Il nostro decisore pubblico non ha in cima ai propri pensieri l’università. Ritiene la questione marginale, poco o per nulla meritevole di attenzioni particolari. Tanto è vero che il tema non accende discussioni, soprattutto ora che siamo in campagna elettorale: la cultura non porta voti. Qualche voce ragionevole confida che i denari previsti nel PNRR per l’università non vadano sprecati per eccesso di distrazione dovuto alle elezioni settembrine. Sarebbe grave. Una conferma della storica marginalità. Eppure, come insegnano altri Paesi, investire nella conoscenza e nell’università rappresenta un passaggio cruciale per la formazione della nuova classe dirigente e per la crescita sostanziale delle persone. Ecco perché l’argomento è di grande attualità. Ecco perché è opportuno accendere i riflettori su questo deficit strutturale che ci sta impoverendo. Come si prova a fare con questo numero di Nuova Atlantide. Avviando una riflessione a tutto campo provocata da domande che bruciano. Perché autentiche.
Questo numero di Nuova Atlantide in pratica lo abbiamo portato a conclusione mentre calavano le tenebre sul governo di Mario Draghi; si palesava così l’ora più buia a decretare la fine anticipata della legislatura. Una faccenda molto seria, insomma. Non estranea – per rimanere all’interno del nostro orticello editoriale – alla riflessione di un monografico che ha inteso accendere l’attenzione su un tema di grande attualità (anche se – osservato distrattamente – potrebbe far pensare il contrario): l’orizzonte della conoscenza e il suo riscontro nell’esperienza dell’università quali leve fondamentali per la formazione di una classe dirigente. E senza cedere alla battuta facile e a salaci interventi innervati di qualunquismo, non si può non rilevare come l’evidenza della crisi delle rappresentanze abbia tra le sue cause principali proprio la scarsa considerazione del decisore pubblico verso il soggetto università. Si è rotto qualcosa. Per tutto il numero scorre questo leit motiv preoccupato. Nella consapevolezza che non vi possa essere crescita e sviluppo del Sistema Italia in assenza di una classe dirigente all’altezza. Eppure, nel dibattito pubblico italiano l’università trova, se non in poche circostanze, una collocazione marginale. Parrebbe non essere ritenuta un asset strategico. Come se l’istituzione non rispondesse più a un’esigenza concreta. Infatti, i giustificati timori per le ripercussioni in materia di PNRR – ovvero per l’incertezza legata alle elezioni anticipate destinate, come minimo, a rimettere in discussione il calendario degli esborsi del Recovery Fund all’Italia a fronte di obiettivi e traguardi in termini di riforme e investimenti – non mettono adeguatamente in luce gli effetti negativi che avrà sull’università e dovuti all’ormai inevitabile ritardo nel percorso di attuazione degli impegni presi rispetto ai finanziamenti europei, che sono nell’ordine dei 30 miliardi di euro. Il che, evidentemente, non aiuta. Anzi. Perché, come viene spiegato dettagliatamente in più articoli e con dovizia di particolari nell’intervista a Stefano Paleari, i finanziamenti previsti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresentano per l’università più di un’opportunità. Concetti rafforzati e ulteriormente precisati nell’articolo di Giacomo Pignataro.
Dietro ogni stato di crisi c’è un’opportunità
A voler guardare il lato positivo delle cose, bisognerebbe far nostro quanto diceva l’economista austriaco Joseph Schumpeter. Lui propendeva per il bicchiere mezzo pieno. E cioè: dietro ogni stato di crisi si cela un’opportunità; perché ogni accadimento negativo contiene al suo interno una forza rigeneratrice in grado di far uscire dal cul de sac.
Dunque, secondo questa visione, fatta calare nel nebuloso presente, ci sarebbe un futuro per il PNRR e di conseguenza un futuro per la strategica novità: una riforma strutturale dell’università che apra alla possibilità di formare l’indispensabile nuova classe dirigente. Grazie al contributo decisivo dei fondi.
Il ritardo tutto italiano (ma con la Brexit pure nel Regno Unito si avvertono scricchiolii sistemici, come racconta Alessandro Giudici) che raggiunge nel Mezzogiorno dimensioni allarmanti e penalizzanti per un’utenza sfiduciata e in fuga (Mazzarella), si aggrava nel confronto con altri Paesi laddove è nelle cose la collocazione dell’università al cuore dello sviluppo. Le élites vengono formate nei campus se pensiamo, ad esempio, agli Stati Uniti. Con la sorprendente esperienza (sorprendente vista da qui) dell’offerta dell’università online, proposta assolutamente competitiva con il modello più tradizionale (Jaci Lindburg). La classe dirigente è perciò parte della soluzione dei problemi. E non pietra d’inciampo.
L’uomo al centro della conoscenza
Ma per vivere appieno e con il respiro che merita tale vicenda, serve appoggiarsi a pilastri del pensiero che sulla conoscenza hanno speso la vita. Ecco allora la scelta di aprire il numero con qualche affondo del grande studioso Edgar Morin che, dall’alto dei suoi 101 anni, non si arrende alla complessità come accidente della storia, ma invita l’uomo ragionevole a viverla in nome di un umanesimo rigenerato. Ecco il respiro. La complessità che non soffoca l’uomo e che diventa opportunità come richiamava Schumpeter.
L’umanesimo rigenerato è il succo della sfida di questo tempo. L’umanesimo rigenerato è il sale che insaporisce la pietanza università. Come ci ricorda nella sua ampia riflessione (che non a caso si è collocata in apertura come editoriale) Mauro Magatti. L’uomo al centro della conoscenza. Ma l’uomo relazionale, che continuamente si rigenera nel rapporto con l’altro da sé. Il passaggio è rilevante. Quasi un punto di discrimine. Infatti non può che essere il metodo della relazione a fare università. È pensabile una vita dell’università senza un dialogo fecondo tra chi tutti i giorni la anima? Non c’è università senza comunità. Tuttavia, il presente dice che i rapporti sono sfilacciati. E le ragioni sono molteplici. Tra le criticità più conclamate e finora affrontate con superficialità e scarsa consapevolezza, vi è la questione della diseguaglianza di genere. I dati parlano di un disagio profondo: meno di 2/5 dei professori ordinari, direttori di dipartimento e rettori sono donne, così come solo meno di un terzo degli autori di articoli scientifici sono donne (Carola Carazzone). Qualcosa è stato fatto (poco), molto resta da fare. Un deficit francamente insostenibile.
Altre criticità si richiamano all’architettura dell’università. Alla sua configurazione e agli scopi che si prefigge. Ci si trova a operare nell’accertata difficoltà di risposta ai cambiamenti, alla domanda dei nuovi studenti. Anziché la relazione, fin qui ha prevalso una risposta dell’università che suona come un mettersi sulla difensiva. Sembra proprio essere venuto meno il senso di appartenenza alla comunità fra docenti e studenti (Luisa Ribolzi). E il contributo ospitato di uno studente cosiddetto “impegnato” certifica l’impasse (Guglielmo Mina).
L’umanesimo sorgente di risveglio
Umberto Galimberti, sensibile al tema, lo prende per un altro verso. Spiega che nella vita non si va avanti perché c’è qualcuno che ci spinge. Si va avanti perché c’è qualcosa che ci attrae. Il punto allora è quello di mettere in atto un dialogo attrattivo. Motivazionale. Altrimenti i ragazzi li perdi. E anche Galimberti chiama in causa l’umanesimo come sorgente di risveglio. Ma non in antitesi alla scienza. Piuttosto in relazione con la scienza. La separazione è sempre un guaio. Come esprime Ivano Dionigi ricorrendo a un’immagine efficace: per molti secoli la cultura della mano e quella del cervello hanno frequentato gli stessi territori. Con reciproca soddisfazione. Poi, ecco lo squilibrio. Da cui nessuno trae vantaggio. Due culture che viaggiano separate contribuiscono con molti limiti al gioco della conoscenza.
Il gioco della conoscenza può essere un gioco assai appassionante da praticare. E l’università il suo sbocco naturale. E qualsiasi intervento sull’università non può essere slegato dalle profonde trasformazioni che coinvolgono l’esistenza dell’uomo su tutto il pianeta. Così il suo ripensamento va inquadrato nella prospettiva di costruire sempre più ambienti aperti e ricettivi: “L’obiettivo non può essere quello di trasmettere singole competenze e singole tecniche; piuttosto quello di formare saldamente le persone sul piano culturale”. Ed è efficace la frase di sintesi a cui ricorre: “L’università deve fornire le chiavi per apprendere ad apprendere”. Così si sviluppa un’intelligenza capace di imparare a leggere e interpretare la complessità. Che è poi quell’intelligenza a cui è chiamata la nuova classe dirigente.
Apprendere ad apprendere, appunto. Una missione di sostanza. E a proposito di missione come apertura e continua verifica occorre insistere sulla terza missione. Per creare e cementare i rapporti con la società civile e il territorio. Quel “trasferimento” di conoscenza è domanda di crescita e sviluppo. Non solo per le realtà imprenditoriali ma per tutti i soggetti attivi che generano valore e benessere. Un serbatoio di pensiero applicato fondamentale nell’epoca caratterizzata da shock sanitari, umanitari e morali (Remo Morzenti Pellegrini).
Le condizioni per creare valore
Ma siamo così certi che l’università sia creatrice di valore e sviluppo e che pertanto sia conveniente investirvi? Lanfranco Senn riflette su questa domanda e scansa la risposta affermativa a priori. Suggerisce un percorso per giungere al sì: “Conviene investire nell’università se si verificano certe condizioni. Dunque, ‘dipende’. Questa risposta, ben lungi dall’essere relativista e qualunquista, assume un senso costruttivo se alle domande di base se ne accompagna anche un’altra più approfondita: a quali condizioni l’università crea valore e sviluppo e quindi a quali condizioni conviene investire? Non esiste una ricetta o una risposta univoca. L’università crea indubbiamente delle opportunità, ma che crei valore e sviluppo dipende dalla responsabilità (dal latino “respondeo”) con la quale la si progetta e la si gestisce e per far fronte a quali bisogni. Questioni dirimenti. Che chiamano in causa direttamente “la questione”: la qualità dell’offerta. E quindi come la si misura; quali criteri vengono adottati e come vengono applicati per valutare gli atenei a proposito di attività didattica, ricerca e terza missione (Massimo Castagnaro). L’attrattività di un ateneo si misura anche – se non soprattutto – con la qualità della proposta continuamente monitorata. E questo favorisce una concreta apertura ai mondi.
L’internazionalizzazione delle tre missioni
E siamo al processo di internazionalizzazione dell’università. Che esprime ai livelli più significativi il metodo virtuoso della relazione. Ne parlano De Wit e Altbach con riferimenti e preoccupazioni realistiche connesse agli inevitabili riassetti geopolitici che già stanno emergendo con la guerra. Scrivono: “Negli ultimi tre decenni, l’internazionalizzazione dell’istruzione superiore, da attività marginale, si è trasformata in un aspetto chiave dell’agenda delle riforme e, in alcuni casi, in una realtà economica fondamentale per alcune università. Attualmente, le sfide globali e le tensioni geopolitiche, palesate in particolare, ma non solo, dalla pandemia da Covid-19, dall’invasione della Russia in Ucraina e dalla pressione del cambiamento climatico, creano nuove sfide e bisogni per la collaborazione accademica e l’internazionalizzazione delle tre missioni dell’istruzione superiore: istruzione, ricerca e servizio alla società”. E un buon esempio di università aperta a percorsi di internazionalizzazione viene da Bolzano. Due docenti di economia ne raccontano la genesi, il presente e gli investimenti per continuare a crescere nel segno e nel senso di un’attrattività motivata e alimentata dai risultati (Boffa e Tonin).
Università aperta e non autoreferenziale (quante volte adotta questa postura!) come sottolineano alcuni autori. Un’apertura che non è mai forzatura. Ma un modo diverso di pensare le cose che è già movimento delle cose. L’uomo e ancora l’uomo è il soggetto che decide. Un soggetto non egemone, che non divide, che promuove il sapere unitario. Dionigi chiarisce e rilancia la sfida per un’università che è già futuro. Così: “Abbiamo necessità di umanesimo e di Socrate come suo profeta: un umanesimo inteso non come riedizione di un momento culturale storico, non come l’altra metà del pensiero e del sapere, non come punto di vista particolare sul mondo, ma come capacità di fronteggiare una triplice responsabilità, di cui l’ideologia tecnocratica – tutta protesa al paradiso terrestre di “un’Atene digitale” e all’utopia illimitata di una “società postmortale” – non si cura: riscoprire il pensiero interrogante, nella consapevolezza che l’ars interrogandi è più difficile ma più decisiva dell’ars respondendi”. Un umanesimo delle domande: pensiero stupendo.