Trimestrale di cultura civile

Editoriale. Discernere, desiderare, creare

  • AGO 2022

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Una delle urgenze del nostro tempo riguarda lo squilibrio tra il livello tecnologico della supersocietà, la sua complessità e la formazione delle persone. Appoggiarsi agli schemi del passato non serve più. Oggi occorre tenere insieme tutti gli aspetti della realtà e ciò significa andare oltre le logiche specialistiche e localistiche. C’è la necessità di persone capaci di uno sguardo d’insieme. Nella supersocietà le nuove generazioni vanno accompagnate per affrontare la realtà in antitesi agli automatismi. E questo passaggio decisivo implica un ripensamento radicale, un modo diverso e originale di pensare e intendere l’educazione. Secondo il metodo relazionale. Laddove si fa esperienza del legame indissolubile tra insegnamento e conoscenza. Un’esperienza entusiasmante. Per mettersi alle spalle il falso movimento della ripetizione dell’identico.

“Houston, we have a problem”, così esclamava Jack Swigert, il comandante di Apollo 13, constatando che i piani non corrispondevano alla realtà. In effetti, dobbiamo prima di tutto riconoscere che, nonostante i tanti passi in avanti, il problema posto da Tocqueville e Dewey è ben lontano dall’essere risolto. Non ci sono solo ritardi organizzativi o finanziari. C’è una questione a monte che riguarda il processo di formazione delle persone e di consolidamento e trasmissione del sapere in quanto tale. Lo squilibrio tra il livello tecnologico della supersocietà1, la sua complessità e la formazione delle persone, è uno dei temi più urgenti del nostro tempo.

Non c’è nessuna possibilità di procedere sensatamente nella direzione indicata dal nuovo ambiente tecnologico (digitalizzazione) e dalla nuova consapevolezza planetaria (sostenibilità) senza una revisione profonda dei processi educativi e formativi.

Il tema del passaggio generazionale oggi sta tutto qua: a partire dal riconoscimento dell’inadeguatezza di un modo di pensare che, innovando e specializzando, aumenta le possibilità di vita ma insieme l’entropia, quali sono le condizioni per consegnare alle nuove generazioni la responsabilità di un nuovo pensiero e di una nuova forma di azione all’altezza della complessità in cui viviamo?

Compito del pensiero è la cura

La questione epistemologica che si pone con la supersocietà non può non avere riflessi sulle pratiche educative. Gli schemi consolidati del secolo scorso non bastano più, semplicemente perché abbiamo bisogno di tenere insieme i diversi aspetti della realtà e di andare al di là delle logiche specialistiche e localistiche. Di fronte all’eredità problematica che consegniamo ai giovani – un mondo accresciuto, ma immerso in livelli insostenibili di entropia e antropia – la generazione dei baby boomers dovrebbe ammettere che è molto di più quello che rimane da capire e da fare rispetto a quello che si è capito e fatto. Le nuove generazioni vanno accompagnate ad affrontare, con uno sguardo diverso, i problemi nuovi di questo nuovo secolo. La questione del passaggio generazionale nella supersocietà va dunque ripensata radicalmente.

Non abbiamo bisogno di più tecnici specializzati ma di più persone capaci di uno sguardo d’insieme. Ma ciò implica la consapevolezza che l’atto di educare si pone in antitesi a ogni automatismo, e richiede di ricostituire la capacità di prestare attenzione e, di conseguenza, rinnovare l’attitudine al discernere, desiderare, creare. Bernard Stiegler efficacemente sottolinea l’assonanza tra penser (pensare) e panser (medicare, curare). Compito del pensiero è la cura. Il suo obiettivo non è tanto quello dell’addestramento al sistema così com’è, per renderlo più efficiente; ma quello di consentire un’esperienza entusiasmante che permetta di immaginare diversamente, mettere in discussione, porre domande, ideare soluzioni, trovare nuove connessioni. Lo ricorda ancora una volta Stiegler: “L’insegnamento non è solo la trasmissione del sapere, ma anche della conoscenza. Quest’ultima non accede a tale statuto se non a condizione di essere pubblicamente ed esplicitamente trasmissibile: insegnamento e conoscenza sono indissociabili. […] un insegnamento è sovente accompagnato da una educazione e presuppone perciò la trasmissione di un saper-vivere. […] La questione diviene […] quella di una nuova Bildung, ossia di una lotta costante per immunizzare il più possibile gli individui psichici così formati contro la deformazione che costituisce potenzialmente l’automa assoluto”2. Educare è biforcare.

Un “ocean” per valorizzare le capacità

Howard Gardner è il padre della teoria delle “intelligenze multiple”. Secondo l’autore americano, l’intelligenza umana è capace di adottare prospettive differenti, ognuna delle quali fa riferimento a una particolare forma di intelligenza irriducibile ai parametri del quoziente intellettivo. Nei suoi testi, Gardner distingue tra intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestesica, oltre che tra intelligenza interpersonale e intrapersonale. Poliedrica e multidimensionale, l’intelligenza si incarna in maniera unica in ogni singola persona: “È arrivato il momento di ampliare la nostra concezione della gamma dei talenti. Il più importante contributo che la pedagogia può dare allo sviluppo di un bambino è quello di aiutarlo e guidarlo verso un campo nel quale i suoi talenti siano più adatti, e in cui egli possa sentirsi soddisfatto e competente. Abbiamo completamente perso di vista tutto questo. […] Dovremmo passare meno tempo a classificare i bambini e più tempo ad aiutarli a identificare e coltivare le loro competenze e i loro talenti naturali. Ci sono centinaia e centinaia di modi diversi per avere successo, e molte, moltissime diverse capacità che possono aiutare a farlo”3.

Ciò significa che la valorizzazione delle capacità individuali comporta il superamento di un approccio riduttivo – centrato su competenze standardizzate e puramente funzionali – a favore di una visione integrale basata sulle capabilities che comprendono anche quelle che il premio Nobel James Heckman chiama character skills o tratti di personalità: ovvero “schemi concettuali, emozionali e comportamentali relativamente durevoli, che riflettono la tendenza a rispondere in modo particolare in particolari circostanze”. Secondo l’autore americano4 le soft skills fondamentali – compendiate nell’acronimo ocean: apertura all’esperienza (Openness to Experience), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extraversion), amicalità (Agreeableness) e stabilità emotiva (Neuroticism) – sono predittive della capacità di affrontare in modo competente e creativo le varie situazioni nelle quali ci troviamo ad agire.

È la ricomposizione tra i piani che abbiamo finora tenuti separati – cognitivo ed emotivo, strumentale e motivazionale, astratto e concreto – ciò che può fare la differenza nei percorsi formativi. In un momento in cui le competenze cambiano rapidamente, l’educazione serve per ricostituire un nuovo punto di incontro tra domanda di realizzazione personale ed esigenze sociali. Altro sono le competenze (skills), altro è il sapere (noesi). Le competenze sono strumentali al buon funzionamento di un sistema che è sempre più entropico. Invece, insiste Stiegler, “la pratica di ogni forma di sapere è ciò che permette ai viventi tecnici (exosomatici) di fare in modo che i loro organi artificiali siano portatori di più negantropia che antropia. È la ragione per la quale la vita degli esseri umani è organizzata in modo da far loro acquistare e accrescere un sapere che è trasmesso di generazione in generazione attraverso istituzioni che permettano questa trasmissione (istituzioni educative, accademiche, scientifiche). I saperi hanno un valore pratico, o anti-antropico”5.

In una parola, per contrastare le potenti spinte entropiche che attraversano il mondo contemporaneo, abbiamo bisogno di una nuova forma di educazione, che chiamiamo epimeletica.

È l’etimologia della parola greca melete (cura) che illumina questo passaggio. Epimeleia è un termine “integrale” che riconnette desiderio e ragione, emozione e volontà, interesse e azione, privato e pubblico. Le sue tre accezioni illuminano aspetti diversi nella loro reciproca interazione. Una prima dimensione, insieme epistemologica ed esistenziale, è quella dell’attenzione: per prendersi cura occorre prima di tutto saper vedere, far uscire dall’invisibilità (e, come abbiamo visto, la velocità è nemica dell’attenzione), fermarsi.

La seconda dimensione è quella della sollecitudine, del dedicarsi, dello spendersi (dell’affezione, dell’investimento libidico).

E la terza riguarda l’impegno, la capacità di investire le proprie energie, come attribuzione di valore a qualcosa – una dimensione, se vogliamo, anche politica della cura. È questa la dinamica educativa per eccellenza, che consente di formarsi. Cioè di individuarsi e coindividuarsi. Non in maniera oppositiva (l’identità come modo della differenziazione complementare) ma collaborativa.

Per questo educare non è conformare ma trasformare: o, come afferma Stiegler, non “trasmettere un sapere stabilizzato”, ma “trasmettere un non-sapere (in senso Socratico) metastabilizzato”. Educare è trasformare sé, il proprio sapere, le condizioni di individuazione di chi viene educato. L’educazione riuscita è sempre una coindividuazione, che può avere luogo quando chi trasmette si lascia reincantare dal proprio sapere, lo reinterroga e rigenera alla luce delle nuove domande, è disposto a entrare con i propri educandi in una dinamica aperta di reciprocità trasformativa.

Aggiornare i nostri sistemi formativi

Ripensare l’educazione alla luce di queste direttrici è un compito enorme, soprattutto se si pensa di renderlo praticabile per l’intera popolazione, per poter contare sul contributo personale di ciascuno.

Ma non c’è altra scelta. Lo squilibrio rispetto al sistema tecnico è destinato a esplodere laddove la formazione delle persone non sarà adeguata ad affrontare le nuove situazioni associate alla supersocietà.

In questa situazione, vi sono buone ragioni per sostenere che la questione della formazione abbia bisogno di un ripensamento radicale, simile a quello che fu fatto dai nostri antenati. Non si tratta di introdurre qualche piccolo aggiustamento, aumentando di qualche decimale la spesa per la scuola. Si tratta di ridisegnare per intero il percorso e la fisionomia del processo formativo, procedendo su tre assi.

Se è vero, come ha insegnato Jean Piaget, che “la conoscenza è un processo di costruzione continua” allora è necessario aggiornare i nostri sistemi formativi alle esigenze del mondo in cui viviamo.

Ciò comporta una scelta di campo: mettere al centro la qualità delle persone e delle relazioni. Come scrive Amartya Sen: “Diversamente dalle prospettive che si concentrano su utilità e risorse, l’approccio delle capacità misura il vantaggio individuale in ragione della capacità che la persona ha di investire la propria vita sulle cose a cui, per un motivo o per l’altro, assegna un valore: il vantaggio di un individuo in termini di opportunità è da considerarsi inferiore rispetto a quello di un altro se a tale individuo sono date minori opportunità effettive di realizzare ciò a cui attribuisce valore. L’attenzione va qui all’effettiva libertà delle persone di fare o essere ciò che ritengono valga la pena di fare o essere. L’idea di libertà, però, contempla anche il nostro essere liberi di stabilire cosa volere, cosa investire di valore e cosa decidere di scegliere. Il concetto di capacità è quindi strettamente connesso con l’aspetto della libertà relativa all’opportunità”6.

Procedere in questa direzione non è affatto facile. Anche perché comporta scardinare una delle premesse del pensiero moderno: l’idea di un io sovrano che esercita un rapporto di dominio nei confronti della realtà che lo circonda.

È venuto il momento di liberarsi della pesante eredità del pensiero industrialista, che ci inchioda all’idea che la massima espressione della nostra libertà abbia che fare con la fabbricazione e il possesso di cose e quindi di persone.

È come se dovessimo disincastrarci dall’interpretazione puramente pulsionale dell’oggetto transizionale, cioè dell’oggetto a cui il nostro desiderio si applica, creando uno spazio di significati condivisi che alimentano relazioni e legami. Più che Freud, qui ad aiutarci è Donald Winnicott, secondo il quale nella soddisfazione orale del bambino, quello che conta non è tanto il rifornimento alimentare (cioè la gratificazione della pulsione) ma lo scambio, l’empatia che si instaura con la madre. È dunque la relazione, più che l’oggetto in sé, che fornisce all’individuo quel “nutrimento” emotivo che gli permette di vivere e di avere fiducia nella vita. In questo modo, Winnicott coglie la centralità dei bisogni di relazione per lo sviluppo psichico. “Un bambino può essere nutrito senza amore, ma un accudimento impersonale o senza amore non può avere successo nel far crescere un bambino autonomo”7.

“Consistere senza esistere”

Non è dunque la gratificazione pulsionale a costituire il fondamento delle relazioni. La gratificazione di per sé non è sufficiente. Al di là della pulsione che punta all’oggetto, l’importanza dell’oggetto transizionale che lega la madre al figlio sta nel fatto di creare un mondo di significati condivisi che non si chiude su se stesso. In questo modo, “l’oggetto transizionale, creando lo spazio per ciò che è infinito, consiste precisamente nella misura e nella dismisura di ciò che non esiste, dato che esistono solo cose finite”8. È questo “consistere senza esistere”, come afferma Stiegler, ciò che, nel costruire un rapporto di amore e di cura, permette alla madre di dare senso alla propria azione e al bambino di sviluppare la fiducia nella vita. “L’oggetto transizionale è il primo farmaco perché è allo stesso tempo un oggetto esterno rispetto a cui sia la madre che il bambino sono dipendenti […] è un oggetto che non esistendo ma consistendo permette la sovranità sia della madre che del bambino”. Questo spazio transizionale definisce un legame che può sì degenerare in una forma di dipendenza e di dominio, ma può anche rendere possibile una relazione di cura aperta, attraverso cui sia la madre che il bambino assaporano ciò per cui vale la pena vivere.

È dentro questa prospettiva transizionale – cioè processuale, relazionale, aperta, simbolica, strutturalmente incompiuta – che è possibile rimettere in movimento il desiderio al di là dell’ordine sociale consumerista che, mitizzando la possibilità di una fusione immediata e totalizzante con l’oggetto, blocca il dinamismo della spinta desiderante, incatenandola al falso movimento della ripetizione dell’identico.

1.C. Giaccardi, M. Magatti, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?, Il Mulino, Bologna 2022.

2. B. Stiegler, La società automatica, Meltemi, Milano 2019.

3. H. Gardner, Forma mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano 2013, p. 58.

4. Poi ripreso in Italia da Fondazione per la Sussidiarietà e specialmente in G. Vittadini, Introduzione, in J.J. Heckman, T. Kautz, Formazione e valutazione del capitale umano, Il Mulino, Bologna 2017; G. Chiosso, A.M. Poggi, G. Vittadini, Viaggio nelle character skills, Il Mulino, Bologna 2021.

5. B. Stiegler, Bifurquer: Il n’y a pas d’alternative, Les Liens que liberent, Paris 2020, p. 132.

6. Amartya K. Sen, Tra economia ed etica, Edizioni Studium, Roma 2017

7. D. Winnicot, Gioco e realtà, Armando, Roma 2005.

8. Ibidem.

Mauro Magatti è Professore ordinario di Sociologia generale presso l’Università Cattolica di Milano; è sociologo, economista ed editorialista del Corriere della Sera.

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