamento globale. Aveva a che fare, nell’immaginario politico di Trump, con l’evitare l’umiliazione. Ciò ebbe un forte impatto sugli elettori di Trump, anche su quelli a cui importava il cambiamento climatico.

Merito tecnocratico e giudizio morale

Di per sé, l’idea che i meritevoli dovrebbero governare non è tipica della nostra epoca. Nell’antico Oriente, Confucio insegnava che dovevano governare quanti eccellessero in virtù e capacità. Nell’antica Grecia, Platone immaginò una società retta da un re filosofo, sostenuto da una classe di guerrieri animata da senso civico. Anche Aristotele, pur respingendo l’idea del re filosofo di Platone, sosteneva che i meritevoli dovessero esercitare la maggiore influenza negli affari pubblici. Per lui, il merito maggiore al fine di governare non era né la ricchezza né le nobili origini, bensì l’eccellenza nella virtù civica e nella phronesis, la saggezza pratica per ben ragionare sul bene comune.

“Uomini di merito” fu il nome che si diedero i padri fondatori della Repubblica americana, confidando che altre persone come loro, virtuose e sapienti, fossero elette nelle cariche pubbliche. Si opponevano all’aristocrazia ereditaria, ma non erano attratti dalla democrazia diretta, che temevano potesse portare al potere i demagoghi. Cercarono di progettare istituzioni, come l’elezione indiretta del Senato degli Stati Uniti e del presidente, che permettessero ai meritevoli di governare. Thomas Jefferson privilegiò una “aristocrazia naturale” basata su “virtù e talento” anziché una “aristocrazia artificiale fondata sulla ricchezza e sulla nascita”. Scrisse: “Questa forma di governo è la migliore” perché crea le condizioni per “una selezione pura di questi aristoi naturali alle cariche governative”.

Nonostante le differenze, tali versioni classiche della meritocrazia politica – da quella confuciana e di Platone fino alla repubblicana – condividono l’idea che i meriti pertinenti per governare includano le virtù morali e civiche. Questo perché tutti concordano sul fatto che il bene comune consiste, almeno in parte, nell’educazione morale dei cittadini.

La nostra versione tecnocratica della meritocrazia spezza il legame tra merito e giudizio morale. Nel campo dell’economia, postula semplicemente che il bene comune sia definito dal PIL e che il valore del contributo delle persone consista nel valore di mercato dei beni o servizi che vendono. Nel campo del governo, postula che merito significhi competenza tecnocratica.

Possiamo rintracciare tutto ciò nel ruolo crescente degli economisti come consiglieri politici, nella sempre maggiore dipendenza dai meccanismi di mercato nel definire e realizzare il bene comune, e nel fallimento del discorso pubblico nell’affrontare i grandi interrogativi morali e civili che dovrebbero essere al centro del dibattito politico: che cosa dovremmo fare di fronte all’aumento della disuguaglianza? Qual è il significato morale dei confini nazionali? Che cosa fare per la dignità del lavoro? Che cosa ci dobbiamo l’un l’altro, come cittadini?

Questa ristretta visione morale nel concepire il merito e il bene pubblico ha indebolito le società democratiche in vari modi. Il primo è il più ovvio: negli ultimi quarant’anni, le élite meritocratiche non hanno governato molto bene. Fecero meglio le élite che governarono negli Stati Uniti dal 1940 al 1980. Vinsero la Seconda guerra mondiale, contribuirono a ricostruire l’Europa e il Giappone, rafforzarono il welfare state, abolirono la segregazione razziale e guidarono per quattro decenni la crescita economica, di cui beneficiarono indistintamente ricchi e poveri. Al contrario, le élite che hanno governato fino a oggi ci hanno portato quattro decenni di salari bloccati per gran parte dei lavoratori, disuguaglianze di reddito e di ricchezza mai viste dagli anni venti del secolo scorso, la guerra in Iraq, diciannove anni di guerra inconcludente in Afghanistan, la deregolamentazione della finanza, la crisi finanziaria del 2008, infrastrutture in decadimento, il più alto tasso di carcerazioni nel mondo e un sistema di finanziamento delle campagne elettorali e di manipolazione dei collegi elettorali che si fa beffe della democrazia.

Il merito tecnocratico non soltanto ha fallito come modalità di governo, ma ha ristretto anche il progetto civico. Oggi, il bene comune è inteso principalmente in termini economici. Non si tratta tanto di coltivare la solidarietà o di approfondire i legami di cittadinanza, quanto di soddisfare le preferenze dei consumatori come vengono individuate dal Prodotto interno lordo. Il che porta a un impoverimento del discorso pubblico.

Quelli che oggi vengono fatti passare come dibattiti politici non sono altro che discorsi riduttivi, manageriali e tecnocratici, che non ispirano nessuno; oppure sono baruffe tra fazioni che si parlano l’una sull’altra senza che nessuno ascolti veramente. Questo discorso politico privo di contenuti provoca nei cittadini, qualunque sia il loro schieramento politico, un senso di frustrazione e di perdita di potere. Percepiscono, giustamente, che la mancanza di un solido dibattito pubblico non significa che non vengano prese decisioni politiche. Significa semplicemente che vengono prese altrove, dietro le quinte: dalle agenzie amministrative (sovente pilotate dalle aziende che regolamentano); dalle banche centrali e dai mercati obbligazionari, dalle lobby aziendali che, attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali, comprano influenza presso i funzionari pubblici.

Ma non è tutto. Oltre a svuotare di significati il discorso pubblico, il regno del merito tecnocratico ha ridefinito i termini del riconoscimento sociale, in modi che aumentano il prestigio delle classi professionali dotate di credenziali e svalutano il contributo di gran parte dei lavoratori, con un effetto erosivo sulla loro posizione e stima sociale. È questo l’aspetto del merito tecnocratico che in modo più diretto ha portato alla rabbia e alla polarizzazione in politica della nostra epoca.

La rivolta populista

Sessant’anni fa un sociologo inglese, Michael Young, previde la tracotanza e il risentimento a cui la meritocrazia ha dato origine. Fu lui a coniare il termine. In un libro del 1958 intitolato L’avvento della meritocrazia, Young si chiedeva che cosa succederebbe se a un certo punto le barriere sociali crollassero e se tutti avessero davvero un’uguale opportunità di avanzare, grazie unicamente al proprio merito.

Per un verso, sarebbe un evento da festeggiare; i figli delle classi lavoratrici potrebbero finalmente competere in modo equo, fianco a fianco con i figli dei privilegiati. Ma non sarebbe, pensava Young, un trionfo assoluto, perché sarebbe destinato ad alimentare la tracotanza fra i vincitori e l’umiliazione fra i perdenti. I vincitori considererebbero il proprio successo una “giusta ricompensa della loro capacità, dei loro sforzi e delle loro innegabili conquiste” e, di conseguenza, guarderebbero dall’alto in basso quanti hanno meno successo di loro. Coloro che non riuscissero a emergere sentirebbero di non avere da biasimare nessun altro se non se stessi.

Intravide, decenni or sono, la crudele logica meritocratica che oggi avvelena la nostra politica e fomenta la rabbia populista. Per quanti si sentono danneggiati dalla tirannia del merito, il problema non sta soltanto nei salari bloccati, ma anche nella perdita di stima sociale. Per Young la meritocrazia non era un ideale a cui ambire, ma una ricetta per la discordia sociale.

La perdita di posti di lavoro dovuta alla tecnologia e alla delocalizzazione ha coinciso con la percezione che la società riservi poco rispetto per il tipo di lavoro svolto dalle classi lavoratrici. Siccome l’attività economica si è spostata dalla produzione di beni alla gestione del denaro e la società ha elargito ricompense spropositate ai manager degli hedge fund, ai banchieri di Wall Street e alle classi professionali, la stima accordata al lavoro nel senso tradizionale si è fatta fragile e incerta.

I partiti mainstream e le élite non colgono questa dimensione della politica. Pensano che il problema con la globalizzazione guidata dal mercato sia semplicemente una questione di giustizia distributiva; pensano cioè che quanti hanno guadagnato dal commercio globale, dalle nuove tecnologie e dalla finanziarizzazione dell’economia non abbiano risarcito in modo adeguato quanti hanno invece subìto delle perdite.

Questo modo di pensare fraintende però la protesta populista, così come rende evidente un difetto nell’approccio tecnocratico al governo. Condurre il nostro discorso pubblico come se fosse possibile esternalizzare il giudizio morale e politico ai mercati, o agli esperti e ai tecnocrati, ha svuotato la discussione democratica di significato e di finalità. Questi vuoti di significato pubblico vengono riempiti immancabilmente da espressioni aspre e autoritarie di identità e di appartenenza, siano esse sotto forma di fondamentalismo religioso o di stridente nazionalismo.

È a questo che stiamo assistendo oggi. Quarant’anni di globalizzazione guidata dal mercato hanno svuotato il discorso pubblico, tolto potere ai cittadini comuni e provocato una reazione populista che cerca di rivestire la denudata piazza pubblica con un nazionalismo intollerante e vendicativo.

Per rinvigorire la politica democratica, occorre che troviamo la nostra strada in direzione di un discorso pubblico più solido, che prenda in seria considerazione l’effetto corrosivo della lotta meritocratica sui legami sociali, che costituiscono la nostra vita in comune.

Dal libro di Michael J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2021.

© 2020 Michael J. Sandel © 2021 Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano

Michael J. Sandel è professore di Filosofia politica e Teoria del governo alla Harvard University. Spesso ospite di università in Europa (tra cui Oxford e la Sorbona) e in Asia. La sua ricerca è rivolta alla filosofia morale e politica.

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