In occasione di anniversari importanti dell’università è consuetudine che il rettore, o l’oratore ufficiale da questi invitato, celebri i lunghi secoli di storia dell’istituzione università. Spesso però riesce difficile individuare fino a che punto l´esposizione esprima un ideale esaltante o ultimamente soltanto un’ideologia. Certamente ogni università – specialmente quelle europee – prosegue una tradizione iniziata nel XIII secolo. Ciononostante, non è facile interpretare gli ideali, o ancor meno la concezione di sé che hanno le università odierne in quanto continuità di quelle che erano nate nel Medioevo, per esempio a Padova o a Parigi. Le università medievali erano esattamente ciò che le università moderne non vollero più essere, poiché si sentivano superiori a esse e consideravano quelle medievali scuole di basso livello per adulti o tutt’al più luoghi per la formazione professionale. Questa scissione avvenne al più tardi con la fondazione dell’Università di Berlino nel 1810. Si potrebbe obiettare che tali “scuole di basso livello” si consideravano fucine di una universitas litterarum. In primo luogo questa svolta emerge nell’età dell’Umanesimo e si rivolge contro ciò che Filippo Melantone nel 1521 chiama “I sofismi della Sorbona“ (Sorbonica sophismata). In secondo luogo e soprattutto il termine “universitas” nell’alto Medioevo aveva un significato completamente diverso da quello di oggi. Con questo termine non si intendeva una totalità del sapere e neanche un modo di svolgere le lezioni, ma la universitas magistrorum et scholarium. Anche le corporazioni e unioni di commercianti (Gilde) a quel tempo venivano chiamate universitates. Tutt’al più il significato medievale di questa parola si può rendere con il termine “corporazione”; esso ha quasi lo stesso significato di “communitas”, “collegium” o “societas”. Ancora nel XVI secolo si era consapevoli, per lo meno i giuristi lo erano, del fatto che “universitas” è la denominazione per quaedam persona ficta: un gruppo di persone che formavano insieme un’unica persona.
Una riflessione sulla storia
Accenno tutto questo, perché a me sembra quasi impossibile definire i compiti dell’università odierna a partire da una riflessione sulla storia dell’università, senza con questo cedere a distorsioni ideologiche della storia reale. Certamente tali esposizioni, se si prescinde dalla questione di una onesta ricerca storica, non sono a priori deleterie. Per lo meno permettono agli oratori ufficiali di favorire un’atmosfera di solennità e di infondere con ciò un vago sentimento di solidarietà tra i professori e gli studenti presenti – solitamente non troppo numerosi in tali occasioni. Solo che queste esposizioni hanno veramente poco a che fare con la storia reale dell’istituzione università. Non è un caso che nei discorsi ufficiali non si accenni mai al fatto che nelle università medievali talvolta anche uno studente poteva venire eletto rector magnificus. Certamente doveva quasi sempre essere un ecclesiastico, poiché altrimenti non avrebbe goduto dell’autorità sufficiente specialmente nei confronti dei magistri theologiae. Ma gli studenti di allora non di rado erano altrettanto vecchi oppure persino più vecchi dei docenti e il rettore era semplicemente il direttore di una corporazione. Al massimo sono i leader delle rivolte studentesche che oggi fanno menzione del “rettore studente” per rivendicare più seggi nel senato accademico o nelle riunioni di facoltà, sempre che in tutto questo autoincensarsi dell’istituzione venga concessa loro la possibilità di parola
Però c’è un’eccezione. Per definire i compiti di un’università di oggi e la sua immagine non ci si può riferire né alle università medievali né a quelle moderne prima del 1800. Si può fare di certo riferimento ai pensieri di Wilhelm von Humboldt espressi per la fondazione dell’Università di Berlino, che sono stati, non solo in Germania, ma in tutta Europa e perfino nel Nord America per lungo tempo una sorta di modello (e in parte fino a oggi è considerato tale) di come doveva esser una buona università. Anche la più famosa università degli Stati Uniti, che nel 1780 da collegio puritano venne trasformata in università, la Harvard University di Cambridge, Massachusetts, fu influenzata in modo determinante nel XIX secolo da questo modello. Anche quest’ultimo però pone non pochi problemi. Certamente l’Università di Berlino al tempo della sua fondazione era qualcosa di totalmente nuovo, poiché l’insegnamento offerto era fondato su una ricerca indipendente. Sebbene alcuni sporadici docenti divennero ricercatori di grande fama, né le università medievali né quelle moderne si consideravano luoghi di ricerca; esse insegnavano ciò che già si riteneva di sapere e che gli studenti perciò dovevano apprendere per svolgere il loro lavoro futuro. Giustamente Humboldt vide nella sottolineatura della ricerca la novità decisiva della sua concezione di università, «poiché le scuole hanno solo a che fare con conoscenze preconfezionate e concordate in precedenza». Problematica non è tanto l’«unità di ricerca e insegnamento» dell’ideale di Humboldt, da allora spesso sottolineata, anche se solo di rado realizzata compiutamente, ma l’idea di educazione neoumanistica a essa complementare, poiché Humboldt partiva dal fatto che la ricerca scientifica, soprattutto se portata avanti senza perseguire particolari interessi, contribuisce allo sviluppo morale della personalità. Certamente lui menziona a volte sapienza e virtù, come si addiceva a un aristocratico prussiano di confessione luterana, ma la sua fede cristiana e le esigenze morali di questa non influenzano in modo significativo la sua idea di università. Ciò si rende evidente anche attraverso il fatto che per Humboldt la filosofia era considerata fra le materia universitarie più importanti. Nelle università medievali, come quella di Parigi, la teologia aveva assunto questo ruolo predominante; le istituzioni universitarie si erano per lo più sviluppate dalle scuole cattedrali alle dipendenze del vescovo; quasi tutte le università del Medioevo (e le università dei paesi cattolici fino alla prima età moderna) non facevano ufficializzare la loro esistenza solo dal sovrano, o meglio ancora dall’imperatore del Sacro Romano Impero, ma anche dal Papa stesso.
La trasmissione del sapere
Sebbene fino a oggi per ottenere la nomina di professore venga richiesto al candidato di non essere semplicemente un buon docente, ma anche di essersi affermato come un buon ricercatore attraverso pubblicazioni scientifiche (anzi spesso i successi della ricerca contano più delle competenze didattiche), anche questa «unità di ricerca e insegnamento», così tanto sottolineata da Humboldt, presenta non pochi problemi. Wilhelm von Humboldt era per formazione e competenza un linguista e pensava perciò che i corsi su problemi linguistici in quegli anni presupponessero una ricerca approfondita. Ma Hegel e Schopenhauer, per esempio, che all’inizio degli anni Venti del XIX secolo insegnavano entrambi all’Università di Berlino, promuovevano veramente la ricerca? Ogni ricerca era veramente scrupolosa riflessione preceduta da un solida base teorica? Oppure era solo riflessione? Ed era possibile, d’altra parte, sin dall’inizio, trasmettere agli studenti i risultati delle proprie ricerche? L’urgenza di questa domanda diventò anche a Berlino sempre più chiara, mentre l’università cresceva e le scienze naturali e tecniche assumevano sempre maggiore importanza. Oggi ogni fisico, astronomo e anche biologo sa che gli studenti del primo anno durante le loro lezioni capirebbero difficilmente un concetto che facesse riferimento alle scoperte più recenti. Alla fine questo aveva e ha come conseguenza il fatto che insieme ai professori veri e propri in università dovevano e dovrebbero tuttora insegnare altre persone, che, come nel Medioevo, non trasmettano nient’altro che il sapere già da lungo esistente. Scrivere un libro di testo, per esempio La fisica dell’alta energia per principianti, fa parte dei compiti più difficili che uno scienziato possa affrontare, e tuttavia molti rinomati professori-ricercatori si credono troppo esperti per dedicare il loro tempo prezioso a qualcosa di così elementare.
Lo scopo dell’università, oggi
Pur facendo spesso riferimento alla concezione dell’università di Humboldt, credo che la riflessione sull’ideale, da una parte, e quella sulla storia delle origini dell’Università di Berlino, dall’altra, siano ben poco utili per formarsi un’opinione attendibile sullo scopo dell’università di oggi, vale a dire su quali siano le caratteristiche di una buona università. Senza dubbio l’università ha una sua storia e questa ha certe costanti. Ma queste costanti non rivestono ultimamente una grande importanza, poiché ogni istituzione pedagogica per adulti nel corso dei secoli passati mutava ripetutamente la sua funzione sociale e quindi anche il suo profilo, più precisamente si adattava alle circostanze mutate del proprio Paese. E certamente si potrebbe ancora oggi – per lo meno teoreticamente – fondare un’università che per esempio porti avanti gli ideali di Humboldt; la questione è solo chi dovrebbe sostenere i suoi costi. Nessun governo sarebbe disposto a farlo, e se fosse un’università privata senza alcun finanziamento statale, i genitori degli studenti se ne starebbero alla larga a causa delle somme che dovrebbero investire per lo studio dei figli. Anche l’università tedesca più piccola, nella quale in genere non ci sono facoltà di medicina o di scienze naturali, costa oggi quasi 100 milioni di euro l’anno; per ogni figlio i genitori dovrebbero spendere tra i 50 e gli 80 mila euro all’anno. Questo è concepibile in America, dove le università più antiche hanno raccolto donazioni consistenti per finanziare lo studio di studenti provenienti da famiglie meno benestanti. In Europa questo invece provocherebbe indignazione. Oppure si tratterebbe di un istituto di studi superiori, i cui docenti – come avviene in alcune università cattoliche sudamericane – dovrebbero accontentarsi di uno stipendio notevolmente inferiore a quello dei loro colleghi delle università statali. Ma è praticamente impensabile che esista un istituto universitario nel quale insegnino esclusivamente o in maggioranza docenti “idealisti”, che grazie alle loro competenze potrebbero insegnare altrettanto bene in un’università statale. A meno che vengano insegnate per esempio solo teologia, filosofia – che è il presupposto per la teologia – e diritto canonico, e la maggior parte degli insegnanti appartengano a una comunità religiosa, come per esempio a un ordine. Perciò la domanda deve esser posta diversamente, vale dire non si deve necessariamente tralasciare la celebrazione della gloriosa storia dell’università in Europa, bensì metterla in secondo piano: qual è l’utilità di un’università oggi e come dovrebbe essere un’università veramente buona? In che misura dovrebbe esser autonoma dallo Stato e dalla sua concezione culturale del momento? E come potrebbe non solo formare adeguatamente i propri studenti in campo professionale per il loro futuro, ma contribuire anche alla loro “educazione”?
Innanzitutto si deve partire dal fatto che oggi ci sono, da un lato, numerose professioni che hanno come requisito una laurea o un diploma acquisito presso un istituto parauniversitario, ma che dall’altro lato in molti stati europei sono nati istituti parauniversitari, alcuni dei quali sono finanziati dallo Stato e altri da istituzioni private. Queste, che pur non possono certamente essere definite “università” (tra l’altro perché non danno la possibilità di svolgere un dottorato di ricerca), tuttavia in determinate materie competono con successo con le università. Un esempio di tali istituti parauniversitari sono i cosiddetti “istituti universitari” tedeschi (Fachhochschulen), che nel formare ingegneri hanno avuto spesso più successo che gli istituti politecnici trasformati in università (o forse soltanto ribattezzati come tali).
Titolo universitario e professione
D’altro canto, aumenta continuamente il numero delle professioni che presuppongono uno studio universitario o, perlomeno, che potrebbero trarre vantaggio da uno studio universitario. Tra l’altro le associazioni di categoria tendono a esercitare pressione per avere una rappresentanza delle loro diverse figure professionali tra i docenti universitari, perché questo porta a una rivalutazione anche finanziaria delle professioni da loro rappresentate. Frattanto ci sono in Europa università presso le quali si può studiare “danza” come disciplina universitaria. Solo pochi rettori o vicechancellors sono così coraggiosi come lo fu il rettore dell’Università di Chicago anni fa. Quando gli studenti pretesero l’introduzione di una materia chiamata Black Studies, lui obiettò loro: “We do not teach non-existent subjects”.
A questo riguardo il problema principale consiste probabilmente nel fatto che – a eccezione, ma solo in parte, di entrambe le antiche Università di Oxbridge in Inghilterra – in nessuna parte d’Europa si è veramente riusciti a mantenere le università come centri di formazione relativamente piccoli per professioni che richiedano non solo conoscenze scientifiche, ma anche dopo lo studio un continuo legame con gli sviluppi delle ricerche scientifiche. Siccome avere in mano un titolo universitario presenta vantaggi sociali e soprattutto finanziari, sempre più rappresentanti dei diversi profili professionali hanno esercitato pressioni affinché la formazione necessaria venisse fornita dalle università.
La conseguenza fu che una percentuale sempre maggiore della popolazione pretese di far studiare all’università i propri figli. Per questo si dovettero fondare numerose nuove università che spesso erano sovraffollate. Le università e gli istituti universitari in genere divennero centri di formazione di massa. Ci si rammarica per come si è evoluta questa vicenda, ma un ministro della cultura o un rettore accorto e riflessivo partirà da questa evidenza considerandola un dato di fatto, poiché sa che questo stato di cose è difficilmente reversibile. Così valuterà le strategie adeguate affinché l’università sia più di una semplice scuola di formazione professionale. Dovrà perciò, per esempio, far attenzione che le persone a cui lui ha assegnato la docenza, o che ha deciso di proporre al ministro per una nomina, siano sì ricercatori affermati o docenti di successo, ma siano anche in grado e disposti a vedere la loro materia nell’ambito di un contesto più ampio.
Quindi si impegnerà a far sì che l’università accenda corsi interdisciplinari che favoriscano negli studenti la consapevolezza che la loro materia di studio è parte di un contesto conoscitivo più ampio. Un tale rettore considererà questa come una delle sue maggiori preoccupazioni per evitare che i laureandi, pur competenti nella loro disciplina, siano considerati dei barbari in tutti gli altri campi.
Egli perciò perseguirà questo scopo anche solo perché è consapevole che uno studioso di fama internazionale, per esempio chi ha ottenuto un Premio Nobel, quasi sempre possiede un livello di istruzione superiore alla media. Non solo oggi, ma da sempre, la vera creatività presuppone la disponibilità e la capacità di scoprire nessi che fino a quel momento quasi nessuno aveva individuato, e perciò di collegare fra loro osservazioni, idee e immagini di pensiero, che a prima vista non hanno niente in comune. Infine tale rettore riconoscerà anche che questi nessi implicano dimensioni che sono non propriamente scientifiche, ma relative alla visione del mondo, morali e religiose (o anche significative per la fede) e perciò farà attenzione a che i candidati alla docenza universitaria non siano esperti a senso unico della propria disciplina o addirittura trascinatori di folle ideologici.
Una buona università trasmette non solo il sapere, ma anche posizioni, virtù e convinzioni rilevanti per l’esistenza, e tutto questo anche solo attraverso il fatto che i docenti le vivono in prima persona in modo naturale e senza forzature.