Trimestrale di cultura civile

Università e Mezzogiorno: le cause della cortina fumogena

  • AGO 2022
  • Eugenio Mazzarella

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Il disinteresse sostanziale verso la formazione superiore – e in particolare per il sistema università – raggiunge nel Sud aspetti di criticità più allarmanti. La plastica rappresentazione dell’assenza di una visione coesa, di una preoccupazione unitaria. Pur nel doveroso salvaguardare le specificità territoriali quali asset di sviluppo. Invece, da anni si dispensa retorica a buon mercato per enfatizzare linee strategiche che non si vedono. Fumo negli occhi, insomma. E nel quadro complessivo di una società della conoscenza sempre più in deficit, il Meridione annaspa. Altro che porta aperta sul Mediterraneo. Eppure, quella dovrebbe essere la mission affinché gli atenei si presentino finalmente attrattivi. E potranno divenire crocevia formativo attrattivo per la sponda Sud del Mediterraneo solo se saranno anche un crocevia economico attrattivo.

È difficile contestare le tesi proposte da Gianfranco Viesti nel suo libro La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, edito da Laterza qualche anno fa, nel 2018. E che cioè, a partire dalla legge Gelmini del 2010 e dalla contestuale istituzione dell’ANVUR, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, che dell’università e della ricerca dovevano rilanciare le sorti, in realtà l’Italia ha perseverato in un disinteresse sostanziale per l’università e la formazione superiore in generale. Nonostante la narrativa da decenni ormai in essere che la nuova “società della conoscenza” non può non potenziare un settore strategico per il futuro del Paese. Anzi, il combinato disposto delle previsioni della legge Gelmini e delle linee di indirizzo dell’ANVUR ha aggravato la situazione generale del sistema, già di suo storicamente mal messo per sottofinanziamento e trascuratezza legislativa a confronto di situazioni europee omologhe, Francia e Germania innanzi tutto; con il magro bottino di qualche miglioramento al Nord, nelle aree forti del Paese, Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia, pagato al prezzo di un ulteriore depauperamento soprattutto dell’università del Mezzogiorno.

Insomma, una laurea “negata” in generale al sistema Paese in confronto agli standard europei, soprattutto ai migliori; e un po’ meno negata quanto a qualità e quantità nel Nord. In una plateale contraddizione non solo con il bisogno di sistema del Paese di accorciare la distanza Nord-Sud, ma anche con il dettato costituzionale che vorrebbe garantito a tutti gli italiani questo asset fondamentale dell’eguaglianza della cittadinanza repubblicana.

Ed è difficile contestarle soprattutto a me, che nel libro di Viesti ho trovato, dopo circa dieci anni, brillantemente esposti a consuntivo con i numeri dell’economista, gli effetti perversi, controfinali ai suoi intenti dichiarati, della legge Gelmini (con il pendant di un contributo dell’ANVUR esso pure distonico rispetto alle finalità e alle funzioni istitutive), che indicavo come bilancio di previsione degli esiti disastrosi che avrebbe avuto la “riforma” nella relazione di minoranza da me tenuta alla Camera, in sede di varo della legge. Una sola nota, a promemoria: calcolando con carta e penna che con la riforma sarebbero venuti meno ventimila ruoli nell’organico, provavo con un emendamento, rigettato dal governo, a inserire nella legge una “clausola di salvaguardia”, che cioè al 2020 l’organico dei ruoli tra associati e ordinari avrebbe dovuto essere pari ai settantamila che al 2010 contavano gli atenei, recuperando cioè la messa a esaurimento degli assistenti ordinari e dei ricercatori a tempo indeterminato.

Ricordo questo non per il cattivo gusto dell’autocitazione, ma per rimarcare quanto prevedibile era già allora quel che sarebbe accaduto, e che solo la cortina fumogena di parole d’ordine (“merito”, “valutazione”, “competizione”) malamente prese a prestito dall’efficientismo aziendalista da implementare nel “pubblico”, potevano impedire di vedere.

I numeri impietosi di un’emorragia

In sostanza, in dieci e più anni, l’università italiana si è fatta più piccola, meno capace di “produrre” laureati, e peggio distribuita qualitativamente sul territorio nazionale. Con le parole di Viesti: “Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto”1. E questa contrazione, in risorse, personale, servizi agli studenti, penalizzazione di filoni formativi soprattutto umanistici, di saperi “critici”, è stata pagata soprattutto dal Sud, istituzionalizzando un sistema già pericolosamente duale e che in teoria si voleva rilanciare in un’ottica perequativa: “Si è teso a creare una netta suddivisione fra atenei di serie A, relativamente protetti, e atenei di serie B, su cui si sono concentrati i tagli. Si è creato un piccolo gruppo di università di serie A in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna; il grosso delle università italiane (del Nord “periferico”, del Centro e del Sud continentale) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse; gli atenei di Sicilia e Sardegna sono stati ridotti ai minimi termini. Si è deciso di disinvestire, per la prima volta nella storia unitaria, nella formazione superiore proprio nelle aree del Paese in cui i livelli di istruzione sono più bassi (bassissimi in comparazione europea)”2, nonostante la necessità ovvia del ruolo dell’università ove si voglia davvero implementare il capitale sociale di aree socialmente ed economicamente già di loro deprivate.

E questo in un quadro dove “la grande fuga dei laureati dal Sud non si arresta, e il fenomeno ha raggiunto numeri talmente elevati che trascina in basso anche la media italiana nel saldo con l’estero. Il Paese, soltanto nel 2019, ha perso oltre 13 mila laureati, centomila nel periodo che va dal 2011 al 2019. Un’emorragia di capitale umano equivalente a 3,8 miliardi di euro nell’ultimo anno pre-pandemico e 29,3 miliardi nell’intero periodo qui considerato (2011-2019)”, come quantifica il costo della migrazione dei cervelli in base ai dati Istat uno studio della Fondazione Nord-Est guidata da Luca Paolazzi: “Di fatto, un trasferimento di competitività ad altri sistemi produttivi, che intrappola il Paese in una spirale viziosa: bassi salari-fuga dei cervelli-bassa produttività”. E andando a guardare il saldo per regioni e macroaree “si scopre che il Nord-Ovest ha un saldo di +3,8 miliardi, il Centro 156 milioni. A essere penalizzato è il Meridione che perde ben 9,1 miliardi l’anno. La Campania guida la classifica con 2,4 miliardi di perdite l’anno, seguono poi Sicilia (-2,3) e Puglia (-1,7) […]. Tra il 2011 e il 2019 il Nord-Ovest ha accolto persone laureate pari a un valore di investimento di 16 miliardi, il Nord-Est di 6,8 mentre il Sud ha visto ‘migrare’ l’equivalente di 52 miliardi. Campania e Sicilia sono fanalini di coda con deflussi per 14,4 e 12,5 miliardi cumulati nei nove anni. Infatti, secondo l’Istat, sono oltre 50 mila i ragazzi di età compresa tra i 20 e i 34 anni che hanno lasciato la Campania per trasferirsi altrove in Italia. E quasi la metà è laureata. Inoltre, nel periodo 2008-2017, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria, le regioni italiane con il peggiore saldo migratorio giovanile interregionale, hanno perso complessivamente 282 mila giovani, l’80% dei quali con un livello d’istruzione medio o alto. Al Nord, i saldi netti sono invece positivi, in particolare per Lombardia ed Emilia-Romagna, dove si sono trasferiti 175 mila giovani. In totale sono 483 mila i giovani che hanno percorso la traiettoria Mezzogiorno-Centro Nord tra il 2008 e il 2017”3. Cedendo risorse qualificate, senza altrettanto riceverle, è ovvio che il Mezzogiorno veda fortemente limitate le proprie possibilità di sviluppo.

Di fronte a questa situazione, rappresentata sulla base di dati Istat, è singolare l’ottimismo, o il quasi ottimismo, sulle prospettive del sistema universitario nazionale di un recente studio della Banca d’Italia4, firmato da Vincenzo Mariani e Roberto Torrini, che analizza in chiave comparativa la domanda e l’offerta di istruzione terziaria nel Centro Nord e nel Mezzogiorno e le conseguenze che ne derivano per la formazione universitaria e la disponibilità di laureati nel nostro Paese; studio impegnato in una lettura consolatoria, che non si capisce a quali dati si appoggi, sugli effetti positivi che avrebbe avuto, nonostante la pur ammessa evidenza di persistenti criticità, la riforma Gelmini e i collegati “efficaci” strumenti di valutazione amministrativa dell’ANVUR. Singolare ottimismo di prospettive, sagacemente notato sul sito di ROARS, che si dà come spiegazione la coincidenza del punto di vista di uno degli estensori del rapporto (Roberto Torrini) con quello con cui ha operato l’ANVUR, di cui è stato direttore generale; ma “se si spoglia il lavoro di Mariani e Torrini della lettura consolatoria proposta, dai dati emerge una deriva che rende tangibile l’inaccettabile idea di un Paese che – a Costituzione invariata – ha finito per sposare nei dati e nei fatti il deprecabile, miope e insostenibile modello di una istruzione universitaria differenziata”, chiosando che il grande Saraceno peccava di ottimismo nel 1972 datando al 2020 la fine del divario di sistema tra Nord e Sud5.

Recuperare in attrattività

Se a questo scenario si aggiungono le valutazioni dell’ultimo rapporto Svimez, che sulla base di dati Istat, afferma che entro i prossimi 50 anni il Paese sarà interessato da una consistente riduzione del numero dei suoi abitanti che risulteranno fortemente invecchiati e da una struttura demografica decisamente fragile e profondamente squilibrata a danno del Sud, che sarà “la parte del Paese che subirà le maggiori conseguenze di questo processo: tra il 2019 e il 2065 la popolazione italiana dovrebbe ridursi di 6,9 milioni di abitanti, di cui 5,1 milioni al Sud e 1,8 milioni al Centro-Nord”6.

La sensazione è che il modo in cui l’Italia sta affrontando il divario Nord-Sud abbia un tragico “razionale” per il sistema universitario nazionale, simmetrico a quello da decenni in essere per un altro asset costituzionale – fondamentale per un’eguaglianza equamente distribuita sul territorio degli italiani – la sanità: il ritirarsi dello Stato come promotore di eguaglianza di cittadinanza degli italiani, di un sistema Paese che accetta il suo declino sociale demografico e produttivo in dismissione guidata di intere regioni come rami d’azienda territoriali improduttivi, o ritenuti tali, le regioni del Sud, per mantenere produttivi rami d’azienda territoriali più competitivi, le regioni del Nord, fornendogli utenti, risorse economiche e normative a detrimento del Mezzogiorno. E questo su due asset fondamentali dell’eguaglianza repubblicana tra i cittadini, la sanità e la formazione superiore che dovrebbero essere fruibili agli stessi livelli su tutti i territori, mentre vediamo invece i cittadini del Sud utenti dei servizi sanitari del Nord con voucher di spesa per le prestazioni, formalmente assegnati alle regioni di appartenenza, e le università del Nord con voucher di spesa peggio ancora forniti in proprio dalle famiglie.

Se così stanno le cose è un esercizio di ottimismo della volontà immaginare un ripensamento della funzione (o della vocazione) dell’università nel Mezzogiorno, anche rinunciando ad “allinearsi”, come pur il Sud potrebbe avere diritto, ai modelli delle cosiddette università “di eccellenza” del Nord o del Centro del Paese, trovando un’alternativa di utenza e di mercato formativo nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. L’aggancio di questa utenza e di questo mercato, aggiuntivo al tenersi almeno l’utenza meridionale senza cederla al Nord, potrebbe essere realisticamente possibile solo se le università del Mezzogiorno si facessero attrattive in linea con le migliori performance del sistema nazionale. Anche magari grazie a un uso provvido (che anch’esso non si vede) delle risorse del PNRR, per raggiungere gli obiettivi per altro richiesti dall’Europa di ridurre il divario Nord-Sud del Paese, perché se si accorcia il divario tra Sud e Nord – questo è l’approccio di Bruxelles – tiene l’Italia, e tenendo l’Italia tiene la costruzione europea: un paradossale e benemerito vincolo esterno da far raggiungere alle politiche “nazionali”, contra gli egoismi regionali e le miopie centrali, gli obiettivi di Saraceno e del dettato costituzionale. Anche il Sud della formazione diventerà una “porta aperta” sul Mediterraneo, di vantaggio a tutto il Paese, al suo rilancio, solo se lo diventerà rilanciato e rilanciandosi il Sud nel suo complesso, che è poi quello che già scriveva tra gli altri Valerio Castronovo nel 2014, che “a causa della disastrata situazione economica in cui versa il Sud, e delle pesanti ipoteche che si trascina dietro da tempo, non si può certo pensare che il Centro-Nord sia in grado (anche in quanto ha subito, a sua volta, perdite rilevanti nel settore industriale e su altri versanti) di mantenere l’Italia nell’ambito di Paesi più avanzati e di far fronte ai considerevoli impegni per il riequilibrio dei conti pubblici assunti in seno all’Unione Europea. Di qui l’esigenza imprescindibile di un salto di qualità che valga ad arrestare il declino del Mezzogiorno e a rilanciare le sue chances. Dall’agricoltura biologica alla produzione alimentare, dall’energia geotermica ad altre energie rinnovabili, dalla ricerca applicata al turismo, dalla logistica alla sistemazione del territorio, esistono al Sud opportunità e prospettive di sviluppo non ancora perseguite in pieno o in un modo confacente […]. D’altra parte, quale crocevia fra Europa, Nord Africa e Medio Oriente, il Mezzogiorno ha di per sé i requisiti, qualora vengano debitamente valorizzati, per svolgere un ruolo importante negli scambi e nei movimenti di capitale internazionali”7. Insomma, il Sud, e il suo sistema universitario, sarà un crocevia formativo attrattivo per la sponda Sud del Mediterraneo solo se sarà anche un crocevia economico attrattivo. Hic Rhodus, hic salta.

 

Note

1.  La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, intervista a Gianfranco Viesti, in Letture.org, 2018.

2.  Ibidem.

3. V. Esposito, Laureati, la fuga dei cervelli ci costa 2,4 miliardi l’anno, in Corriere del Mezzogiorno, 8 giugno 2022.

4. V. Mariani e R. Torrini, Il sistema universitario: un confronto tra Centro-Nord e Mezzogiorno, in Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 675, 16 marzo 2022.

5. È quasi mezzanotte per gli atenei del Mezzogiorno d’Italia, in Roars, 27 aprile 2022.

6.  Rapporto Svimez 2021. L’economia e la società del Mezzogiorno, Il Mulino, 2021, Parte seconda, Cap. 5.

7. V. Castronovo, Il Sud crocevia del Mediterraneo, in Il Sole24Ore, 2 novembre 2014

Eugenio Mazzarella è Professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.

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