Trimestrale di cultura civile

“Mascolinità tossica” e cambiamento di paradigmi culturali

  • AGO 2022
  • Carola Carazzone

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Quando si parla di conoscenza e di università, in particolare, sono diversi i temi e molte le sfaccettature che ineriscono alla questione della diseguaglianza di genere. I dati dicono di un profondo disagio: meno di 2/5 dei professori ordinari, direttori di dipartimento e rettori sono donne, così come solo meno di un terzo degli autori di articoli scientifici. E se, da un paio di decenni, il numero di donne che si laureano ha superato quello dei maschi, ciò non comporta una riduzione delle diseguaglianze all’entrata nel mondo del lavoro. Con notevoli discriminazioni legate alla rappresentanza in posizioni di leadership, alla progressione di carriera, alle retribuzioni, alla misurazione della performance. Si tratta di un problema globale. Ma che raggiunge nel nostro Paese percentuali allarmanti. Dovute, in modo particolare, a motivi psicologici e sociali. Dunque, è necessaria una strategia Paese a 360°. Con la collaborazione di tutti. Fondamentale avviare percorsi di formazione sugli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci in materia di genere.

L’eguaglianza – o meglio la diseguaglianza – di genere nell’ambito della conoscenza in generale, e delle università in particolare, è una questione complessa, in cui si intersecano diversi temi e molte sfaccettature: segregazione per tipologia di facoltà, numero di donne che conseguono il dottorato, differenziale di retribuzione, progressione nella carriera, numero di donne in posizioni di leadership, percentuale di ricercatori donne che ottengono fondi, risultati conseguiti in termini di ricerca, doppie discriminazioni e discriminazioni intersezionali.

Negli ultimi anni si è parlato molto di diseguaglianza di genere, in particolare in riferimento all’accesso e, più specificamente, rispetto all’accesso alle facoltà STEM1. Vorrei riprendere questo tema tra poco, ma prima vorrei proporre uno sguardo d’insieme sulla questione delle diseguaglianze di genere nell’ambito della conoscenza e dell’università nel suo complesso.

Le diverse diseguaglianze di genere nella conoscenza e nell’università: inconfutabilità dei dati e complessità

A livello globale2, oggi moltissime università (4/5) raccolgono e tengono conto di dati disaggregati per genere per analizzare l’iscrizione al primo anno (accesso universitario); molte meno università invece (meno di due terzi) tracciano i risultati universitari e ancora meno elaborano piani per colmare i gap di genere.

Sempre a livello globale, i dati dimostrano ormai chiaramente che un maggior numero di studentesse all’università non comporta un maggior numero di donne tra le posizioni accademiche di leadership. Meno di 2/5 dei professori ordinari, direttori di dipartimento e rettori sono donne, così come solo meno di un terzo degli autori di articoli scientifici sono donne3.

Nella maggior parte dei Paesi OECD4, rimane evidente una segregazione per tipo di facoltà, con una minoranza di donne nei percorsi universitari con maggior valore economico per la tipologia di diploma conseguito. Sebbene, poi, in generale, le donne si laureino prima e meglio dei maschi e, ormai da un paio di decenni, il numero di donne che si laureano abbia superato quello dei maschi, ciò non comporta una riduzione delle diseguaglianze all’entrata nel mondo del lavoro, in cui permangono gravi discriminazioni legate alla rappresentanza in posizioni di leadership, alla progressione di carriera, alle retribuzioni, alla misurazione della performance.

Nell’ultimo decennio, a partire dalla adozione della comunicazione in merito della Commissione Europea su ERA – European Research Area del 2012, l’eguaglianza di genere come priorità è stata progressivamente rafforzata. La comunicazione della Commissione Europea 2020 per la parità di genere nella ricerca e innovazione (R&I) sta producendo varie misure e iniziative, tra cui molto importante il fatto che la parità di genere sia stata posta come principio trasversale nel programma quadro per la ricerca e l’innovazione 2021-2027.

L’Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere (EIGE, https://eige.europa.eu) ha sviluppato un toolkit Gender Equality in Academia and Research - GEAR tool5 per integrare un Gender Equality Plan nella propria istituzione universitaria.

In Italia, sulla base di una indicazione della CRUI del 2019, diverse università – anche sull’esempio di alcune pioniere early adopters come le università di Bologna e Cagliari6 – hanno cominciato a redigere bilanci di genere.

Negli ultimi anni, l’inconfutabilità dei dati ha tolto la foglia di fico ad aprioristici scetticismi, svalutazioni e sminuimenti7. She Figures8, pubblicata dalla Commissione Europea per la prima volta nel 2003 e da allora aggiornata ogni tre anni, monitora con dati paneuropei comparabili lo stato dell’eguaglianza di genere in ricerca e innovazione.

A partire dal 2013, l’EIGE monitora progressi e recessioni dell’eguaglianza di genere nell’Unione Europea e nei singoli Paesi europei in sette aree chiave: lavoro, finanza, conoscenza, potere, tempo, salute e violenza (anche in base a indicatori che tengono conto delle diseguaglianze intersezionali). La prospettiva sistemica dell’EIGE è estremamente utile per mettere in relazione le diseguaglianze di genere tra diverse aree e comprenderne la complessità e le interrelazioni.

L’Italia è andata peggiorando costantemente nell’area della conoscenza, con un aggravamento a partire dal 2018, trainato da un fenomeno di separazione tra uomini e donne per facoltà tale che l’EIGE usa il termine di segregazione9.

Finalmente, dunque, i dati ci sono: non ci sono scuse. Quantità sempre maggiori di dati ci restituiscono fotografie chiare e urtanti, ma, oltre ai dati, è necessario andare a fondo delle cause, correlazioni e interdipendenze e, soprattutto, arrivare a identificare e affrontare i paradigmi culturali sottesi. Proprio per questo vorrei tornare a un ambito emblematico dell’appannaggio maschile: la questione della diseguaglianza di genere nelle materie STEM, ambito in cui il rapporto 2022 di Almalaurea10 ci dice che, in Italia, solo 12 donne su 1000 decidono di laurearsi, arrivando a occupare poco più del 30% delle posizioni lavorative a livello tecnico-scientifico, un tasso che rappresenta il più basso d’Europa11.

STEM e la storia delle donne nell’informatica

C’è una storia, poco conosciuta o magari intenzionalmente sottaciuta, che trovo illustrativa del profondo problema culturale sotteso a questi dati. È raccontata in un’inchiesta condotta da Clive Thompson, giornalista del New York Times, ed è basata su numerose ricerche e indagini pregresse12, su come è cambiato il ruolo delle donne nell’informatica a partire dal secondo dopoguerra a oggi negli Stati Uniti.

A partire dagli anni Cinquanta e fino ai primi anni Ottanta, a differenza della costruzione e del funzionamento dei primi enormi hardware antesignani dei computer, che erano considerati già allora un’eroica impresa ingegneristica da uomini, per quasi trent’anni la programmazione dei precursori degli attuali software fu considerata un lavoro umile, quasi da segretarie, e le donne furono il maggior numero dei programmatori.

In base all’inchiesta di Thompson, è possibile individuare un momento preciso a partire dal quale le donne cominciarono a essere estromesse dalla formazione e dal lavoro di programmatori: è il 1984.

In quell’anno negli USA, il 37% dei laureati in informatica erano donne. Poi, a partire dal 1984, la tendenza si invertì e la percentuale iniziò a scendere. Nel 2010 negli USA le donne erano solo il 17,6% di chi partecipava ai corsi universitari di scienze informatiche.

Uno dei motivi di questo calo vertiginoso fu l’avvento dei personal computer. Fino all’inizio degli anni Ottanta quasi nessuno degli studenti – maschi e femmine – che arrivava al college a studiare informatica aveva mai toccato un computer. Erano macchine rare e costose, di cui potevano disporre quasi esclusivamente gli enti pubblici, i laboratori di ricerca e le grandi aziende.

A partire dagli anni Ottanta, quando i pc entrarono nelle case, la discriminazione di genere nelle famiglie, gli stereotipi e i pregiudizi espliciti e inconsci, deflagrarono con un impatto profondo su conoscenza e università. Varie ricerche hanno dimostrato, infatti, che nelle famiglie statunitensi negli anni Ottanta c’era il doppio delle probabilità che i figli maschi ricevessero in regalo un pc dai genitori, ed era prassi che, se un computer entrava in casa, andasse a finire nella stanza del figlio invece che in quella della figlia. I maschi tendevano, inoltre, a collaborare con i padri, studiavano i manuali di linguaggio Basic con loro ed erano incoraggiati a imparare, cosa che non succedeva alle figlie.

Le profonde radici psicologiche, oltre che culturali, di questo tipo di diseguaglianze spiegano perché le classi del primo anno di università negli anni Ottanta negli Stati Uniti iniziarono a dividersi in un folto gruppo di ragazzi che conoscevano bene i concetti base della programmazione e un piccolo gruppo di ragazze che spesso erano totalmente principianti.

Si era andato a creare così uno scisma culturale che portava le donne a dubitare delle proprie capacità.

Negli anni Ottanta negli Stati Uniti il lavoro pionieristico svolto dalle programmatrici nei quasi tre decenni precedenti, era andato dimenticato. Anzi, Hollywood stava cominciando a presentare lo stereotipo opposto: i computer erano il regno dei giovani maschi bianchi13. Allo stesso tempo, i videogiochi – una delle attività che portavano i teenager a interessarsi ai computer – erano rivolti molto più spesso ai ragazzi.

Dietro questa cappa sessista si nasconde il fantasma della sociobiologia, secondo cui gli uomini sarebbero più adatti alla programmazione rispetto alle donne, perché la natura ha dato loro più qualità necessarie per eccellere in quel campo.

Secondo l’inchiesta di Thompson, tra gli uomini della Silicon Valley è molto radicata l’idea che il mondo dei programmatori sia governato dalla meritocrazia, e la sociobiologia offre una giustificazione a chi nega o sminuisce il sessismo sul posto di lavoro.

Proprio quando le facoltà di informatica e matematica iniziarono a escludere le donne, la stessa cosa avvenne nelle aziende. A partire dagli anni Ottanta l’emergere del concetto di culture fit, cioè la capacità di fare propria la cultura aziendale, cambiò i criteri per l’assunzione del personale.
I manager cominciarono a scegliere i programmatori non in base all’attitudine e al potenziale, ma in base a quanto corrispondevano allo stereotipo del nerd, maschio bianco cervellone e possibilmente asociale, e la caccia a quel tipo di personalità tagliava fuori le donne. I dirigenti accettavano senza battere ciglio uomini trasandati, non rasati e scontrosi, ma non tolleravano le donne che si comportavano nello stesso modo.

Negli anni Novanta e Duemila del secolo scorso il paradigma della culture fit era ormai onnipresente, soprattutto nelle start-up, che avevano un numero relativamente limitato di dipendenti, costretti a rimanere confinati in spazi ridotti durante orari molto estesi che duravano fino a tardi. I fondatori delle start-up tecnologiche volevano assumere persone che fossero simili a loro dal punto di vista sociale e culturale.

Le conseguenze di questa esclusione delle donne nell’informatica ha avuto un impatto consistente su come vengono impostati gli algoritmi e molti servizi digitali, e quindi nella riproduzione e perpetuazione di stereotipi anche nel nuovo habitat digitale14.

Ovviamente, se la biologia costituisse un limite alla capacità delle donne di programmare, il rapporto tra uomini e donne in questo ambito dovrebbe essere uguale in tutti i Paesi. Ma non è così. In India e in Malesia le donne sono il 40 per cento degli studenti d’informatica. In India i ruoli di genere sono così rigidi che le studentesse universitarie spesso hanno il coprifuoco, ma le donne indiane hanno un forte vantaggio culturale: hanno molte più probabilità di essere incoraggiate dai genitori a entrare in questo ambito, che vedono con favore, non soltanto per la redditività, ma anche per la sicurezza del lavoro di programmatrici che si svolge al chiuso.

Probabilmente un nuovo trend innescato dalle opportunità più recenti della digitalizzazione – oggi, anche solo rispetto a cinque anni fa, è di fatto molto più facile imparare a programmare anche senza una laurea, grazie a corsi online, open source, workshop online gratis o poco costosi, gruppi d’incontro per principianti – è già in atto e potrà portare grandi cambiamenti nel prossimo futuro, anche in relazione alla discriminazione di genere nelle facoltà STEM.

Trovo però attualmente il racconto del ruolo dimenticato delle donne nella storia statunitense dell’informatica quasi iconografico del fatto che, quando parliamo di diseguaglianze di genere nell’ambito della conoscenza e dell’università, siamo di fronte prima di tutto a un profondo problema culturale, radicato in millenni di discriminazioni, che si annida e non può essere scisso dal continuum delle diseguaglianze di genere prima, dopo e a latere dell’ambito universitario.

Le radici psicologiche e sociali delle diseguaglianze

In un saggio potentissimo Chiara Volpato15 analizza le radici psicologiche delle diseguaglianze.  Ad occuparsi di diseguaglianze sono stati finora soprattutto gli economisti16, e il contributo della psicologia sociale apre in questo campo frontiere originali e dirompenti.

Volpato analizza come le diseguaglianze vengono costruite, occultate, accettate, interpretate ed esamina i meccanismi di assoluzione, colpevolizzazione, colonizzazione e i comportamenti di dominanza e sottomissione con cui le diseguaglianze si perpetuano e si rafforzano. Seppur non specifico sulle diseguaglianze di genere17, tutto il saggio può essere letto con lenti di genere.

Alla radice delle diseguaglianze ci sono percezioni distorte che sistematicamente le sottostimano e processi di legittimazione, profondamente radicati in miti di fondazione e giustificazione, sia da parte del gruppo dominante sia da parte di chi le subisce.

Sia il gruppo dominante sia il gruppo dominato inoltre concorrono – spesso inconsciamente – al mantenimento delle diseguaglianze con meccanismi di psicologia sociale basati su tre fattori reciprocamente rinforzanti: legittimazione, stabilità e permeabilità18.

È proprio in queste radici psicologiche e sociali profondamente radicate nella nostra cultura che si annida l’elefante nella stanza: la mascolinità tossica.

Con il concetto di “mascolinità tossica”19 si fa riferimento non tanto ai comportamenti di sessismo e machismo violento, sboccato, insultante o denigratorio che oggi sono – o dovrebbero essere – sanzionati anche penalmente in qualunque ambito, ma a tutto quell’insieme di comportamenti e credenze subliminali che comprendono per i maschi il dover sopprimere le emozioni, il dover mascherare il disagio e la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, di “virilità”, il non comportarsi da deboli, deferenti, accudenti o timorosi, il mansplaining.

Le ripercussioni del paradigma della mascolinità tossica sono ampie e profonde a nocumento degli uomini tanto quanto delle donne e si insinuano, per esempio, nella “finta parità” durante gli anni della scuola, nello sbilanciamento del carico familiare del lavoro di cura e nelle carriere delle donne strozzate a monte e a valle, nella segregazione tra maschi e femmine negli ambiti formativi e lavorativi, nella dicotomia per le donne tra lavoro e carriera, nelle autolimitazioni e nella “cronica sotto autostima” delle donne20.

Mascolinità tossica e cambiamento di paradigmi culturali

Dicevamo che quando parliamo di diseguaglianze di genere nell’ambito della conoscenza e dell’università siamo di fronte prima di tutto a un profondo problema culturale.

Le ramificazioni delle diseguaglianze di genere che caratterizzano conoscenza e università affondano le radici in quella che viene definita “falsa parità” durante gli anni della scuola, e si ramificano e penetrano nelle profonde diseguaglianze nel mondo dell’occupazione femminile, area in cui l’Italia ha l’orrendo primato di essere il 27esimo Paese su 27 dell’Unione Europea21.

Dove si annidano gli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci che ci portano ad accettare culturalmente e socialmente in Italia dei numeri così abnormi di diseguaglianza di genere? Cosa ci porta a essere condiscendenti? A non indignarci? A non diventare ciascuno, nel proprio piccolo o grande spazio di azione, changemaker per l’eguaglianza di genere22? Perché ci basta non essere attivamente sessisti? Cosa ci spinge a non essere esplicitamente anti-sessisti?

Il nostro Paese, purtroppo, sconta una epistemologia nella formazione, così come nelle istituzioni, a settori e compartimenti stagni, a silos, e la carenza strutturale di capacità necessarie ad adottare approcci di cambiamento sistemico – in grado, per esempio, di ottenere l’incardinamento delle politiche di eguaglianza di genere come diritti umani e non in termini di politiche per la famiglia o per la maternità.

Venticinque anni dopo Pechino23, abbiamo imparato sulla nostra pelle l’imprescindibilità di approcci sistemici, capaci di accogliere la complessità e integrare lenti di genere in qualunque ambito di azione.

Anche il cambiamento giuridico, senza cambiamento culturale e sociale, non porta al cambiamento di sistema. Il quadro legislativo (e la sua applicazione!) è fondamentale per delimitare il campo e le regole di gioco, ma da solo non è sufficiente.

Allo stesso modo, cambiare la cultura nelle università è fondamentale, ma potrà essere efficace in quanto politica settoriale solo all’interno di una strategia nazionale sistemica che integri la prospettiva di genere in tutti gli ambiti e arrivi a cambiare i paradigmi culturali di mascolinità tossica che ancora si annidano profondamente ovunque nella nostra cultura. Per promuovere un cambiamento di paradigma culturale, bisogna promuovere, sistematicamente, opportunità e capacità di immaginazione sociale24 per entrambi i gruppi, maschile e femminile.

Per un cambiamento di paradigma culturale è fondamentale, da un lato, il contrasto sistematico, capillare, permanente della mascolinità tossica e, dall’altro, la promozione di nuovi modelli maschili, anche attraverso la chiamata in causa e la partecipazione attiva del mondo maschile.

Il riconoscimento dell’importanza del coinvolgimento sistematico del mondo maschile, come parte della causa, e il correlato superamento dell’idea che possa essere un target esterno, neutro o addirittura – come talvolta all’inizio il movimento femminista aveva lasciato intendere – nemico della causa, oggi si sta consolidando (anche se ancora troppo lentamente) prova ne sia che finalmente anche le Nazioni Unite dal 2016 promuovono una campagna come He for she- The Global solidarity movement for gender equality (https://www.heforshe.org/en).

Oggi come non mai, alla luce delle involuzioni sui diritti delle donne causate dalla pandemia e non solo – penso a quanto sta succedendo in Afghanistan, ma anche negli USA con l’overrulling di Roe vs Wade –, è necessaria una strategia Paese a 360 gradi che includa anche l’obbligatorietà di gender audit e di una formazione sugli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci in materia di genere richiesta per legge, non solo a insegnanti, educatori, giornalisti, magistrati, avvocati, medici, ma anche nei Consigli di Amministrazione di qualunque organizzazione pubblica e privata. L’auspicio è che le università, come preminenti istituzioni culturali, possano fare da apripista per questo profondo processo di cambiamento culturale, a partire da loro stesse.

 

Note

1 In merito alle STEM per quanto riguarda le università italiane si veda Marina Di Cagno, Gender gap in the Italian university system: a “reversed” leaky pipeline?, Bocconi University newspaper, 2021,  https://traileoni.it/2021/10/gender-gap-in-the-italian-university-system-a-reversed-leaky-pipeline/

2 UNESCO-IESALC and The Times Higher Education, Report, Gender Equality: How Global Universities are Performing, 8 March 2022, https://www.timeshighereducation.com/sites/default/files/the_gender_equality_report_part_1.pdf; https://www.timeshighereducation.com/sites/default/files/the_unesco_gender_equality_report_part_2.pdf

3 Sui dati riguardanti l’Italia, si veda MUR, DGPBSS Ufficio VI - Servizio Statistico, Focus Le carriere femminili in ambito accademico, 8 marzo 2022, http://ustat.miur.it/media/1218/focus_carrierefemminili_università_2022.pdf e Almalaurea, Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali, rapporto 2022, https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/convegni/gennaio2022/6_almalaurea_rapportocompleto_laureatelaureati.pdf

4 G. Azmat, Gender Inequalities in Higher Education, SciencePo Cogito Research Magazine, 18 maggio 2020.

https://eige.europa.eu/gender-mainstreaming/toolkits/gear

6 Per quanto invece riguarda gli enti locali si veda il lavoro pionieristico del Comune di Milano col bilancio di genere https://www.agenziacult.it/interni/equit-di-genere-performance-gender-model-per-il-bilancio-di-genere-del-comune-di-milano/

7 C. Criado Peres, Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano, Einaudi, Torino 2019.

8 In merito si veda European Commission, Directorate-General for Research and Innovation, She figures 2021: tracking progress on the path towards gender equality in research and innovation, Publications Office, 2021; https://data.europa.eu/doi/10.2777/602295.

9 EIGE Gender Equality Index Compare countries https://eige.europa.eu/gender-equality-index/2021/country/IT

10 Almalaurea, cit., 2022, https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/convegni/gennaio2022/6_almalaurea_rapportocompleto_laureatelaureati.pdf

11 Si veda Almalaurea, XXIV Indagine. Condizione occupazionale dei Laureati, sintesi del rapporto, 2022, https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/docs/universita/occupazione/occupazione20/rapportoalmalaurea2022_sintesi-occupazione.pdf

12 C. Thompson, The secret history of women in coding, in The New York Times Magazine, 13 febbraio 2019, trad. it. Il ruolo dimenticato delle donne nella storia dell’informatica, in Internazionale, 8 marzo 2019, n. 1297, https://www.internazionale.it/notizie/clive-thompson/2021/04/16/donne-informatica

13 Si pensi per esempio a film di grande successo come La rivincita dei nerds, La donna esplosiva, Tron, War games. Giochi di guerra.

14 In merito è illuminante il già citato C. Criado Peres, Invisibil… cit. Si veda anche C. Calveri che offre una ricognizione del tema https://www.agenziacult.it/interni/era-digitale-soluzioni-possibili-ai-pregiudizi-di-genere-nel-digitale-approcci-e-casi/. Molti spunti anche da F. Barca e L. Bondi, Ad (algo)ritmo di carica: stereotipi e discriminazioni nell’informatica, Conversazione per Le Funambole, 30 maggio 2021, https://www.youtube.com/watch?v=GdP2qoi2O2c&t=167s.

15 C. Volpato, Le radici psicologiche della disuguaglianza, Laterza, Roma Bari 2019.

16 Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Anthony Atkinson, Branko Milanovi, Thomas Piketty.

17 Volpato descrive processi psicologici e sociali che non sono appannaggio di un preciso gruppo sociale di dominanti e dominati (es. dirigenti e dipendenti, ricchi e poveri, cittadini e richiedenti asilo). Tutti possiamo rivestire il ruolo di dominati o dominanti a seconda del momento, dell’interazione, della gerarchia nella quale siamo inseriti, del ruolo che indossiamo in quello specifico contesto economico, sociale, culturale etc.

La psicologia sociale apre scenari di analisi sul rapporto tra gruppo dominante e gruppo dominato molto interessanti, in particolare sul concetto di entitlement – sentirsi in diritto – e sui meccanismi di creazione, rafforzamento e mantenimento di condizionamenti inconsci e stereotipi impliciti, che si formano nei primi anni di vita e, spesso, sono addirittura opposti agli atteggiamenti espliciti dell’età adulta (tipo “ma mio fratello ha dedicato più tempo alla cura dei figli della moglie” o “ma il mio migliore amico guadagna meno della moglie che ha la sua stessa laurea e specializzazione”).

18  Nella analisi di Chiara Volpato della teoria dell’identità sociale proposta da Henri Tajfel negli anni Ottanta, quando gli individui pensano che lo status sia legittimo e stabile e permeabile, adottano una ideologia che promuove gli sforzi individuali e l’accettazione dello status quo per la collettività. Quando invece pensano che lo status dei gruppi sia illegittimo e instabile e che sia impossibile il passaggio da un gruppo all’altro, adottano un’ideologia di cambiamento sociale.

19  M. Salam, What is toxic masculinity? in The New York Times, 22 gennaio 2019, https://www.nytimes.com/2019/01/22/us/toxic-masculinity.html. A. F. Stumpf, Making masculinities visible. A gender discourse analysis, UIT; The Artic University of Norway, Master’s Thesis, 2019, https://munin.uit.no/bitstream/handle/10037/17006/thesis.pdf?sequence=2&isAllowed=y

20  S. Sandberg, Lean in: women, work and the will to lead, Knopf, New York 2013. Si veda anche https://leanin.org/

21 EIGE, Gender Equality Index. Compare countries, https://eige.europa.eu/gender-equality-index/2021/country/IT

22  Detonante in merito il tweet del ministro Giuseppe Provenzano l’8 giugno 2020 che ha rifiutato di intervenire in un panel di soli uomini, dando nuovo vigore anche in Italia al boicottaggio dei manels: “È l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

23  Nel 1995 la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite a Pechino approvò la Piattaforma di azione per le donne che trasformò le politiche a livello nazionale e internazionale in, praticamente, tutti i Paesi del mondo con un impatto complessivo su miliardi di persone. A riguardo C. Carazzone, Mascolinità tossica e cambiamento di paradigmi culturali, in Generatività.it, 25 novembre 2020, https://www.agenziacult.it/interni/equit-di-genere-mascolinit-tossica-e-cambiamento-di-paradigmi-culturali/ in risposta alla Call for papers su equità di genere di F. Barca promossa da AgiCult.

24  Sul concetto di “immaginazione sociale” come capacità di immaginare una società diversa e, possibilmente, migliore: più equa, più inclusiva, più felice, caratterizzata da nuove forme di stare bene insieme, con noi stessi, con la comunità in cui viviamo, con il resto dell’umanità, con il pianeta, G. Mulgan, The Imaginary Crisis (and how we might quicken social and public imagination), UCL, Demos Helsinki and Untitled, aprile 2020, https://demoshelsinki.fi/wp-content/uploads/2020/04/the-imaginary-crisis-web.pdf, illustra varie ragioni del perché oggi, più che nel passato, università, think tank e partiti politici paiono poco capaci di assolvere questo ruolo.

Carola Carazzone è Segretario generale di Assifero e Vicepresidente di Philea - Philanthropy Europe Association.

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