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ARTICOLO | Tema di “Atlantide” n. 5 (2006)

Il welfare in una società post-hobbesiana

  • LUG 2006
  • Pierpaolo Donati

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Lo Stato moderno e il suo sistema di welfare nascono dalla soluzione hobbesiana dell’ordine sociale. Questa soluzione ha esaurito la sua spinta, divenendo patogena. Un nuovo sistema di welfare può dunque emergere solo dalla ricerca di un’alternativa alla soluzione hobbesiana

Inoltre, Le Misure Di Welfare Non Possono Più Essere Eticamente Indifferenti O Neutre, Ma Devono Diventare Eticamente Qualificate: Il Fine Etico Deve Essere Introdotto Nella Funzione-Obiettivo Delle Azioni Di Welfare, Sia Per Quanto Riguarda Gli Aspetti Economici, Sia Per Quanto Riguarda Quelli Socio-Relazionali. Una Tale Modificazione Delle Basi Culturali E Normative Del Welfare Non Può Essere Gestita Da Un Nuovo Leviatano, Che Per Sua Natura Assolve Solo Funzioni Di Integrazione Sistemica (Cioè Organizza Le Istituzioni In Forma Di “Macchina”). Occorre Una Configurazione Capace Di Mettere In Sinergia L’Integrazione Sistemica Con Quella Sociale (Che È Quella Delle Relazioni Del Mondo Vitale). Occorre Dunque Una Governance Ispirata Al Principio Di Sussidiarietà.

La soluzione hobbesiana del benessere
La soluzione hobbesiana del benessere La sensazione che oggi si va diffondendo nei Paesi occidentali, in particolare in Europa, e in specifico in Italia, è quella di un generale peggioramento delle condizioni di vita. L’impressione è che si vada verso una situazione in cui il benessere (welfare) della popolazione sarà sempre più a rischio. Questa percezione è confermata in buona misura dai dati di fatto. Il benessere raggiunto alla fine del Novecento, sia quello reale sia quello “drogato” attraverso l’aumento del debito pubblico, è sotto scacco. Una quantità impressionante di fattori preannuncia tempi duri per le future generazioni. A parte la carenza di lavoro e di risorse primarie, i sistemi assistenziali, sanitari, previdenziali e di sicurezza sociale creati nel secondo dopoguerra appaiono sempre più insostenibili nella forma in cui sono stati disegnati. Una serie di fattori strutturali sta alla base di un prevedibile peggioramento delle condizioni di vita. Tali fattori hanno a che fare non solo con le ricorrenti crisi economiche, ma soprattutto con i cambiamenti demografici (il rapido invecchiamento della popolazione autoctona, la bassa natalità, la frammentazione della famiglia) che portano con sé una crisi radicale del vecchio modello istituzionale di welfare, e poi con i processi di immigrazione che, per quanto rappresentino una risorsa necessaria, nel breve e medio periodo comportano rischi elevati di nuove guerre fra poveri. Si sta diffondendo un clima caratterizzato da incertezze, ansie, disorientamenti, e conseguenti nervosismo e aggressività, che, per quanto sia avvertito più da certe categorie sociali che da altre, si allarga a tutta la popolazione. I giovani non hanno davanti a sé prospettive di vita decente; gli anziani vedono messe a repentaglio le sicurezze di una vecchiaia tranquilla. Anche il semplice girare a piedi per strada è diventato un problema; gran parte delle sicurezze di ieri crollano. Il moderno welfare state sembra essere finito in un vicolo cieco, e non basta certo la retorica del “modello sociale europeo” a dissipare le nebbie. L’Europa è una fortezza assediata da popolazioni povere che premono ai suoi confini, e ormai anche al suo interno. Le minacce del terrorismo e il confronto con altre società e civilizzazioni ne mettono in forse il ruolo di leader mondiale. Debolezza interna e pressioni esterne portano necessariamente a una situazione di precarietà e malessere per quote crescenti di popolazione, in cui ciascuno cercherà di lottare per ottenere il proprio benessere a discapito degli altri. Che cosa succederà se il secolo XXI sarà un secolo di grandi paure? Un numero crescente di studiosi paventa una possibile “nuova barbarie”. Alcuni parlano di un ritorno alle origini dell’umanità, nel senso di un ritorno allo “stato selvaggio”. Molti pensano alla nostra situazione paragonandola a quella che esisteva in Europa verso la metà del Seicento, quando gli Stati europei erano teatro di cruente guerre di religione che la devastavano. Un clima di lotta di tutti contro tutti affliggeva le popolazioni e ne minacciava il relativo benessere. Thomas Hobbes (1588-1679) teorizzò che questa situazione (bellum omnium contra omnes) doveva essere intesa come lo “stato di natura” proprio dell’uomo, il quale, a suo avviso, è in origine «un lupo per l’altro uomo» («la condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro»). Che fare? Hobbes propose una soluzione che ha in qualche modo guidato la nascente Europa moderna nel far fronte alle guerre civili, alle paure e alle incertezze diffuse. Benché molti altri autori dei secoli XVII e XVIII abbiano contribuito in vari modi a tale soluzione, l’idea è questa: immaginare che fra i belligeranti si stipuli un contratto per delegare il potere a un’autorità, il Leviatano, al quale conferire il monopolio della forza (fisica e legale), e di altri poteri ancora, ove necessari, così da garantire le libertà individuali e la pace sociale, in breve il benessere di tutti.

In questa sede non posso certamente entrare nel merito del pensiero di Hobbes, a riguardo del quale sono state scritte intere biblioteche1. Mi limito, per così dire, a “stilizzare” dal punto di vista sociologico quella che chiamerò la “soluzione hobbesiana al problema dell’ordine sociale”.
La soluzione dice così: siccome gli uomini tendono per loro natura a regredire a una condizione di vita in cui valgono solo la forza e la frode, occorre che “Qualcuno” (con la Q maiuscola) detti loro delle regole, e li faccia passare dallo stato di natura allo stato civile. Nella sua formulazione più astratta: l’utilitarismo degli individui umani genera problemi di sicurezza (conflitti sociali) che possono essere risolti solo mediante un contratto (che ha due momenti: un pactum unionis e un pactum subiectionis) in cui ciascuno aliena le proprie prerogative a un Potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà altrui. In questo paradigma, la società civile e la società politica coincidono, in quanto si costituiscono entrambe nella fuoriuscita dallo “stato di natura”, supposto per definizione “barbaro”. Il Qualcuno di cui si parla è il Leviatano, che, ai tempi di Hobbes coincideva con il Monarca assoluto, ma è diventato in seguito suscettibile di metamorfosi. Di fatto, si è presto trasformato nella “Repubblica”di marca giacobina. Oggi, potrebbe assumere nuove forme. La sua legittimità si basa sul fatto che tutti i suoi appartenenti (sudditi o cittadini) – pur essendo liberi ed uguali – gli si sottomettono mediante un contratto (pactum unionis et subiectionis) che diventa vincolante per tutti.
Tale soluzione ha precisi presupposti (innanzitutto una visione antropologica di tipo materialistico, utilitaristico e individualistico) e comporta certe conseguenze (una generale alienazione al potere politico), che non posso qui discutere. Basterà ricordare il fatto che lo Stato-padrone di Hobbes segna la rottura definitiva con il mondo comunitario e plurale del medioevo (il Corpus Christianum). Si fonda sull’interesse degli individui, quindi sul calcolo, e sta alla base del carattere tipicamente “borghese” della modernità. Questa soluzione ha retto l’ordine sociale della modernità, nonostante le numerose critiche, fra cui quelle di Spinoza (secondo il quale la soluzione hobbesiana rappresenta solo un “cessate il fuoco”) e di Kant (che vagheggiava un ordine normativo di cittadinanza universale). Gli Stati-nazione hanno costruito le loro costituzioni politiche, gli ordinamenti giuridici e i sistemi di welfare sulla base della soluzione hobbesiana. In apparenza, questa è ancora la soluzione vincente. Seppure abbia assunto forme diverse sulle due sponde dell’Atlantico e nonostante abbia generato soluzioni abnormi (le cosiddette “deviazioni autoritarie” del comunismo e del nazifascismo), l’idea della soluzione hobbesiana è stata alla base della costruzione dei sistemi di welfare che indubbiamente hanno migliorato le condizioni di benessere materiale della popolazione. Poiché molti oggi invocano una soluzione, se non proprio uguale, almeno simile a quella di un contratto sociale di tipo hobbesiano, da realizzare eventualmente su scala sovranazionale2, vale la pena di approfondire se veramente tale strada sia percorribile per riformare i sistemi di welfare.

Modernità e welfare: i vari modelli si basano su una soluzione di tipo hobbesiano

Il welfare state è nato in Europa per iniziativa del Sovrano Illuminato.3 Senza voler scomodare le leggi sui poveri di Elisabetta I d’Inghilterra, è a partire dalla Prussia di Federico II che si può parlare di una prima concezione del welfare state in senso moderno (hobbesiano, appunto), cioè come preoccupazione del Sovrano per il benessere della popolazione, nell’assunto che – in assenza di tale preoccupazione – emerga una conflittualità da homo homini lupus. Lo Stato giacobino francese, con le sue costituzioni, ne sarà una versione semplicemente capovolta in senso democratico, cioè sostituendo la Repubblica al Monarca assoluto. Il Leviatano, come ho già detto, è passibile di queste e di ben altre mutazioni. L’importante è che la salvezza (il welfare) venga dall’alto, da un’autorità che sta al di sopra di tutti i consociati. Non a caso i francesi lo chiamano l’Etat-Providence. Certamente il welfare state ha assunto svariate configurazioni. In senso stretto, il moderno welfare state nasce con von Bismarck e il suo modello assicurativo (combattere rischi e insicurezze della vita, per esempio la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, con le assicurazioni sociali obbligatorie). Da esso si origina il cosiddetto modello corporativo del centroEuropa (Germania) che costruisce la protezione sociale collegando il welfare alla posizione lavorativa dell’individuo e, per estensione, alla sua famiglia. L’altro grande modello è quello “keynesiano-beveridgiano” decisamente interventista, sviluppatosi in Gran Bretagna, in Francia e soprattutto nei Paesi scandinavi. Il sistema di welfare italiano si è configurato seguendo il primo modello, anche se strada facendo ha introdotto numerose misure del secondo.
Nel Nord-America, invece, la soluzione hobbesiana ha trovato una formulazione assai diversa, temperata dal fatto che, in origine, il modello americano è più vicino al pensiero liberale che risale a John Locke. Il welfare è pensato innanzitutto come un compito del mercato, rispetto al quale lo Stato è sussidiario nel senso di coprirne e compensarne i fallimenti (oggi lo si chiama “capitalismo compassionevole”). Tuttavia, l’influenza del pensiero europeo e la relativa concezione della cittadinanza (T.H. Marshall) hanno avuto un ruolo che ha modificato a poco a poco questa impostazione originaria. Nella formulazione che ne ha dato Talcott Parsons, il welfare state è pensato come l’espressione politica di una “comunità societaria” (la pluralità di gruppi etnici e culturali) la quale trova la sua integrazione in un sistema normativo di valori basato sull’attivismo strumentale. Il welfare è concepito come compito della società civile, a cui lo Stato dà un sostegno in termini di “individualismo istituzionalizzato”. Ma, per quanto istituzionalizzato, l’individualismo comporta una logica dell’agire sociale che contraddice la logica della relazione con l’Altro, perché l’individualismo istituisce un rapporto di uso dell’altro. In particolare, l’individualismo moderno contraddice la logica del dono e della cura, che invece è costitutiva del benessere propriamente umano.

In apparenza il modello americano non è strettamente hobbesiano, anzi sembrerebbe tutto il contrario. Lo Stato è riluttante a intervenire, al punto che il welfare americano è considerato minimale, arretrato, residuale. In realtà le cose non stanno esattamente così. La differenza fra il modello di welfare europeo e quello americano sta nel fatto che nel caso europeo il welfare discende – per così dire – dall’alto (lo si chiami Stato sociale, Repubblica o altro), mentre nel caso americano è il prodotto del mercato in cui l’utilità è regolata moralmente attraverso una forte integrazione normativa (l’american creed, l’idea di una società massimamente aperta e flessibile, in cui tutti possono avere successo purché siano competenti e razionali), laddove lo Stato ha il ruolo di sorvegliare il mercato affinché gli attori economici rispettino le regole dell’individualismo istituzionalizzato.
Tra i due modelli, nel corso dell’ultimo secolo, c’è stata (ed è tuttora in atto) una certa convergenza. Pur essendo il modello americano molto lontano da quello europeo, la sua convergenza con quest’ultimo inizia dopo la crisi del 1929, quando viene varato il New Deal (che regge ancora la filosofia della social security statunitense). È vero che in Europa, nello stesso periodo, cioè dalla fine degli anni Trenta, Keynes teorizza il welfare state interventista (Titmuss lo chiamerà in seguito “istituzionale”) e Lord Beveridge appronta il grande “Piano della sicurezza sociale” contro la disoccupazione e a favore di un sistema previdenziale di carattere universalistico. Il divario fra le due sponde dell’Atlantico si allarga. Tuttavia è d’altra parte vero che, dopo essere stato in auge per alcuni decenni, il modello keynesiano-beveridgiano è andato in crisi e ha dovuto introdurre misure privatistiche del tipo di quelle contenute nel modello americano. Non potendo entrare nel merito dei vari passaggi storici e dei vari modelli di welfare, mi limito qui a ricordare la configurazione modale del welfare state che emerge da questo lungo processo storico, durato più di un secolo. Esso ha avuto di recente un rilancio sotto l’etichetta della “terza via”.4 Io la chiamo lib-lab in quanto è basata su due pilastri: la competizione di mercato da un lato, e il controllo politico delle disuguaglianze dall’altro. La teorizzazione certamente più conosciuta è quella di Ralph Dahrendorf, non a caso inizialmente socialista e poi divenuto liberale.5 Ma essa è scritta nei documenti ufficiali dell’UE e può essere espressa così: «l’interazione fra le forze del libero mercato e della concorrenza, da un lato, e l’eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini, dall’altro, è il master plan della nuova costruzione europea».6 A mio avviso, il modello europeo e quello nordamericano si sono a poco a poco configurati come due varianti di una medesima soluzione hobbesiana, che io chiamo lib-lab: il modello americano è decisamente più sbilanciato dal lato lib, quello europeo è assai più sbilanciato dal lato lab. Mentre quello europeo è sostanzialmente utilitaristico e materialistico, quello americano è sostanzialmente normativo e volontaristico. I due sistemi sono accomunati dal fatto di immunizzarsi dalle relazioni sociali fra i consociati. Sono hobbesiani perché, per dirla in un altro modo, entrambi proteggono la vita mentre la negano.7 Due sono le figure cardine del pensiero di Hobbes che ritornano nell’assetto lib-lab del welfare: da un lato, l’individuo proprietario (con le sue libertà originarie e alla ricerca del proprio profitto) e, dall’altro, lo Stato (il sovrano come proiezione di tutti i diritti della società). Ciò significa rendere irrilevanti le relazioni fra i consociati, sminuire l’importanza delle comunità e delle formazioni sociali intermedie (anche come soggetti di cittadinanza), limitare il pluralismo sociale, in sintesi svalutare la socialità della persona umana, anche e precisamente come elemento costitutivo del welfare.
In questa configurazione, l’opposizione fra libertà e controllo sociale viene meno a favore di un assetto organizzativo (tipico, appunto del welfare lib-lab) in cui libertà e controllo sono fusi fra loro. Proprio la paura di una situazione del tipo homo homini lupus crea istituzioni di welfare come strutture che centralizzano il comportamento umano intorno alla propria esistenza e ai propri progetti, alimentando in tal modo l’isolamento delle persone, le quali, non potendo più ricorrere alla socialità diretta (troppo rischiosa!), devono affidarsi a una società che intensifica i contatti indiretti, mediati dai centri “istituzionali” di welfare che si prendono cura dell’individuo, organizzano e gestiscono il suo tempo e i suoi spazi, tutta la sua vita, insomma. Questo è il mondo delle istituzioni di welfare mix, le quali sono sempre meno coercitive e sempre più “seducenti” (come aveva ben visto Tocqueville). Esse si fanno concorrenza per assumere sempre più il ruolo di nodi di connessione tra le esistenze individualizzate, pressoché monadiche, delle persone e il loro ambiente sociale, rappresentato come pericoloso (kindynizzato)8 e fonte di paure di vittimizzazione. Siamo di fronte a un modello di welfare che non ha più bisogno di imporre delle scelte all’individuo, che non lo coarta più dall’esterno, ma semplicemente gli pone davanti un ventaglio di opzioni a cui aderire in un modo che si suppone indipendente, finendo così per congiungere libertà e controllo, perché lo spettro delle scelte è controllato dalle istituzioni stesse, a cui l’individuo aderisce come il solo mondo possibile, in assenza di altri mondi possibili.

La crisi dello Stato sociale hobbesiano

La soluzione strettamente hobbesiana del problema del benessere è lontana da noi, ma ha avuto uno sviluppo coerente con le sue premesse e i suoi principi. Il welfare che noi conosciamo si basa sull’idea di un conflitto di interessi fra attori materialistici, utilitaristici e individualistici, che non possono vivere in pace e creare benessere se non si sottomettono al Potere politico (Leviatano). Il Potere non è autoritario, ma, anzi, consente tutte le libertà individuali possibili, a condizione che non vengano pregiudicate le libertà altrui. Questo è il senso dell’affermazione secondo cui il welfare state ha un’origine hobbesiana e viene a poco a poco configurato come compromesso (contratto sociale) fra democrazia politica e mercato capitalistico.9
La crisi di questo modello è stata analizzata in lungo e in largo da una letteratura sterminata, che qui non posso neppure sintetizzare. I paradigmi di crisi sono stati enunciati, di volta in volta, come crisi endemica dei sistemi fiscali, come impossibilità di far fronte alla rivoluzione delle aspettative crescenti di benessere, come assistenzialismo passivizzante. A questi paradigmi oggi dobbiamo aggiungere il fatto che il fenomeno della globalizzazione riduce i poteri degli Stati nazionali, crea nuove povertà e nuove sfide ecologiche che non hanno più confini nazionali. Le stesse relazioni inter-nazionali sono nel pallone, cosicché una soluzione hobbesiana a livello mondiale appare del tutto improbabile. I nuovi rischi e malesseri diffusi, come anche le paure di una guerra di tutti contro tutti, vengono di solito imputati al capitalismo selvaggio. Non si pensa neppure che possano essere imputati allo Stato hobbesiano. Anzi, la tendenza è quella di chiedere “regole” in chiave hobbesiana, senza vedere che proprio questa soluzione favorisce lo stato di paura. Pochi arrivano ad affermare la intrinseca insostenibilità di continuare a ricorrere alla soluzione hobbesiana. In breve, la cultura prevalente ritiene che il modello lib-lab vada riformulato (riformato) con opportuni ribilanciamenti fra le libertà da un lato e i controlli sociali dall’altro, con revisioni nei trade off fra contributi dei singoli cittadini (concepiti come lavoratori, produttori, consumatori) e entitlement di welfare. In breve, con una cittadinanza diversa, più attiva e partecipata, ma sempre di tipo “statuale”. In questa sede, vorrei invece sostenere la tesi che il modello lib-lab di welfare diventa sempre più intrinsecamente insostenibile (il che non significa che sparisca del tutto), qualora sia pensato nei termini della soluzione hobbesiana dell’ordine sociale. Non solo non può affrontare i bisogni emergenti di welfare, ma, anzi, rivela di essere patogeno, in quanto genera i problemi di cui si suppone rappresenti la soluzione. Tanto per esemplificare, vediamone alcuni.
Nell’approccio lib-lab, la società è un intreccio di economico e politico, il resto è irrilevante per la cittadinanza, è sfera “privata”. Ma se tutto ciò che sta fuori dal binomio Statomercato diventa irrilevante agli effetti della cittadinanza, la cittadinanza deperisce. Chi ha detto che realizzare una sempre più piena cittadinanza significhi annullare la rilevanza delle differenze culturali (ovvero di identità) che nascono fuori dal mercato e dal politico? La crisi odierna della cittadinanza dello Statonazione è dovuta proprio a quelle iniziative che hanno pensato di poter rendere tali identità irrilevanti per la sfera politica. - Per il lib-lab, non esiste un’alternativa alla combinazione di libertà individuali e di controllo sistemico-collettivo. Ma, proprio per il suo modo di funzionare, il dispositivo costituito dalla coppia lib-lab genera enormi problemi sociali che derivano dalla rimozione e dalla distorsione delle relazioni intersoggettive, come è evidente nelle cosiddette “patologie della modernità”. - Nell’approccio lib-lab, la cittadinanza è per definizione incondizionata. Una delle conseguenze è che i doveri non sono affatto chiariti. È evidente che, in generale, ci sono doveri (per esempio pagare le tasse), ma i doveri non hanno relazioni strutturate con i diritti e possono anche venire meno (per esempio, per certi gruppi di persone marginali, che si suppone non possano dare nulla alla società). In questa impostazione, proprio il fatto di considerare la cittadinanza come un puro e semplice conferimento di status, comporta che coloro i quali si trovano in condizioni socialmente deboli e marginali vengano confermati in una posizione considerata incapace di scambi socialmente rilevanti. Una cittadinanza intesa e praticata per definizione come intitolazione senza condizioni solleva il problema della mancanza di reciprocità nelle aspettative e nei comportamenti che intercorrono fra individui e Stato, come fra gli stessi soggetti della cittadinanza. La cittadinanza non si può reggere sull’assistenzialismo, né può essere fondata sull’individualismo. L’epoca che identificava cittadinanza con Stato assistenziale volge comunque al tramonto. Ci sono mille ragioni per cui la soluzione hobbesiana diventa improponibile. Esse sono di ordine politico,10 culturale, economico e sociale. Ma non posso qui soffermarmi oltre.11

Quale alternativa ai sistemi lib-lab di welfare? Lo scenario post-hobbesiano

La società diventa post-hobbesiana per due grandi ordini di ragioni. La prima è che con i processi di globalizzazione, non è più possibile ricorrere a un’autorità come quella del Leviatano per mettere ordine nella società; il grado di complessità è troppo elevato, e d’altra parte la complessità non può essere ridotta in modo esterno e coercitivo nei confronti degli individui; la riduzione della complessità deve aprire nuove possibilità (altri mondi), non chiuderle. In secondo luogo emerge una società civile che non è certamente quella del Seicento: gli individui sono più consapevoli del carattere inalienabile dei loro diritti fondamentali, sono mediamente più informati (e tutto questo grazie alla crescita della cittadinanza moderna), e soprattutto attivano reti organizzate per risolvere autonomamente i loro problemi, reti che non necessitano di un government (potere vincolante) ma di una governance (coordinamento aperto); inoltre, l’espansione del terzo settore e del privato sociale modifica radicalmente la relazione fra Stato e mercato. Le alternative al paradigma hobbesiano debbono partire dai suoi deficit. Per quanto io possa vedere, i nodi del modello hobbesiano, sia nella versione materialistico-utilitaristica europea sia nella versione normativo-volontarista nordamericana, possono essere sintetizzati come segue. - Il welfare non può essere costruito su una visione antropologica negativa come quella hobbesiana. Un’altra modernità, quella della visione positiva dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti, si sta affacciando all’orizzonte come soluzione alternativa. Se partiamo dall’idea che l’uomo sia una bestia, costruiremo un welfare da bestie. Se partiamo dall’idea che l’uomo sia un essere ferito e debole, ma intrinsecamente capace di comportamenti altruistici, solidali o almeno non auto-interessati, ovvero di “scambi umani”, allora possiamo costruire un welfare dal volto umano. Un’antropologia negativa porta a dispiegare dinamiche negative, una positiva porta a suscitare e alimentare (empowerment) le migliori capacità umane. Anche chi ricorre alla forza e alla frode può essere stimolato a diventare cooperativo e onesto, non perché si sottomette a un padrone o a un sistema, ma perché viene considerato potenzialmente capace di cooperazione e di onestà. Il povero è una risorsa, ma non come vuole il padrone. - Il welfare non può più essere costruito sulla base della distinzione moderna (hobbesiana) fra pubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus). La sfida diventa quella dei “servizi di interesse generale” (s.i.g.), su cui l’Unione Europea ha posto l’attenzione in vista di una nuova normativa con la quale aprire uno scenario di servizi di welfare che sono da considerare “pubblici” in quanto sono di interesse generale a prescindere dalla natura dell’ente proprietario o erogatore del servizio. - Le identità culturali, incluse quelle religiose, non possono essere “privatizzate”, non possono essere dichiarate irrilevanti per la sfera pubblica, e quindi per il welfare “pubblico”. Il welfare laicista (quello che neutralizza le identità culturali, e in particolare quelle religiose) cade da sé, perché nella vita quotidiana la gente reintroduce spontaneamente i problemi di identità nelle culture del benessere, ne fa una questione di confronto fattuale nella sfera pubblica, prima che nell’ordinamento del diritto. - Il controllo organizzativo centralizzato nelle istituzioni di welfare viene sostituito da reti sociali (originarie e originali), che sono intrecci plurali di relazioni formali e informali, il cui metro di qualità è dato dalla capacità di generare capitale sociale.
È tutta la moderna concezione hobbesiana dell’ordine sociale come compromesso e fusione fra libertà e controlli che crolla. Al suo posto subentra un “ordine societario”, che nasce da un radicale cambiamento delle definizioni di ciò che è pubblico e di ciò che è privato e dalla connessa ripresa della valenza pubblica delle identità culturali, fenomeni che segnano la fine del sogno di poter realizzare nuovi compromessi fra le ideologie lib e lab moderne. Chi tenta di riesumare una visione del welfare come mix di individualismo e olismo metodologico va incontro alle più grosse delusioni.

Linee-guida di un welfare post-hobbesiano: verso un “welfare relazionale”, societario e plurale

I punti di discontinuità forti stanno su due fronti, che contraddicono apertamente la soluzione hobbesiana. Il primo fronte riguarda la definizione di benessere, che non può più essere concepito come puramente materiale, utilitaristico e individuale (dell’individuo proprietario hobbesiano), com’è anche nella soluzione rawlsiana, né può ricorrere a soluzioni normativo-volontaristiche, ma deve farsi relazionale, nel senso che la felicità sta primariamente nelle relazioni e non negli oggetti-merce.12 Il secondo fronte riguarda i contenuti etici delle azioni di welfare. Le misure di welfare non possono più essere eticamente indifferenti o neutre, ma devono diventare eticamente qualificate. Ciò significa che il fine etico deve essere introdotto nella funzione-obiettivo delle azioni di welfare, sia per quanto riguarda gli aspetti economici sia per quanto riguarda quelli socio-relazionali. Una tale modificazione delle basi culturali e normative del welfare non può essere gestita da un nuovo Leviatano, che per sua natura assolve solo funzioni di integrazione sistemica (organizza le istituzioni in una macchina). Occorre una configurazione capace di mettere in sinergia l’integrazione sistemica con quella sociale (che è quella delle relazioni del mondo vitale). Il che significa che occorre una governance ispirata al principio di sussidiarietà. Invocare nuove “regole” si rivela una pia illusione se non si prende sul serio la necessità di una loro giustificazione, per il semplice fatto (sociologico, non di altro genere!) che ogni contratto – anche quello sulle regole – richiede delle premesse non contrattuali. Ci sono delle condizioni precontrattuali da soddisfare, che consistono nella fiducia e nella disponibilità a cooperare su comuni valori. Senza queste premesse il contratto sulle regole non può venire all’esistenza o, se viene fatto, non sarà rispettato. Lo Stato sussidiario, contrariamente al Leviatano, soddisfa queste condizioni. Perché, mentre il contratto che genera il Leviatano si basa sulla sfiducia e il sospetto reciproci, lo Stato sussidiario si basa sul rispetto della dignità di ciascuno e sull’agire per accrescere, non diminuire, le autonome capacità dell’altro.13
Vale la pena di sottolineare che il principio di sussidiarietà introduce una discontinuità radicale nei confronti dell’ordine (sociale, economico, culturale, politico) tipicamente moderno. Infatti, l’adozione del principio di sussidiarietà come principio architettonico di un nuovo ordine sociale, che va dal livello micro (relazioni interpersonali) al livello macro (relazioni internazionali), passando per tutti i livelli intermedi, configura una società alternativa sia a quella liberale (lib) sia a quella socialista (lab), entrambe intese in senso stretto (moderno), sia anche ai loro mix (modelli lib-lab). L’alternativa allo Stato hobbesiano non è uno Stato minimo à la Proudhon (come sostengono i lib-lab radicali), ma uno Stato relazionale.14 Si può e si deve apprezzare l’importante apporto di coloro che, come Luciano Pellicani, hanno condotto una dura battaglia liberal-socialista contro il marxismo-leninismo. I tempi non sono però più quelli di un confronto siffatto, e pertanto suonano fuori tempo i programmi neo-lib-lab che ripropongono le soluzioni di un welfare inteso come misto di liberalismo e socialismo.15 Lo Stato sociale post hobbesiano non coincide con lo slogan “meno Stato, più mercato”, ma con uno Stato che si interfaccia con una società che non è concepita come mercato di profitto, bensì come economia civile e come welfare civile. Lo sviluppo del welfare civile è in corso in tutti i Paesi occidentali, con l’eccezione significativa dell’Italia, in cui la cultura politica del welfare rimane hobbesiana. Si pensi ai processi di devolution alla società civile in corso in Gran Bretagna, Francia, Olanda e Belgio, nei Paesi Scandinavi e perfino in Spagna. Alla base della revisione dei sistemi scolastici, sanitari, di assistenza sociale, di previdenza e sicurezza sociale, in breve in tutto lo sterminato campo dei bisogni di benessere nella vita quotidiana, c’è la centralità del nesso fra libertà e responsabilità non solo per quanto riguarda il comportamento dei singoli individui, ma anche per quanto riguarda le conseguenze dei loro comportamenti nei confronti degli altri, quale alternativa alla soluzione hobbesiana che solleva gli individui dagli effetti non intenzionali e aggregati delle loro azioni tramite un’autorità collettiva. Questo è anche il senso del federalismo fiscale16, che, pensato in chiave di sussidiarietà, non è un principio di affermazione di interessi individuali, locali, egoistici, come qualcuno afferma, ma è un principio di responsabilità e di rappresentanza diretta.

In conclusione

La soluzione hobbesiana consiste nel trasformare l’utilitarismo di natura in un utilitarismo regolato attraverso un contratto fra i consociati che consenta di gestire i conflitti sociali. Tutti coloro che propongono un “nuovo contratto” – lo si sente a ogni piè sospinto: si parla di un nuovo contratto fra le generazioni, fra produttori e consumatori, fra sindacati e imprenditori, e così via – dovrebbero dire in che senso lo intendono, e in quale modo lo configurano. Infatti, se si tratta di un contratto hobbesiano, siamo fuori strada. Peraltro, anche i contratti secondo il diritto romano, nonostante la nostalgia di Guido Rossi, non corrispondono più a quanto necessitiamo nell’epoca della globalizzazione. Il diritto romano, malgrado il suo apparente successo, è ormai diventato un’altra cosa.17 I contratti classici e neoclassici (che riguardano prestazioni materiali e con bassa discrezionalità) non sono più adatti per il nuovo welfare, perché occorrono contratti relazionali (che hanno come oggetto delle relazioni, per esempio di cura, che non sono né materiali né standardizzabili).18 Abbiamo bisogno di regole, ma le regole di per sé non sono la soluzione, perché esse dipendono dalle premesse non contrattuali del contratto. Qui entra in gioco la concezione antropologica dei diritti, su cui occorre trovare un consenso non relativistico. La soluzione post-hobbesiana che prospetto non è una soluzione di semplici regole, tantomeno procedurali. Essa non rifiuta, ovviamente, la figura del contratto, ma non può accettare che tale figura risolva tutto ciò che riguarda il welfare, a partire dal contratto che sta alla base della costituzione politica della società. Se il benessere della persona e della società è una relazione sociale originaria, occorre una diversa visione del sociale e di ciò che lo costituisce. Se per Hobbes il sociale originario è uno stato selvaggio di guerra feroce, e il sociale diventa civile solo attraverso la politica (il Leviatano), orientarsi a una soluzione post-hobbesiana significa in primo luogo assumere che il sociale sia costituito dalle relazioni originarie che le persone, le loro formazioni sociali, la società come insieme di relazioni fra le varie sfere di vita esprimono a partire dalla loro natura umana. In secondo luogo, adottare una tale soluzione implica la necessità di regolare i conflitti attraverso quelle costituzioni civili19 che, pur operando nel quadro delle costituzioni politiche e in relazione a esse, articolano la cittadinanza societaria (civile) nelle varie sfere di vita (dal lavoro alle attività di welfare), in modo da rendere sinergici gli interessi e le identità.
Passare da una soluzione hobbesiana a una post-hobbesiana significa abbandonare un sistema statuale che genera sempre ulteriori conflitti attraverso la soggettivizzazione dei diritti (e che deve poi aumentare i controlli per far fronte all’anomia e alle patologie sociali che ne conseguono), per passare a un sistema societario che stimola e agevola gli attori dei conflitti ad attuare una concorrenza solidale per risolvere fra di loro i problemi, senza che ciò significhi invocare un nuovo potere politico, magari chiamandolo, come faceva Hobbes, “società civile”. Questa prospettiva riguarda anche i possibili e necessari sviluppi della dottrina sociale cattolica. In modo certamente non intenzionale, anche nella Chiesa c’è chi pensa che, dopotutto, la soluzione hobbesiana (anche se non la sua filosofia) sia utile, perché assicura la pace sociale di cui la stessa Chiesa ha bisogno. Certi settori del mondo cattolico si sono sempre appoggiati al “primato della politica” intesa come priorità dello Stato sulla società civile. In ciò essi hanno finito per accettare, volens nolens, la soluzione hobbesiana per la quale la vita sociale diventa civile solo attraverso la vita politica. A parte il fatto che esiste il rischio che la soluzione hobbesiana finisca per sottoporre, prima o poi, la Chiesa allo Stato (come in effetti Hobbes proponeva), dal momento che la religione rappresenta un rischio e una fonte di timori per lo Stato stesso, la questione cruciale è comunque un’altra. Il fatto che molti interpretino la dottrina sociale nel quadro di un pensiero “verticale” in cui lo Stato ordina la società civile anziché trarne ispirazione e linfa morale, comporta l’assenza di una vera sussidiarietà, cioè la mancanza di un autentico protagonismo delle persone, delle famiglie, delle associazioni, e quindi il mancato sviluppo di quelle reti “orizzontali” nel campo del welfare in cui si esprimono le soggettività sociali e i loro beni relazionali (per un welfare diverso dalle opere di carità e di beneficenza). Con Giovanni Paolo II la dottrina sociale cattolica ha fatto passi da gigante per uscire dal welfare hobbesiano, ma la traduzione pratica rimane tutta da sviluppare, al di là degli astratti principi.

Note
1 Tra le opere più interessanti si segnala: M. Rhonheimer, La filosofia politica di T. Hobbes. Coerenza e contraddizioni di un paradigma, Armando Editore, Roma 1997.
2 G. Rossi, Homo homini lupus?, in «Micromega» n. 2, 2006, pp. 76-86.
3 P. Donati, «Natura, problemi e limiti del welfare state: un’interpretazione», in G. Rossi, P. Donati (a cura di), Welfare State: problemi e alternative, Franco Angeli, Milano 1982, pp. 55-107. 4 A. Giddens, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, Milano 1999.
5 Ho svolto una esposizione critica del suo pensiero in P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Roma-Bari 2000.
6 R. Prodi, «La mia visione dell’Europa», in C. D’Adda (a cura di), Per l’economia italiana. Scritti in onore di Nino Andreatta, il Mulino Bologna, 2002, p. 20. Nel Trattato Costituzionale Europeo (notoriamente ancora non approvato) e comunque nei Trattati che in esso confluiscono, troviamo una formulazione del sistema di welfare europeo largamente basata sull’individualismo istituzionalizzato, che differisce da quello americano per le maggiori garanzie che esso intende assicurare al lavoratore nel quadro sopra delineato.
7 R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
8 Termine usato in M. Lianos, Il nuovo controllo sociale, Sellino Editore, Avellino 2005, che ha origine dal greco “kyndin” che significa rischio, paura.
9 Per una lettura del Leviatano molto vicina a quella che io chiamo “lib-lab” cfr. A. Negri, Il Leviatano di Hobbes, in «MondOperaio», a. 8 (nuova serie), n. 1, gennaio-febbraio 2003, pp. 56-72.
10 M. Levi, Why We Need a New Theory of Government (http://sitemaker.umich.edu/ comparative.speaker.series/files/margaret_levi.pdf).
11 Per il caso italiano si veda AA. VV., Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive, Mondadori, Milano 1999.
12 R. Diwan, Relational wealth and the quality of life, in «Journal of Socio-Economics», vol. 29, Issue 4, July 2000; pp. 305-340.
13 P. Donati, «La sussidiarietà come forma di governance societaria in un mondo in via di globalizzazione», in P. Donati, I. Colozzi (a cura di), La sussidiarietà. Che cos’è e come funziona, Carocci, Roma 2005, pp. 53-87.
14 Ho trattato l’argomento in P. Donati, Nuevas políticas sociales y Estado social relacional, in «Revista Española de Investigaciones Sociológicas», Madrid, CIS, n. 108, Octubre-Diciembre 2004, pp. 9-47.
15 U. Intini, Le radici liberalsocialiste della Rosa nel Pugno, in «MondOperaio», n. 1, Gennaio-Febbraio 2006, pp. 2- 9. L’A. ripropone il programma lib-lab (E. Bettiza, U. Intini, Lib/Lab: le prospettive del rapporto tra liberali e socialisti in Italia e in Europa, Sugarco, Milano 1980) senza alcuna considerazione della crisi profonda di tale modello.
16 L. Antonini (a cura di), Verso un nuovo federalismo fiscale, Giuffrè, Milano 2005.
17 F. Casavola, «Dal diritto romano al diritto europeo», in M.A. Glendon (ed.), Conceptualization of the Human Person in Social Sciences, The Pontifical Academy of Social Sciences, Vatican City Press 2006.
18 P. Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pagg. 181-188. 19 G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione: l’emergere delle costituzioni civili, Armando Editore, Roma 2005.

Bibliografia
- AA. VV., Lo Stato sociale in Italia: bilanci e prospettive, Mondadori, Milano 1999.
- L. Antonini (a cura di), Verso un nuovo federalismo fiscale, Giuffrè, Milano 2005.
- P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Roma-Bari 2000. - P. Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
- R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
- M. Rhonheimer, La filosofia politica di T. Hobbes. Coerenza e contraddizioni di un paradigma, Armando Editore, Roma 1997.
- G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione: l’emergere delle costituzioni civili, Armando Editore, Roma 2005.
- G. Vittadini (a cura di), Sussidiarietà: la riforma possibile, Etas Libri, Milano 1998.

 

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