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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 37 (2016)

Migrazioni e Mediterraneo: cosa insegna la storia

Nella storiografia prevalente la civiltà europea appare frutto della “sedentarizzazione” dopo le invasioni barbariche. Ma questa immagine trascura la presenza pressoché in9nterrotta di movimenti di popolazione

L’inarrestabile movimento di gruppi di popolazioni che interessa le società italiana ed europea pone un interrogativo anche al nostro modo di guardare il passato. Il paradigma appreso dai manuali scolastici e svolto poi in poche o tante letture trasmette l’immagine di un movimento della storia orientato verso il contenimento della mobilità e la sedentarizzazione: dopo i disordini prodotti dai movimenti dei barbari negli ultimi secoli dell’impero romano, si descrivono il progressivo assestarsi del popolamento, la presa di possesso del territorio tramite la diffusione di pratiche agricole comuni che richiedono stabilità, la fondazione di villaggi e lo sviluppo di città, l’inquadramento religioso tramite la rete delle parrocchie e i vincoli di solidarietà, istituzionali ed economici oltre che di pietà, dei grandi ordini monastici, poi l’organizzazione degli Stati territoriali e la difficile definizione dei loro confini e degli equilibri dei loro rapporti. Questa immagine trascura la presenza pressoché continua di movimenti di popolazione e il rapporto dinamico che lega in modo inscindibile processi di sedentarizzazione e fenomeni migratori, così che l’uno è difficilmente comprensibile senza l’altro poiché entrambi contribuirono a pari titolo alla costituzione del tessuto storico. Proponiamo alcuni casi significativi di queste vicende, che interessarono la grande penisola europea, il mutevole mondo delle steppe a Oriente e, a sud, il Mediterraneo.

Romani e barbari
L’impero romano, che pure può essere preso a esempio di stabilizzazione nei territori sui quali esercitava la sua autorità, operò un incessante rimescolamento di gruppi: insediamento di colonie di veterani dopo lunghi anni di servizio militare; trasferimenti punitivi; insediamento di gruppi barbarici in aree abbandonate per favorire la ripresa dell’economia agropastorale e la crescita demografica indispensabile per alimentare l’esercito; creazione, per ragioni strategiche, di stabili nuclei militari, con il collaterale insediamento di famiglie, artigiani, mercanti. Come in tutte le politiche imperiali, il governo della popolazione non avveniva in funzione dell’interesse dei cittadini, ma delle necessità economiche e militari dell’impero. Una pratica amministrativa consolidata e flessibile offriva diverse modalità di rapporto tra vecchi e nuovi gruppi di popolazione in modo da ridurre al minimo gli inevitabili contrasti e antagonismi. La commistione divenne la regola per le città e per molte province.
Il fondamento della convivenza stava nella comune partecipazione ai benefici offerti dall’impero: la pax romana garantiva le coltivazioni, i villaggi, i commerci e l’esercizio della giustizia; le vie di comunicazione erano sicure e presidiate; lo stesso stile di vita accomunava gli abitanti di città anche molto lontane tra loro. Nel caso dei barbari, un efficace sistema di filtri consentiva ai migliori l’ascesa sociale. Memori delle origini miste della loro città, i romani non ebbero mai preclusioni ad accogliere gruppi di diversa provenienza nè ad assimilare chi fosse abile e capace di farsi valere. Nel tempo singoli barbari ottennero cariche di alto livello senza però raggiungere l’apice del rango sociale e del privilegio, la roccaforte dell’identità romana costituita dall’alta aristocrazia e dalla corte. Almeno fino a quando l’impero conservò la capacità di governare i gruppi che insediava.

I musulmani in Spagna
Dal 710-711 l’arrivo di gruppi di varia provenienza e di fede musulmana inaugurò una nuova fase della storia della penisola Iberica. Occupando circa due terzi della sua estensione, siriani, yemeniti, berberi delle diverse tribù si insediarono con le loro famiglie. Dopo pochi decenni ottenne il governo di questa realtà composita l’ultimo rappresentante della dinastia Omayyade di Damasco, che i rivali Abbasidi avevano cacciato dall’Oriente. All’inizio del X secolo ‘Abd al-Rahman III si autoproclamò califfo, con un gesto dal forte valore simbolico sul piano interno e internazionale.
Gli apporti di popolazione provennero tanto dal vicino Occidente islamico, oggi Algeria e Marocco, che dai ben più lontani territori d’Oriente, fin dalla Mesopotamia, oggi Iraq. Oltre che di militari, si trattò di funzionari esperti del diritto e dell’amministrazione, di medici, letterati, artisti e poeti. Nelle città e nei borghi esistenti si insediarono in funzione delle esigenze amministrative e di difesa, nelle campagne a macchia di leopardo, frammisti alla popolazione preesistente. I nuovi venuti portarono l’islam e la lingua araba, ma anche le proprie forme di organizzazione sociale basata sull’alleanza di clan. Per quanto si intende dai dati storici e archeologici nessuna delle due componenti - né quella orientale né quella originaria, romano-visigota, numericamente predominante - ebbe forza sufficiente per assimilare l’altra e si formò di conseguenza una società composita. Il passaggio di numerosi cristiani alla fede dei governanti, motivato da ovvi vantaggi materiali e sociali, non comportò l’abbandono dei tratti antropologici originari della popolazione romano-visigota. Alcuni tuttavia migrarono oltre i Pirenei e nei regni settentrionali rimasti indipendenti. A metà del IX secolo, il disagio maturò nella ricerca del martirio volontario tra alcuni cristiani di Cordoba, non seguiti però dalla maggioranza della popolazione cristiana nè dalle loro autorità. A questa composizione sociale originale è dovuta la fioritura economica, artistica e culturale di al-Ándalus, il nome che le terre sotto il governo islamico ricevettero già a pochi anni dalla conquista.

Nobili e commercianti negli Stati crociati
Un caso limite di conquista e colonizzazione fu quello degli Stati crociati in Siria e Palestina. Quanti, dopo la vittoria e la conquista di Gerusalemme, decisero di restare in Oriente dovettero affrontare un tema inedito: organizzare territori dalla popolazione mista, poco o nulla conosciuta, in parte cristiana (orientale) e in parte musulmana. Baroni, cavalieri e alti dignitari ecclesiastici ricorsero al sistema politico-istituzionale loro noto, quello feudale, basato su una catena di legami personali di fedeltà secondo i quali si articolava l’esercizio del potere e della giurisdizione. Con loro giunsero anche monaci guerrieri, pellegrini, sacerdoti e avventurieri, anche con le loro famiglie. Architetti, artigiani e artisti dovevano sovvenire alle necessità quotidiane e simboliche della società che si andava costituendo. I rapporti oltremare erano garantiti dall’insediamento di comunità mercantili provenienti in particolare dalle città marittime italiane; sulla costa si svilupparono floride città sulle quali erano orientati anche i traffici a lunga distanza dal lontano Oriente. A tutti i nuovi venuti si aprivano grandi prospettive di arricchimento e di promozione sociale. Non giunsero invece coloni e questa società feudale ebbe una base contadina costituita da cristiani d’Oriente e musulmani, quanti erano rimasti durante la conquista e quanti, fuggiti, erano stati invitati a ritornare dai nuovi signori. Nel tempo si crearono inevitabili occasioni di commistione.
I latini scoprirono affascinati le città d’Oriente; un cronista dell’epoca annotava che i nuovi signori “si sentono altrettanto siriani, antiocheni, armeni… e ognuno di essi parla molte lingue”. Membri dell’alta nobiltà latina ma anche nobili minori si unirono in matrimonio con principesse armene, siriane e bizantine. Le chiese fatte costruire dai feudatari crociati ripetevano le tecniche costruttive e gli stili architettonici romanico e gotico; nell’architettura militare ai modelli importati si affiancarono riprese di tradizioni locali di ascendenza romana, bizantina e araba.
Tra le tradizioni artistiche locali siriaca, copta e bizantina, e la tradizione occidentale avvenne un’ibridazione di linguaggi evidente in molte opere ivi prodotte. Neppure mancò apprezzamento per il mondo artistico dell’islam: alcuni aspetti architettonici influenzarono gli architetti crociati e la bellezza delle decorazioni, unita alla grande abilità tecnica dell’esecuzione, spinse a importare molti manufatti di produzione arabo-islamica in Occidente, influenzandone gusto e sensibilità artistica. L’esperienza, come è noto, si concluse quando dalle regioni interne della Siria che avevano sempre mantenuto sotto il loro controllo, dalla Mesopotamia e dall’Egitto i principi islamici mossero a conquistare uno dopo l’altro gli Stati crociati ed espellere i latini, contro i quali all’antagonismo politico e militare si era affiancata l’opposizione religiosa.

L’esodo degli ebrei sefarditi da Spagna e Portogallo
Altre volte si trattò della fuga da luoghi divenuti impraticabili per ragioni politiche ed economiche. Il caso più emblematico è quello dei sefarditi, gli ebrei spagnoli e portoghesi che dalla fine del Quattrocento, di fronte alla richiesta di rinnegare la loro fede come condizione per rimanere nel loro Paese, preferirono prendere il mare e cercare nuove possibilità di vita nelle città atlantiche e mediterranee, fino a Salonicco e Costantinopoli, tanto in terre cristiane che islamiche. Portarono con sé, oltre alle ricchezze personali e all’abilità nel commercio, anche la conoscenza di una rete di rapporti mediterranei dal forte rilievo economico e politico. Dove trovarono governanti disposti ad accoglierli, malgrado l’opposizione delle autorità ecclesiastiche e la diffidenza della popolazione, la loro presenza favorì lo sviluppo degli scambi e delle produzioni artigianali, oltre che la crescita demografica, rilevante in quei secoli poveri di uomini.
Essi mostrarono grande capacità di adattarsi al ritmo dei Paesi dove si insediarono, conservarono nelle loro comunità l’uso delle lingue iberiche e contribuirono grandemente alla diffusione dell’arte della stampa, secondo le necessità loro e dei cristiani circostanti. Nel granducato di Toscana la crescita di Pisa e Livorno nel Cinquecento e Seicento dovette molto al loro insediamento, attratti dalla lungimirante politica medicea concretizzatasi nelle libertà e privilegi concessi con le lettere patenti note come Livornine, in vigore fino al 1836.

Gli italiani e la modernizzazione dell’Egitto nel XIX secolo
Altre ragioni di spostamento, antiche quanto il mare, sono nell’esercizio del commercio e delle arti. Le colonie mercantili create in età medievale sulle coste del Mediterraneo orientale dalle città marinare italiane, in particolare da Genova e Venezia, continuarono anche dopo il tramonto della loro forza commerciale. Dotate ben presto di una dinamica demografica propria, arricchita dagli apporti di individui provenienti dalle altre popolazioni dell’impero, esse negoziarono le modalità della propria presenza con i funzionari bizantini e con quelli ottomani. I loro abitanti rientravano nella generale categoria dei “franchi” o dei “cattolici”; erano spesso privi di protezione consolare oppure si iscrivevano nei registri di qualche consolato europeo (preferito quello di Francia). Solo dopo il Congresso di Vienna i consoli piemontesi divennero riferimento per le comunità italiane. Nell’Ottocento nuove ondate migratorie furono motivate da ragioni di esilio politico e dalla ricerca di lavoro. La comunità italiana in Egitto, fino a metà secolo la più numerosa tra quelle europee, fu arricchita dall’immigrazione di operai, capomastri, tipografi, giornalisti, architetti, artisti, insegnanti, archeologi e studiosi, giuristi e funzionari.
Gli italiani si inserirono nell’onda lunga della modernizzazione del Paese, inaugurata nei primi decenni del secolo dalla politica di Mehmet Ali e continuata dai suoi successori. Le loro conoscenze tecniche, amministrative, architettoniche e artistiche contribuirono allo sviluppo di vari settori della vita egiziana. L’italiano era la lingua franca e fino al 1876 fu la lingua ufficiale dell’amministrazione pubblica. Il carattere multietnico del Paese - dove convivevano arabi musulmani, arabi cristiani (copti), ebrei, turchi e altri gruppi levantini - facilitò il loro inserimento in modo pacifico e collaborativo nella vita urbana. Essi godevano inoltre di un regime giuridico favorevole, basato sulle “capitolazioni” stipulate tra potenze cristiane e impero Ottomano; dipendevano dai loro consoli e potevano praticare la propria religione. Si trattò di un rapporto coloniale di tipo originale, che favorì la crescita di élite locali nelle città e nell’amministrazione ma iniziò a incrinarsi nel 1882, con i moti degli abitanti di Alessandria e la rivolta degli ufficiali guidati da Urabi Pascià. Il loro obiettivo era “l’Egitto agli egiziani”, ma la conseguenza fu il passaggio a un regime coloniale diretto imposto dal governo inglese e dall’influenza finanziaria francese. Tra gli effetti di ritorno di quest’esperienza, ricordiamo che alcuni abili artigiani del legno, mostrando considerevole capacità imprenditoriale, seppero trarre ispirazione dai motivi decorativi locali e riproporli in Italia e in Europa ponendosi tra i primi di quel generale movimento del gusto che guardava con affascinato interesse all’arte islamica.

Goti e Longobardi in Italia: due diverse strategie
Un approfondimento quanto a complessità e implicazioni dei processi migratori sul lungo periodo è offerto dal confronto tra aspettative e conseguenze dell’azione di goti e longobardi in Italia, dove giunsero in rapida successione al tramonto dell’impero romano. Nel 488 un esercito composto da goti e altri gruppi si mosse verso l’Italia con donne, servi e bestiame, sotto la guida di Teodorico, di nobile stirpe gota, cresciuto in gioventù alla corte di Costantinopoli. L’imperatore Zenone aveva affidato loro l’incarico di ricondurre all’ordine altri gruppi barbarici presenti nella penisola. Per quanto numericamente pochi, una volta vincitori i goti erano l’unico esercito organizzato e si trovarono a godere di un potere quasi sovrano. Avrebbero potuto distruggere quel mondo, scelsero invece di restare all’interno del quadro imperiale, che era riferimento identitario anche per le popolazioni italiane e le loro aristocrazie.
Teodorico e i suoi consiglieri, goti e italici, elaborarono il progetto di una società nella quale ai goti spettavano la guerra e la difesa, ai romani la produzione e i commerci. Sotto la tutela della legge i due gruppi avrebbero potuto vivere fianco a fianco, ognuno secondo i propri costumi. La diversa forma di cristianesimo – ariana per i goti e nicena ortodossa per i romani – non doveva essere d’ostacolo poiché “la religione non può esser imposta d’imperio e nessuno è costretto a credere se non vuole”, come scrisse re Teodorico agli ebrei di Genova. Era la miglior lettura barbarica delle potenzialità dell’impero, ma il progetto non si realizzò perché nel giro di alcuni anni i goti mostrarono di voler vivere come gli italici e questi, rifiutando la pax gothica, chiamarono in aiuto i bizantini, che ebbero la meglio dopo decenni di una guerra sanguinosa che impoverì l’Italia.
Dopo pochi anni i longobardi, già alleati dei bizantini in Pannonia, decisero di passare nella penisola per fare spazio a gruppi di avari provenienti da Oriente, cercando forse un’impresa gloriosa che consentisse a re Alboino di consolidare la propria autorità sulle genti diverse che costituivano il suo esercito, in realtà il suo popolo. Dopo un’avanzata che incontrò scarsa opposizione locale, con la morte di Alboino e del suo successore Clefi, la frammentazione dell’esercito longobardo in diversi gruppi rivali e l’opposizione militare dei bizantini che governavano Ravenna, il centro e il sud della penisola, aprirono con le popolazioni italiche una conflittualità aspra e diffusa.
L’impero non costituiva più un progetto di convivenza né per gli uni né per gli altri e la pacificazione poté avvenire solo con un processo durato diverse generazioni. Dovettero lentamente maturare in entrambi i popoli il desiderio di porre fine alla contrapposizione frontale e il giudizio che sulle opposizioni volte al passato dovevano aver la meglio le esigenze del presente e la prospettiva di un futuro di pace. Documenti e monumenti mostrano che i longobardi acquisirono lentamente il senso del territorio come propria stabile dimora, confrontandosi con quanto esso trasmetteva riguardo alle modalità del vivere associato, le sue città e la loro forza organizzativa e culturale. L’editto di Rotari (643), scritto in latino, aprì la via a considerare destinatari dell’attività legislativa longobarda anche gli italici. Dal canto loro, privi di prospettive imperiali, questi ultimi dovettero abbandonare l’opposizione al “barbaro” e ridefinire il proprio ruolo nella società che si andava costituendo. Anche la conversione al cristianesimo avvenne secondo un processo lento e diffuso: non vi furono gesti clamorosi né grandi controversie di religione, ma l’azione di numerosi protagonisti: monaci missionari, sacerdoti bizantini, papa Gregorio Magno (che pure viveva in territorio bizantino), nobili che accettarono di fondare chiese battesimali nelle loro terre. Alla discesa in Italia i longobardi erano prevalentemente pagani piuttosto che ariani e l’arianesimo non costituì mai un fattore identitario decisivo. L’adesione alla forma trinitaria della fede cristiana non fu imposta con la forza ma accadde nella molteplicità degli incontri, stimolata dal fascino di alcune figure: santi eremiti, la regina di origine bavara Teodolinda, Colombano e i suoi monaci, santi della tradizione come Giovanni Battista e Michele. Nondimeno lo storico Paolo Diacono, ripensando alle vicende del suo popolo, poté leggere in filigrana nel cristianesimo trinitario un tema profondo della loro storia, un segno dell’amore di Dio nei loro confronti e uno dei fondamenti del loro incontro con gli italici.
Queste vicende, come le molte altre qui non ricordate, mostrano che sempre i movimenti di popolazioni si inseriscono creativamente in una rete di relazioni complessa nel tempo e nello spazio, dalle motivazioni molteplici e dagli esiti più vari. Muovendo da questa consapevolezza, che il discorso storico offre alla generale riflessione sulle migrazioni, sarà possibile acquisire quello sguardo proiettato oltre l’urgenza immediata che pare indispensabile per inventare modalità di convivenza capaci di futuro.

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