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Educazione, bene comune ed etica pubblica Milano. Video
Quali fattori sono essenziali nella definizione di bene comune?
Lo studente è solo “colui che studia” o anche colui che ha il desiderio di comprendere il mondo e di imprimere un’impronta personale alla realtà? Qui sta la chiave per attuare un buon rinnovamento didattico.
La figura dello studente, vista nell’accezione di “colui che studia”, risulta troppo limitata e inadatta allo scopo di smuovere le forze di conoscenza dei giovani: il desiderio di comprendere il mondo, di cavarsela da sé, di scoprire il proprio io, di imprimere un’impronta personale alla realtà, di contribuire al suo miglioramento aderendo al luogo in cui vive.
Lo studente, così come si è venuto configurando nell’epoca della tarda modernità, si è sempre più distaccato dal reale, e da se stesso, a causa dell’inerzia che ha investito buona parte della vita della scuola. Il rapporto tra insegnante e studente si è spesso limitato alla ripetizione di frasi e nomenclature appartenenti a campi del sapere tra di loro separati, senza che tale operazione portasse a una vera e propria conoscenza, ovvero a una trasformazione della persona e a un intervento positivo nella realtà. Per questo, alla domanda “cos’hai fatto oggi?”, la grandissima parte degli studenti risponde “niente!”, e ciò segnala la differenza tra apprendere e imparare: si possono acquisire parole, senza che ciò riguardi la vita, insegni a vivere.
Nella tradizione occidentale il concetto di cultura è posto da sempre entro la linea di tensione tra erudizione e sapienza, ma la mera esibizione del sapere è sempre stata considerata perlopiù una qualità utile per primeggiare nelle contese verbali oppure per superare i concorsi. Infatti, secondo Orazio, “i poeti si propongono di giovare o di dare piacere, oppure di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla vita”[1]. Le forze di conoscenza si muovono a partire dalle forze di vita: la simpatia, l’affezione, la compagnia, il piacere, l’utilità, la soddisfazione, l’onore, la consolazione. La figura centrale della conoscenza è il maestro, ovvero colui che guida e spiana il cammino. Egli vive personalmente ciò che insegna: il vero maestro, infatti, è colui che dapprima cerca di migliorare se stesso e poi indirizza il proprio intervento sugli altri. “L’allievo è colui che impara dal maestro che, essendo riconosciuto grande, gode del prestigio tale da lasciarsi guidare”[2].
Si comprende che il fine della cultura è la virtù, la vita buona. Al termine della parabola della modernità, le persone disdegnano le teorie e la mera erudizione, ma sono alla ricerca di cultura autentica, poiché, vissute in un’epoca di scetticismo, hanno bisogno di rispondere alle domande fondamentali: chi sono io? Cos’è la realtà? Che legame ci unisce agli altri? Perché il bene e il male? Cosa posso fare di buono? Come posso essere felice? Dopo il dominio dei concetti analitici tanto cari a Kant, riprende importanza il sapere sintetico, prossimo alle domande di vita, immediatamente riscontrabile nella realtà.
Ciò accade anche a causa dell’indebolimento del sentimento dell’esistenza, una sorta di anoressia del cuore che rappresenta uno dei tratti della condizione umana di questo tempo. Secondo Franòois-René de Chateaubriand i giovani delle civiltà avanzate soffrono di vaghezza delle passioni nel senso che la grande mole di stimoli che ricevono li rende esageratamente sensibili sul piano psicologico, ma sullo sfondo di una estrema povertà di esperienze. Ciò riduce il campo delle occasioni in cui poter paragonare se stessi agli altri in specifici campi d’azione, e quindi potersi riconoscere e aderire a una visione consistente di vita. Lo stato dell’anima di buona parte dei nostri giovani appare segnato da una vaghezza esistenziale; questo precede, e condiziona, lo sviluppo delle passioni, stimolando un’esagerata introspezione senza un’adeguata esperienza del reale. Le loro facoltà giovani e attive sono rimaste perlopiù intatte ma contenute poiché “si sono esercitate solo su se stesse, senza scopo né oggetto”[3]. Essi hanno imparato ad ascoltare le proprie emozioni e conoscono le proprie preferenze, ma sulla base di un ristretto menù di pietanze, per la gran parte apparecchiato da altri in modo comodo, così che la loro iniziativa risulta circoscritta alla sola espressione di una preferenza emotiva immediata: “mi piace, non mi piace”.
Da qui la necessità di un approccio alla cultura che agisca come uno scuotimento dello stato di torpore in cui versano molti giovani (e adulti), e che nel contempo li solleciti a mettersi in gioco personalmente, attraverso l’ingaggio entro situazioni di apprendimento nella forma di azioni reali in cui verificare il valore della cultura canonica, aggiungere le conoscenze rese possibili dall’esperienza, oltre al proprio apporto originale alla vita comune.
Educare all’azione buona, significativa e utile
Il lavoro (da cui la parola “laboratorio”, sempre più presente nei manuali di didattica) e l’intrapresa (si pensi alla settima competenza di cittadinanza europea “intraprendenza e spirito di iniziativa”), assunti nell’ambito della vita scolastica, non sono da intendere come strumenti di addomesticamento dell’essere umano alla realtà, ma modi di apprendimento di una conoscenza sintetica, autentica, che insegni ai giovani a vivere, a riconciliare i frammenti della propria esistenza, a ricostruire il legame tra lo stato dell’anima e la vita comune, la città[4], continuando e migliorando il cammino della civiltà.
Per trovare ciò che siamo in grado di fare, che siamo chiamati a fare, occorre inoltrarci nel territorio della nostra anima, un ambito rispetto al quale siamo spesso così desolatamente poveri di mezzi adeguati di comprensione. Il linguaggio utilizzato nel definire il rapporto tra lavoro e vita ci consente di cogliere il significato dell’opera umana come espressione evidente, costruttiva, dello stato dell’anima. Questa si trova come immobilizzata entro i due atteggiamenti contrastanti del nostro tempo: è attratta dalla Decadenza, una sorta di male sottile ma pernicioso che assorbe tutta la nostra attenzione e l’avvolge in una rete di onirica distrazione, dissipando nell’inazione talenti e tempo, e nel contempo avverte il richiamo antico della Distinzione, del mettersi in opera per un impulso, e uno scopo, dettati da leggi non scritte cui l’anima è fortemente sensibile e che mira alla realizzazione di quanto di profondo risiede nel proprio intimo. Per uscire da questa tensione, occorre uno scuotimento che dipende decisamente dagli incontri e dagli eventi di grazia che segnano la propria esistenza e che smuovono – o annichiliscono – le risorse spirituali e morali di ciascuno di noi e dell’intera comunità.
Questa esperienza di risveglio è in grado di introdurre un impulso generativo nel rapporto tra lavoro e vita. Ma occorre fare i conti con la scomparsa della parola “lavoro” presso i contemporanei che l’hanno sostituita con “attività” degradando questa decisiva caratteristica dell’essere umano; quindi, l’operazione del mettersi all’opera implica per l’attuale generazione di giovani la capacità di dare un significato nuovo a parole ossidate e consunte e di ritrovare un legame con la tradizione più lontana, compresa quella dei popoli cosiddetti primitivi per i quali la mancanza del termine “lavoro” era indice di una profonda unitarietà dell’esistenza che mette in stretto contatto l’agire con il sentire.
Lavorare non è solamente “fare”, ma assume il valore del “conoscere”; lavorare è un atto della conoscenza, quella che accade tramite l’esternalizzazione di tutte le facoltà umane entro l’opera compiuta, vale a dire portata a termine in modo da arrecare valore a un preciso destinatario.
Il mettersi all’opera da parte dell’uomo avviene sotto la spinta di una triplice tensione che lo attraversa radicalmente: tramite il lavoro egli cerca di rispondere alla condizione generale di limite, che è insieme bisogno ma anche sofferenza, che lo caratterizza sin dall’inizio della civiltà; inoltre nell’opera ricerca un significanza di salvezza e redenzione che lo porta a ordinare il mondo secondo un principio superiore ai singoli accadimenti che pure costituiscono l’oggetto principale della sua attività; infine persegue il possesso dei beni terreni come segno di successo, ma deve nel contempo giustificare tale potere dal punto di vista del comando morale dell’amore fraterno, ciò che costituisce lo sfondo della sapienza occidentale.
Il lavoro è l’espressione evidente della civiltà, la dimostrazione della fecondità della cultura. Chiunque si chieda come deve vivere concretamente per corrispondere alla propria dignità di persona, e si pone all’opera a favore degli altri, svolge un lavoro, si appella ai grandi del passato per trarre ispirazione nel comprendere il presente e costruire operosamente il futuro.
Lavorare significa scuotersi dalla gabbia del sé, misurarsi con la realtà, mettere alla prova le proprie capacità e le proprie forze; l’azione buona, mobilitando l’intero arco delle prerogative umane, consente al soggetto di realizzarsi. È questo il motivo per cui i giovani che imparano a lavorare, che studiano nella prospettiva della mobilitazione dei propri talenti a favore degli altri, sono particolarmente soddisfatti, provano diletto in quello che fanno, sono più convinti del proprio valore, più capaci di cavarsela da sé e di segnare il mondo con la novità insita nel loro proprio nome, fornendo un apporto originale all’edificazione dello spazio comune “somigliante”, vale a dire espressivo dell’umano.
Il lavoro buono
L’educazione al lavoro acquisisce oggi un significato nuovo: fornire agli adolescenti e ai giovani l’opportunità per rendere consistente il proprio io, riscattandolo dalla vana agitazione dell’identità mediatica e ancorandolo in una relazione sociale costruttiva e feconda. Liberato dalla schiavitù della routine, prerogativa dei sistemi automatizzati, l’essere umano ha la possibilità di infondere nelle cose che fa, qualcosa della propria anima. Ma si trova di fronte il pericolo del disincantamento, che porta a fare le cose senza scopi grandi, per sopravvivere, o farle per vendere (marketing), oppure perdersi nella generica e vacua biografia soggettiva.
Il lavoro è buono se rende libero chi opera e chi si avvale del frutto del nostro ingegno/della nostra fatica. Non si lavora in senso umano se si è preda dell’inquietudine o della dissipazione. Il lavoro buono si alimenta di esperienze che siano “tempi fecondi dell’anima”: l’amicizia, l’amore, la poesia, il rapporto con la natura, la religione, l’arte… Trovando ciò che soddisfa l’animo, si è umani anche nell’operare.
La chiave del rinnovamento didattico sta nel fare della scuola un laboratorio per la scoperta del sapere e il servizio alla comunità, così da restituire alla cultura la sua vitalità[5].
Da qui la necessità di una svolta realista che, sia pure tra numerose difficoltà e ostacoli, inizia a porre alcune basi necessarie per un cambio del paradigma metodologico della scuola, al cui centro vi è l’idea della centralità del laboratorio come ambiente in cui i giovani possano scoprire il sapere, un luogo “prossimo” alla fonte della conoscenza compiuta.
Si assiste all’intensificazione del “tono” d’azione delle scuole le quali si premurano di sollecitare la partecipazione attiva dei propri studenti entro “cantieri d’opera” in situazione, rivolti esplicitamente, tramite l’appercezione viva della cultura, a dare risposte significative e valide alle problematiche, esigenze e opportunità presenti nel contesto reale. Ciò accade a ogni livello e con varie forme: l’alternanza scuola lavoro, la fabbrica-laboratorio (FabLab) e i laboratori territoriali per l’occupabilità aperti anche in orario extrascolastico per essere vere e proprie palestre di innovazione e incubatori di idee, i laboratori riguardanti vari ambiti del sapere gestiti tramite unità di apprendimento interdisciplinari, riferiti a progetti e a varie forme di cooperazione educativa entro la comunità sociale, gli scambi e i concorsi, gli workshop e gli eventi, fino anche a modalità di valutazione “competenti” tramite prove esperte e capolavori.
L’alternanza rappresenta il modello più diffuso per l’educazione al lavoro dei giovani, quello che apre meglio la strada nel contesto economico. Non è più intesa come un’appendice “pratica” dell’attività, ma una componente fondamentale del curricolo, il principale strumento per scuotere una parte consistente della gioventù dallo stato di sospensione agitata che ne dissipa le facoltà umane. È un diritto, connesso all’offerta delle migliori opportunità per inserirsi positivamente nel reale. Di ciò beneficiano tutti, scuole, imprese e comunità, perché una generazione sospesa significa interruzione del flusso della civiltà. È una metodologia che mira a formare persone in grado di affrontare in modo consapevole e attivo le responsabilità della vita adulta, consente di integrare attività presso la scuola, docenza frontale, esercitazione, ricerca, progetto, e attività esterne sotto forma di visite, ricerche, compiti reali, in base a una vera e propria alleanza educativa territoriale tra scuola, cfp (centri di formazione professionale) e imprese. In tal modo si persegue una formazione efficace e si colloca l’attività formativa entro situazioni di apprendimento inserite nella cultura reale della società.
Ciò che accade nell’azione non è un fatto esclusivamente “pratico”, ma possiede una valenza pienamente culturale, il “gesto completo” è la forma privilegiata dell’umano conoscere. Intellettualismo e operativismo sono due modi inadeguati della conoscenza, e procurano danni simmetrici. L’incontro tra scuola e impresa rappresenta un cantiere culturale di grande valore per dare vita a un paradigma realistico di accesso al sapere,”luogo unitario e continuo di pensiero e azione, di fatto e valore, e persino di fisica e metafisica”[6].
Anche l’apprendistato costituisce una modalità interessante per l’educazione al lavoro dei giovani; è un vero e proprio contratto di lavoro con valenza mista, operativa e formativa. Alcune esperienze sono già attive in Italia, ma ci si attende una loro maggiore diffusione nell’immediato futuro.
In sostanza, è in atto un movimento per rendere sempre più reale e attiva l’esperienza del sapere, in forza del quale le scuole perseguono una configurazione sempre meno neutra e isolata e sempre più connotata da un servizio alla comunità, così che ciò che accade al loro interno possa avere valore di “opera compiuta” e non solo di “istruzione”. Tramite esperienze di apprendimento reale i giovani scoprono di appartenere a una storia comune, nella contemporaneità con i grandi – e i piccoli – del passato, nel mentre si impegnano con i propri talenti nel rendere migliore il mondo, fornire il proprio prezioso contributo affinché altre persone possano perfezionare la propria vita.
[1] “Aut prodesse volunt, aut delectare poetae, aut simul et iucunda et idonea dicere vitae”. Orazio Q. Flacco, Ars poetica in Opere, Utet, Torino, 2015, 333.
[2] Aida Dattola in: http://www.educare.it/Scuola/vivere_scuola/importanza_chiamrsi_maestro.htm
[3] F.-R. de Chateaubriand, Genio del cristianesimo, Bompiani, Milano 2008, pp. 497-499.
[4] P. Manent, Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’occidente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
[5] D. Nicoli (a cura di), L’intelligenza nelle mani. Educazione al lavoro nella formazione professionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
[6] G. Maddalena, Gesto completo: uno strumento pragmatista per l’educazione, SpazioFilosofico, 2014, http://www.spaziofilosofico.it/numero-10/4487/gesto-completo-uno-strumento-pragmatista-per-leducazione/
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Quali fattori sono essenziali nella definizione di bene comune?
Tema Atlantide 5 . 2006 . 1
Lo scorso 17 gennaio, Mary Ann Glendon è stata relatrice al convegno Virtù e Torti del diritto nelle società post moderne, organizzato dall’Università di Padova e Treviso, assieme alla Fondazione Novae Terrae e alla Fondazione per la Sussidiarietà. Mary Ann Glendon è uno dei più illustri accademici degli Stati Uniti, insegna Constitutional Law ad Harvard, ed è Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 5 (2006)
L’investimento in capitale umano porta a un incremento della produttività. Sotto questo profilo l’articolo analizza i dati del Rapporto annuale (2005) dell’Ocse sulle caratteristiche dei sistemi educativi dei paesi membri.