Trimestrale di cultura civile

Modelli di gestione dell’università, dal feudo all’azienda

  • AGO 2022

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Il compito dell’università, quale anello fondamentale della catena del valore rappresentato dal sistema della conoscenza, dovrebbe essere quello di creare e trasmettere conoscenza (ricerca e didattica) e servire la comunità, nella doppia forma della qualificazione delle élite e della “terza missione”. Oggi le cose stanno così? L’evidenza della crisi sopraggiunta porta a riconoscere che ci si trova di fronte a una marcata inadeguatezza. A un’accertata difficoltà a rispondere ai cambiamenti, alla domanda dei “nuovi studenti”. La risposta dell’università è stata nella sostanza una non risposta, un mettersi sulla difensiva. Si fatica a comprendere che non ha sbocchi assolutizzare posizioni, perseguire modelli acritici e che tutti gli aspetti che riguardano l’università (governo, rapporto fra Stato e istituzione accademica, compiti dei docenti, relazione fra docenti e studenti, burocrazia e gestione, managerialità e rapporto con il mercato, eccetera) vanno tenuti insieme e messi a fuoco nell’ottica di un realistico miglioramento. In ogni caso, chiunque la gestisca, la prima responsabilità dell’università rimane quella di diminuire l’ignoranza. Ma va compreso per quali scopi. Scansando la tentazione di trasformazioni in ossequio a stereotipi piuttosto che ad autentiche necessità di rinnovamento.

“Il problema è quello di trasformare le università non per renderle più simili alle aziende, ma per renderle più efficienti, evitando gli stereotipi e rendendosi conto che le cose stanno cambiando, e questo comporta delle conseguenze anche sul modo di gestire un’università”1.

Il governo dell’università in passato è stato visto come un equilibrio tra l’autorità accademica e quella statale, forse irrisolvibile per la diversità degli obiettivi, oppure tra il dominio del produttore, che è il depositario della conoscenza, e la sovranità del consumatore/studente. L’ingresso del mercato ha modificato sostanzialmente e in breve tempo le dinamiche tradizionali: “In dieci anni, gli studenti hanno subito una metamorfosi da apprendisti a clienti, e i docenti da maestri a mercanti2, e Clark3 ha messo a punto il modello secondo cui l’istruzione superiore è governata dal triangolo “Stato - mercato - accademia”. In anni più recenti, si è aggiunto al triangolo un “quarto lato”, la società civile, che opera attraverso i corpi intermedi4, le buffer institutions, che rispondono all’idea di “creare una zona neutrale di negoziazione tra lo Stato e l’università, per prevenire il dominio del primo sulla seconda”5, facendosi portavoce di mores e norme derivanti dalla società civile, per stabilire un equilibrio tra le pressioni della politica e gli obiettivi a lungo termine dell’università, e garantendo un punto di contatto tra due gerarchie totalmente separate.

Ricerca e didattica

Ma “il ruolo della conoscenza nella creazione e nello sviluppo della ricchezza e del potere all’interno delle società postindustriali è mutato in modo radicale e sta modificando il ruolo dello Stato e delle imprese nell’industria della conoscenza, cioè nel sistema di istruzione superiore”6. L’equilibrio è venuto meno, dando spazio a uno scontro fra chi basa il necessario cambiamento organizzativo su un’adozione acritica degli approcci elaborati per le aziende private, senza tenere conto dei valori caratteristici e delle finalità particolari dell’università, e chi rifiuta tassativamente di introdurre concetti come efficienza e managerialità, e considera la richiesta di accountability come una concessione al mercato, e non come una forma dovuta di trasparenza nell’uso delle risorse della comunità. Anche la cosiddetta quality assurance, sarebbe un concetto “industriale”. Ancora Clark7 evidenzia che l’università postmoderna è un conglomerato con molteplici missioni, composta da elementi disparati: non è più una comunità, dove esisteva un forte senso di appartenenza fra docenti e studenti, ma piuttosto una associazione fra estranei collegati da un tenue legame morale.

Gli aspetti organizzativi e gestionali sono però uno strumento per raggiungere i tre obiettivi fondamentali dell’istruzione superiore, che si modificano nelle forme ma restano tali nella sostanza: creare e trasmettere conoscenza (ricerca e didattica) e servire la comunità, nella doppia forma della qualificazione delle élite e della “terza missione”. Al cambiare del contesto, è necessario modificare una serie di elementi, anche quelli che precedentemente non erano mai stati messi in discussione, come la qualità: ma le istituzioni sono state lente a capire che l’ampliamento nell’accesso all’istruzione superiore, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha reso il prodotto offerto inadeguato alle caratteristiche dei “nuovi studenti”, e spesso hanno reagito adottando un modello difensivo, destinato a fallire: è però altrettanto sbagliato pensare di rispondere alla crisi semplicemente facendo ricorso alle strategie aziendali, nate in un altro contesto e per altri fini8.

Ora, alcuni elementi migliorativi mutuati dalle imprese sono ormai acquisiti anche negli atenei: l’attenzione al mercato, la messa a punto di nuove forme di pianificazione, la reattività alle priorità (nazionali, locali, di settore) e, infine, l’adozione di modelli di gestione più imprenditoriali e di approcci “aziendalistici” al finanziamento, per rendere le università meno dipendenti dal finanziamento pubblico. Le imprese hanno capito molto prima che la burocrazia come sistema di gestione delle organizzazioni è morta perché non è capace di confrontarsi con un ambiente più dinamico, mentre le università, che paiono finalizzate all’autoconservazione, continuano a utilizzarla “per sviluppare un sistema di regole e norme in grado di proteggere l’autonomia dei singoli membri della comunità accademica9, e accettano solo i cambiamenti che considerano compatibili con i fini individuali, invece di acquisire alcuni caratteri delle organizzazioni “a elevata reattività”, in cui i fini dei singoli sono subordinati a quelli comuni.

L’approccio funzionalista

Il compito fondamentale della burocrazia dovrebbe essere quello di facilitare i processi decisionali e la loro attuazione, ma gli accademici, che considerano oscuri i compiti gestionali (blinded by science), finiscono con il pensare che la cosa non li riguardi e stentano a uscire dal loro campo disciplinare per prendere le decisioni più opportune per l’università nel suo insieme, in contrasto con la tradizionale autonomia della ricerca individuale. Da sempre nell’università esiste una doppia gerarchia, una amministrativa discendente (responsabile verso lo Stato finanziatore) e una accademica ascendente, che culmina nel rettore: il peso crescente dell’amministrazione sposta il potere dall’accademia ai manager, e il Prometeo università, sfuggito alle catene dello Stato, finisce con l’essere condizionato dalle necessità del sistema produttivo10. Le politiche di rational planning and control sono state sostituite da quelle di autoregolazione, ma non si può fare a meno di pensare che in realtà il controllo sia più attivo di prima: “per tornare alla ben nota analogia della politica come un music-hall, sono cambiati i costumi, ma il coro, la musica e i balli sono rimasti tali e quali”11.

Si parla di autonomia negoziata, ed è diffusa l’opinione che non sia né possibile né auspicabile una completa standardizzazione dei metodi gestionali e di valutazione, dal momento che “lo stile, i contenuti e la qualità dell’insegnamento, della ricerca e dell’accademia, continueranno a nascere dalla motivazione dei singoli docenti e ricercatori […] ogni istituzione ha, e continua ad avere in misura crescente, i suoi valori distintivi”12. L’approccio funzionalista, che ha una visione aziendalistica dell’università e ne collega il ruolo solo alla capacità di produrre reddito, individuale o sociale, riflette gli interessi solo di una parte limitata della società e, soprattutto, “ignora il carattere intrinseco dell’istruzione superiore”13, che ricerca un equilibrio fra l’utilità sociale, le esigenze degli studenti e il diritto per un accademico di fare una ricerca per estendere i confini della conoscenza umana, o anche solo perché gli interessa.

Dal modello tradizionale al “self-service”

In riferimento specifico alla didattica, i due anni di pandemia hanno potenziato l’obiettivo di trovare nuove forme di educazione a distanza, o blended, già adottata – anche se in modo spesso solo commerciale – dalle università telematiche, le uniche che non hanno conosciuto nessuna flessione negli ultimi anni. Se si esce dall’ottica dell’emergenza, è possibile vedere che si tratta di una manifestazione del principio del rinnovamento sistematico della conoscenza tipico dell’epoca contemporanea, che “implica un cambiamento di paradigma nella distribuzione della conoscenza e nel disegno del curricolo, centrato non più sull’istituzione ma sullo studente, che costruisce abbastanza liberamente il suo percorso”14. Il passaggio è dal modello tradizionale, rigido, a un self-service, dove ciascuno si approvvigiona direttamente, secondo le sue necessità e procedendo con il suo passo. Tra le misure di successo possiamo ricordare gli schemi di trasferimento dei crediti, che consentono la capitalizzazione di esperienze di lavoro, e la modularizzazione dei corsi, ormai largamente diffusa, che viene incontro ai bisogni di un’utenza non tradizionale, ma può correre il rischio di un appiattimento degli insegnamenti. Alla crescita della diversificazione fa seguito la problematicità sulla qualità dei servizi offerti, con l’avvio del circolo perverso “ampliamento degli accessi/degrado del servizio”: ma la qualità che l’università di massa può e deve raggiungere non è quella dell’università di élite, e si deve passare dal more means worse al more means different.

L’università ha anche il compito di mantenere in vita, con qualche cautela, i corsi che hanno una domanda minima, ma la cui importanza culturale è innegabile, o che rispondono agli interessi di ragazzi particolarmente dotati in quei settori. I servizi prodotti dall’università non sono paragonabili illico et immediate a quelli di un’impresa di servizi, e devono tenere conto di elementi come la motivazione dei docenti, che è poco collegata alla competitività di tipo aziendale, e deriva piuttosto dal sistema accademico di norme e valori, che reagisce male a una valutazione legata alla produttività (“mi considerate un impiegato, e io mi comporto come tale”). Ma la crisi dell’università non riguarda solo l’efficienza e coinvolge il ruolo sociale, l’autopercezione dei docenti, il rapporto tra ricerca e insegnamento, la crisi delle discipline, il ruolo degli studenti, il rapporto con i mezzi di comunicazione di massa, il generale abbassamento del livello culturale.

“Chi paga il pifferaio sceglie la musica”

È possibile uscire in qualche modo da questa situazione, o la lettura economica e quella culturale devono essere considerate incompatibili? Come scriveva Trow15 cinquant’anni fa, “la coesistenza di due culture fondamentalmente diverse nella stessa istituzione dipende da confini strutturali, dall’isolamento delle due gerarchie, e dall’ignoranza delle differenze, che segnano la mancanza di un coordinamento rigoroso e razionale proveniente dal centro”. Ci sono dei limiti alla misura in cui le politiche e le decisioni universitarie possono essere giudicate puramente in termini di efficienza nel rapporto mezzi/fini o di razionalità: secondo gli standards industriali, l’università è inefficiente, e non può sopravvivere con un governo di tipo paternalistico, basato sulla tradizione e sul prestigio accademico; tuttavia, bisogna tenere conto delle diverse relazioni che i vari membri hanno con l’obiettivo finale dell’università, e del fatto che sussiste anche un’autorità basata sulla conoscenza.

Si può pensare a una possibile “democrazia consensuale”16, che costruisce il consenso dopo un dibattito, ma in periodi di rapido cambiamento come quello che viviamo, questo modello può essere inadeguato, perché richiede molto tempo e consente a gruppi minoritari di opporsi senza formulare proposte alternative. Comporta, inoltre, problemi di definizione dei criteri di appartenenza, che possono escludere dalla decisionalità interi gruppi (per esempio gli studenti): potrebbe però essere un’occasione per implementare una “professionalizzazione” di alcuni accademici, sia che se ne parli come di una comunità di pari, sia che si preferisca l’approccio organizzativo. Questo significa anche modificare la valutazione dello staff, sia per i criteri, sia per la cadenza temporale, che in Italia veniva fatta una volta per tutte nei concorsi e ha visto forti resistenze all’introduzione periodica della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca). Non è questa la sede per parlarne, e mi limito a notare che il rigore delle procedure dovrebbe coniugarsi alla cautela nell’applicazione, perché un sistema di valutazione dei docenti può diventare rapidamente un sistema di controllo o, al contrario, di complicità fra valutati e valutatori.

Alla concezione soft che vede l’educazione superiore come un’attività autonoma, governata dalle proprie norme e tradizioni e in cui una gestione migliore è finalizzata a migliorare l’esistente per conseguire gli scopi fissati dalla comunità accademica si è gradualmente sostituita quella hard che assegna alla gestione manageriale una posizione centrale, con l’esercizio di un’azione continua di miglioramento dell’efficienza e della qualità, e con un continuo controllo dei risultati che collega il finanziamento agli esiti della valutazione. Al venir meno della fiducia si è sostituita una razionalizzazione imposta dall’esterno, in cui il nuovo sistema burocratico creato dallo Stato dovrebbe garantire l’efficienza e l’efficacia dell’impresa università, che diviene l’unica responsabile dell’uso delle risorse, mentre le decisioni politiche che queste risorse condizionano non sono sottoposte a un esame critico. L’università non è un sistema politico, ma è innegabile che abbia una rilevanza politica, dato che influisce sulla formazione delle élites, sulla produzione del consenso, sul raccordo tra scuola e mercato del lavoro e il finanziamento pubblico è tutt’altro che irrilevante dal punto di vista della determinazione dei fini, in quanto, come dicono gli inglesi “he who pays the piper calls the tune”, chi paga il pifferaio sceglie la musica.

Una diversa autocoscienza dei docenti

Chiunque la gestisca, “la prima responsabilità dell’università è quella di ‘diminuire l’ignoranza’”17. Ma a che scopo? Per il prestigio nazionale, ad majorem Dei gloriam, per produrre gentiluomini, capi o semplicemente uomini comuni meglio preparati, per la sua propria sopravvivenza, per produrre e stimolare lo spirito critico, per trasmettere un’eredità culturale… La scarsa chiarezza sui fini determina una tensione fra insegnamento, ricerca e servizio alla comunità, che è sempre esistita, ma per reggere la sfida dell’innovazione è necessario che i flussi di conoscenza, accresciuti dalla diffusione delle tecnologie, vengano regolamentati, in una prospettiva che è evolutiva più che non di rottura, e che aumenti la comunicazione. Questo richiede non solo un diverso sistema di governo dell’università, ma una diversa autocoscienza dei docenti, che sono e restano la principale risorsa. Se viene messa alla prova la tradizionale gerarchia di prestigio composta da compiti accademici e compiti amministrativi, a cui va riconosciuta una pari importanza, ai docenti non viene più chiesto di fare un po’ di tutto, ma piuttosto di “specializzarsi” in quello che sanno fare meglio. Per arrivare a questo, vanno superati alcuni dei “miti” ben descritti dalla Middlehurst18 nella sua critica alla visione amatoriale della leadership universitaria, il “culto del dilettante dotato”, secondo cui qualsiasi individuo intelligente ed educato può governare un’università. E forse non è solo l’università a dover imparare dalle imprese... Come scriveva scherzosamente Handy19: “Le università – dissi – sono il prototipo delle organizzazioni di domani”. “Se
è così – disse un professore che passava di lì – allora che Dio ci aiuti”.

 

Note

1. R.B. Cullen, Gestire le istituzioni accademiche come aziende: è davvero possibile?, in Problemi di amministrazione pubblica, n. 1, 1994, pp. 47-71.

2. D.D. Dill, B. Sporn, Emerging Patterns of Social Demand and University Reform: through a glass, Pergamon Press, Oxford 1995, p. 177.

3. B.R. Clark, The higher education system. Academic organisation in cross national perspective, University of California Press, Berkeley 1983.

4. F. Bassanini, T. Treu, G. Vittadini (a cura di), Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani, Il Mulino, Bologna 2021.

5. G. Neave, The politics of quality: developments in higher education in Western Europe 1992-1994, in European Journal of Education, vol. 29, n. 2, 1994, pp. 115-134.

6. R.B. Cullen, Gestire le istituzioni accademiche…cit., 1994, p. 56.

7. B.R. Clark, The higher education system… cit., 1983, p. 26.

8. Si stima che l’utenza non tradizionale in molti Paesi abbia superato la metà degli studenti, e questo genera una tensione fra la funzione élitaria e l’allargamento della qualificazione, funzioni che non sempre possono coesistere, e chiedono alle università di trovare un equilibrio fra l’integrazione dei nuovi studenti nei corsi esistenti, e il dare loro percorsi distinti, con il rischio reale che i titoli conseguiti in modo tradizionale nelle università più esclusive valgano di più, anche perché sono indicatori di una certa appartenenza sociale.

9. R.B. Cullen, Gestire le istituzioni accademiche…cit., 1994, p. 58.

10. G. Neave, F. Van Vught (a cura di), Prometheus bound: the changing relationship between Government and higher education in Western Europe, Pergamon Press, London 1991.

11. T. Tapper, B. Salter, Oxford, Cambridge and the changing idea of the university, SRHE & Open University, Buckingham 1992.

12. A.E. Becher, M. Kogan, Process and structure in higher education, Routledge, London 1992 (ed.or. Heinemann Educational Books, London 1980, pp. 73, 20.

13. R.A. Barnett, The idea of higher education, SRHE & Open University, Milton Keynes 1990, pp. 4-5.

14. C. Duke, The learning university. Towards a new paradigm?, in The Society for research in higher education, Open University Press, Buckingham 1992, p. 52.

15. M. Trow, The expansion and transformation of higher education, in International Review of Education, 1972, pp. 61-82.

16. G.C. Moodie, R. Eustace, Power and authority in British Universities, Allen & Unwin, London 1974, p. 233.

17. G.C. Moodie, R. Eustace, Power and authority… cit., 1974.

18. R. Middlehurst, Leading Academics, SRHE - Open University, Buckingham 1993.

19. C. Handy C., Gods of management, Arrow Books, London 1995. Il titolo è dovuto al fatto che Handy sceglie quattro dei greci (Zeus, Apollo, Atena e Dioniso) come modelli dei diversi tipi di autorità…

 

Luisa Ribolzi è stata Professore ordinario di sociologia dell’educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova e vicepresidente dell’ANVUR.

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