Trimestrale di cultura civile

Le grandi difficoltà del sistema universitario britannico

  • AGO 2022
  • Alessandro Giudici

Condividi

Senza andare troppo indietro nel tempo, fino al 2016 nel Regno Unito vigeva il criterio strategico dell’espansione dell’accesso all’università quale motivo fondamentale di realizzazione sociale. La politica investiva sull’università e la ricerca come ambito di formazione della nuova classe dirigente e quindi perno dello sviluppo del Paese. In una duplice direzione: incrementando e allocando con razionalità le risorse e aprendo le porte al talento internazionale. Con il referendum e la vittoria del “leave” si sono via via aperte crepe profonde nel sistema della conoscenza. In particolare, per tre ordini di motivi: politici, socio-economici, di finanziamento. Oggi la direzione sembra essere quella di una contrazione sensibile dell’accesso all’università. Con enfasi, sterline e valorizzazione solo delle vecchie istituzioni: Cambridge, Oxford e poche altre. Tale percorso ha già determinato sul territorio il licenziamento di molti professori. E un generale clima di incertezza e preoccupazione.

Quando, nel 2006, mi sono trasferito nel Regno Unito per accedere a un dottorato di ricerca, il sistema universitario britannico appariva, ai miei occhi di neolaureato italiano, decisamente migliore di quello di provenienza. Ero stato attirato dalla forte enfasi anglosassone sul merito nei percorsi di carriera, la presenza di consistenti risorse e forte libertà di ricerca, oltre alla grande apertura alla comunità accademica internazionale. Anno dopo anno, l’esperienza diretta mi ha reso più scettico sulla reale forza di tale sistema, progressivamente sempre meno centrale nelle politiche di sviluppo del Paese, e preoccupato della sua tenuta di lungo periodo.

Nel giro di 15 anni, crisi finanziaria, pandemia e un sostanziale cambiamento di visione politica (12 anni di governo conservatore dopo 13 a guida labour), esacerbati dal referendum Brexit hanno messo in seria difficoltà l’università britannica. La valorizzazione del merito rimane certamente un tratto distintivo, ma la dotazione di risorse – cioè la differenza fondamentale rispetto a un sistema italiano in cui, nonostante la scarsità di finanziamenti, continuano a emergere eccellenze – si è andata man mano prosciugando.

L’impatto di questi cambiamenti è stato, e rimarrà, eterogeneo tra discipline, livelli di studio e aree geografiche, ma le prospettive non sembrano rosee. Cosa riserva quindi il futuro?

Reputazione, tasse più alte e grande competizione

Il sistema universitario britannico comprende, in estrema sintesi, corsi in gran parte paralleli al sistema italiano, cioè lauree triennali (Bachelor’s Degrees), lauree di specializzazione di un anno (Master’s Degrees), dottorati di ricerca (PhDs) e una grande varietà di diplomi, certificazioni, e masters di specializzazione, inclusi gli MBA (Masters of Business Administration).

I meccanismi di finanziamento. Un elemento importante del sistema coinvolge i meccanismi di finanziamento. Nel caso dei Master’s Degrees, le tasse sono determinate dalle singole istituzioni di cui rappresentano una percentuale importante delle fonti di finanziamento complessivo, con prezzi che possono raggiungere 20-30mila sterline per un anno (fino 50-100mila sterline per un anno di MBA), con una percentuale maggioritaria di studenti da Cina, India, altri Paesi asiatici e UE. Il finanziamento dei Bachelor’s Degrees è invece regolato dal governo per gli studenti inglesi, con tasse che variano da 6,000 a 9,250 sterline per anno, e liberalizzato per gli studenti internazionali, con tasse di decine di migliaia di sterline per anno e costi non indifferenti per visto e copertura sanitaria.

Le tasse in Irlanda del Nord e in Galles sono più basse per gli studenti locali e, come in Inghilterra, normalmente coperte da un articolato sistema di prestiti d’onore, mentre l’università è completamente gratuita per gli studenti scozzesi. Gli studenti provenienti dall’Unione Europea erano storicamente assimilati agli studenti britannici ma, dal settembre 2021, a seguito dell’implementazione della prima parte delle regole Brexit, sono equiparati agli studenti non-UE.

I meccanismi di valutazione. Il sistema universitario britannico è ricco di meccanismi di valutazione nonché di un variegato numero di classifiche. Il REF (Research Excellence Framework) è l’equivalente della valutazione ANVUR in Italia, cioè un processo di valutazione della qualità e produttività della ricerca accademica che viene organizzato ogni sei anni. Il TEF (Teaching Excellence Framework) e il KEF (Knowledge Exchange Framework) sono processi simili focalizzati, rispettivamente, sulla qualità della didattica e dello scambio con il mondo non universitario (aziende, organizzazioni ecc.).

Per i Bachelor’s Degrees conta molto la NSS (National Student Survey) che, ogni anno, classifica i corsi triennali rispetto a un ampio numero di parametri sulla base di un questionario compilato generalmente dal 70% degli studenti in procinto di laurearsi. Per quanto spesso osteggiati dal mondo accademico per gli eccessivi livelli di burocrazia, questi meccanismi determinano in parte la reputazione percepita di ciascuna università e quindi la relativa capacità di autofinanziamento tramite tasse più alte. Il grado di competizione tra le università è perciò molto più alto rispetto all’Italia, con ingenti risorse dedicate al rispetto dei vari criteri di valutazione.

Cenni di evoluzione storico-politica del sistema universitario (1990-2016)

L’università britannica si è evoluta nella sua forma attuale, a seguito di alcuni fondamentali passaggi storico-politici. Senza andare troppo indietro nel tempo, il sistema si era evoluto a partire dalle “old universities” medievali di Oxford, Cambridge, St Andrews, e poche altre, con una forte espansione nel diciannovesimo secolo e nella prima metà del ventesimo secolo, seguita da una fase di assestamento fino a inizio anni Novanta.

Nel 1992, il governo conservatore guidato da John Major approvò il Further and Higher Education Act che riconobbe come università 35 college e politecnici al fine di espandere la possibilità di accedere al titolo di laurea a un numero maggiore di studenti della working class. Nel 1998, con scopi simili e stimando un sostanziale aumento dei costi di finanziamento del sistema, il governo laburista guidato da Tony Blair re-introdusse le tasse universitarie in Inghilterra – eliminate dal 1962 – determinandole a 1,000 sterline per anno, per poi alzarle a 3,000 sterline nel 2003. Contestualmente venne modificata la struttura dei prestiti d’onore, espandendoli alle spese di mantenimento, con un meccanismo di ripagamento equivalente a una tassa percentuale del 9% sui futuri stipendi oltre 10,000 sterline dei laureati.

A seguito delle elezioni del 2010, venne formata una coalizione tra i conservatori e i liberal democratici i quali, però, avevano formalizzato nel loro programma l’abolizione completa delle tasse universitarie. Nell’ottobre 2010, venne pubblicata la review Securing a Sustainable Future for Higher Education che diede inizio a un’accesa discussione politica a seguito della quale, nel 2012, le tasse vennero portate agli attuali livelli. Pur essendosi astenuti previo accordo di governo, i liberal democratici vennero fortemente criticati dalle rappresentanze studentesche e poi puniti pesantemente alle elezioni successive del 2015, passando da 57 a soli 8 parlamentari e contribuendo ad aprire la strada alla forte affermazione del partito conservatore e alla successiva approvazione del referendum per l’uscita dall’Unione Europea.

Brexit, pandemia e l’attuale crisi in divenire

Sia il governo di coalizione 2010-2015 che quello successivo conservatore 2015-2016, entrambi guidati da David Cameron, avevano mantenuto una prospettiva volta all’espansione dell’accesso all’università come meccanismo di realizzazione sociale. Sin dal governo Thatcher negli anni Ottanta, la politica britannica aveva enfatizzato l’università e la ricerca come centrali allo sviluppo del Paese, aumentando l’allocazione di risorse e aprendo le porte al talento internazionale. Come punto di riferimento, basta notare come nel 2016, prima del referendum Brexit, la percentuale di accademici non britannici aveva raggiunto secondo l’Higher Education Statistics Agency il 28% del totale (circa 55mila, di cui 32mila dall’UE) e quella dei dottorandi e assegnisti il 51% (circa 41mila, di cui 12mila dalla UE).

La vittoria del Leave nel referendum Brexit ha portato il Regno Unito su una traiettoria sostanzialmente diversa tale per cui, nel giro di sei anni, il sistema universitario ha iniziato a presentare crepe profonde, riassumibili nelle seguenti categorie. 1. Problemi politici. I governi conservatori succeduti a Cameron – May, Johnson e uno qualunque degli attuali candidati alla carica di primo ministro alla data di scrittura – hanno introdotto una linea demonizzante il talento e quelle che sono state definite le “élites universitarie di sinistra” a causa dell’opposizione pressoché totale del mondo universitario al Brexit. È diventata famosa, ad esempio, l’affermazione degli esponenti del Leave: “People had enough of experts” (la gente ne ha abbastanza degli esperti). Le ragioni dietro questa linea sono varie, ma centrale è stata la necessità di antagonizzare queste élites con gli elettori working class di sinistra pro-Brexit – la cosiddetta ex Red Wall – passati a supportare i conservatori, e in particolare Boris Johnson, nelle elezioni del 2019. 2. Problemi socio-economici e di finanziamento. Dal 2021, l’introduzione delle nuove regole Brexit ha reso più complesso l’ottenimento del visto di lavoro post-laurea per studenti internazionali e questa barriera agli ingressi si è andata a sommare al crollo degli arrivi dalla Cina per la pandemia e a quelli dalla Russia a causa delle sanzioni a seguito del conflitto con l’Ucraina. L’impatto è stato pesante per le fonti di finanziamento delle università, specialmente rispetto alla riduzione del numero di studenti di Master’s Degrees. Le stesse regole hanno messo a rischio la partecipazione delle università britanniche ai bandi di finanziamento europei, di cui storicamente il Regno Unito è sempre stato beneficiario netto. In aggiunta, in un contesto macro-economico e politico negativo, il governo britannico ha progressivamente ridotto i finanziamenti al sistema universitario – per esempio, bloccando l’aumento delle tasse universitarie pur in presenza di inflazione all’8-10%, – ha supportato una riduzione pesante degli stipendi accademici – scesi di circa il 25% in termini reali nell’ultimo decennio – e, nel 2020, ha permesso un taglio alle pensioni future stimato nell’ordine del 30-40%.

Cosa riserva il futuro

La mia impressione, informata, è che la prospettiva ideologico-politica dell’attuale partito conservatore si stia progressivamente spostando verso un ritorno a un sistema universitario ad accesso più ristretto, con finanziamenti concentrati verso le università di maggior prestigio, una spinta verso corsi professionalizzanti – come STEM (Science, Technology, Engineering, and Math) o economics e management – e penalizzazione dei dipartimenti di umanistica, arte e simili, salvo in poche sedi selezionate.

Per quanto paradossale, vista la radice politico-conservatrice comune, non è implausibile un futuro non troppo lontano in cui venga ribaltata la logica che aveva portato alla trasformazione dei college e politecnici in università nel 1992. È da rilevare come negli ultimi due anni sia già iniziato, e sia destinato a intensificarsi, un processo di consolidamento con un numero crescente di dipartimenti chiusi e decine e decine di accademici strutturati di tutti i gradi licenziati in tutto il Paese. È aumentato di conseguenza anche il grado di scontro sindacale, con ripetuti scioperi o boicottaggio degli esami.

Più in generale, in un tempo relativamente breve, vi è stato un aumento sostanziale dei costi di attrazione e ritenzione dei ricercatori di maggior talento, mobili a livello internazionale, in un contesto competitivo in cui il resto delle università mondiali, in particolare europee, ha intensificato gli sforzi per strappare capitale umano al Regno Unito, innescando un rischio di brain drain in uscita. Non è da sottovalutare, però, l’aspetto “geografico”. Per quanto la prospettiva non sia complessivamente rosea per l’intero Regno Unito, Londra con le sue università più grandi, Cambridge, Oxford e poche altre sedi universitarie storiche o in aree economicamente più dinamiche, rimarranno sostanzialmente protette. Questo perché la reputazione internazionale di tali università è così robusta che continueranno ad attrarre ricercatori, studenti, e fondi esterni in maniera più che proporzionale e anzi aumenteranno il gap con il resto del Paese.

La triste realtà del Regno Unito post-Brexit è – quanto meno fino alle prossime elezioni e presumibilmente per una generazione – quella di un Paese che si continuerà ad avvitarsi socio-economicamente su se stesso man mano che gli accordi con la UE vengono implementati (o disattesi), con il benessere ancor più concentrato nelle zone di maggiore capitale umano e, viceversa, diseguaglianze accentuate proprio nelle zone che hanno votato Leave.

Alessandro Giudici è Reader in Strategy e Director of the Executive MBA, Faculty of Management, Bayes Business School (formerly Cass), Londra

Nello stesso numero

Contenuti correlati

VIDEO | Il Seminario di Matera del Dipartimento Istituzioni e PA

Percorsi di cambiamento
della pubblica amministrazione

11 AGO 2022 | Francesco Verbaro e altri 4

La crisi pandemica ha evidenziato fragilità e ingessature. Urgente fare leva sulla responsabiità personale e sul coinvolgimento dei corpi intermedi. Anche per una buona attuazione del Pnrr

Clicca qui!