Trimestrale di cultura civile

Internazionalizzazione nell’istruzione superiore

  • AGO 2022
  • Philip G. Altbach
  • Hans de Wit

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Le sfide globali che stiamo vivendo, dovute soprattutto ai fenomeni della pandemia e della guerra nel cuore dell’Europa, impattano direttamente sulle esigenze dell’economia della conoscenza e, in particolare, sulle finalità dell’esperienza legata all’internazionalizzazione. Negli anni sono venuti a modificarsi i motivi – da ultimo il contributo richiesto al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell’agenda 2030 – e ora si fanno ancora più urgenti in ragione dell’inevitabile e alquanto nebuloso riassetto geopolitico. Il timore legittimo è che questa fase di inasprimenti e divisioni determini un profondo scollamento e un uso distorto e funzionale dell’internazionalizzazione; e, dunque, al servizio di obiettivi di controllo governativo e al posizionamento strategico da parte di Paesi e schieramenti (il rischio è una nuova guerra fredda). Ma proprio adesso, nel pieno della fase acuta, occorre riprendere l’ambizioso programma. Aggiornandolo alle criticità. Scommettendo, ragionevolmente, sul valore dell’internazionalizzazione nell’istruzione superiore quale elemento di novità relazionale e cooperativa. Oppositivo a qualsiasi deviazione populista e isolazionista.

L’internazionalizzazione come concetto e agenda strategica è un fenomeno relativamente nuovo, ampio e variegato nell’istruzione superiore, guidato da una combinazione dinamica di motivazioni politiche, economiche, socioculturali e accademiche e stakeholder. Il suo impatto su regioni, Paesi e istituzioni varia a seconda dei contesti specifici. La mobilità, nota anche come “internazionalizzazione all’estero”, è l’attività più citata e assume svariate forme. L’“internazionalizzazione in patria” è l’altra componente chiave dell’internazionalizzazione. Ha ricevuto maggiore attenzione, ma sempre meno della mobilità.

La crescente globalizzazione e regionalizzazione delle economie e delle società, unita alle esigenze dell’economia della conoscenza e alla fine della guerra fredda, ha creato alla fine degli anni Ottanta un contesto che ha permesso un approccio più strategico all’internazionalizzazione dell’istruzione superiore. Negli ultimi tre decenni, l’internazionalizzazione dell’istruzione superiore, da attività marginale, si è trasformata in un aspetto chiave dell’agenda delle riforme e, in alcuni casi, in una realtà economica fondamentale per alcune università. Attualmente, le sfide globali e le tensioni geopolitiche, palesate in particolare, ma non solo, dalla pandemia da Covid-19, dall’invasione della Russia in Ucraina e dalla pressione del cambiamento climatico, creano nuove sfide e bisogni per la collaborazione accademica e l’internazionalizzazione delle tre missioni dell’istruzione superiore: istruzione, ricerca e servizio alla società.

L’internazionalizzazione si è evoluta e, durante questo processo, le priorità del passato sono state sostituite – o superate in importanza – da altre. Negli ultimi trent’anni hanno prevalso le motivazioni economiche, ma date le sfide estreme che la società globale deve affrontare – riassunte negli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) delle Nazioni Unite – l’internazionalizzazione è ora chiamata a contribuire alla realizzazione di queste sfide e obiettivi sociali, ma deve affrontare nuove sfide geopolitiche per farlo.

Dalla cooperazione alla competizione

La tensione tra la natura universale e l’integrazione nei contesti nazionali e locali è una caratteristica dominante dell’istruzione superiore. I riferimenti alla natura globale delle università ignorano il fatto che molte università sono state fondate o trasformate nel XVIII e XIX secolo con un orientamento chiaramente nazionale.

Gli eventi politici, in particolare le due guerre mondiali della prima metà del XX secolo, hanno portato a concentrarsi sulla promozione della pace e della comprensione reciproca, attraverso la cooperazione e lo scambio internazionale. Negli anni successivi, oltre alla pace e alla comprensione reciproca, hanno preso sempre più piede le motivazioni della guerra fredda in materia di sicurezza nazionale e politica estera. La guerra fredda divenne la motivazione principale per promuovere una dimensione internazionale dell’istruzione superiore. Quelle che erano iniziate come attività occasionali e individuali si sono evolute in programmi di educazione internazionale strutturati, animati più dai governi nazionali che dalle università.

L’enfasi tradizionale dell’internazionalizzazione è stata posta sugli scambi e sulla cooperazione per contribuire a una migliore comprensione di culture e lingue diverse, nonché per la collaborazione nella ricerca. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Novanta e ancor prima nel Regno Unito e in Australia (intorno al 1980), si è assistito a uno spostamento graduale ma sempre più visibile verso una maggiore concorrenza. L’ottimismo della fine degli anni Ottanta, quando si pensava che l’internazionalizzazione, da attività ad hoc, marginale e frammentata, si sarebbe trasformata in un punto centrale dell’agenda dell’istruzione superiore, ha portato a un’ampia accettazione dell’internazionalizzazione come uno dei motori principali dell’innovazione e del cambiamento nell’istruzione superiore. Ma la direzione presa è stata quella del reclutamento di studenti internazionali e dello sviluppo della formazione transfrontaliera come fonte di reddito, competizione per i talenti (immigrazione qualificata) e reputazione (classifiche).

Una controreazione

Questa attenzione all’internazionalizzazione come bene commerciabile si è tradotta, all’inizio del secolo, in appelli per un ritorno all’etica e ai valori della cooperazione da parte del movimento Internationalization at Home [Internalizzazione a casa] in Europa, in reazione all’attenzione per gli scambi Erasmus (che ne sarà del 95% di studenti non mobili?), e in un appello per l’internazionalizzazione del curriculum nel Regno Unito e in Australia, in reazione all’attenzione esclusiva per il reclutamento di studenti internazionali e per l’erogazione di corsi off-shore. Ma l’attenzione alla mobilità e alla produzione di reddito è aumentata ancora di più nel decennio successivo, soprattutto nei Paesi anglofoni, in parte perché i governi guardavano sempre più ai pagamenti delle rette universitarie degli studenti internazionali come fonte di reddito fondamentale per l’istruzione superiore.

Lo studio del 2015 per il Parlamento europeo sullo stato dell’internazionalizzazione nell’istruzione superiore riflette questa nuova linea di pensiero, promuovendo un nuovo programma per il futuro, con la seguente definizione di internazionalizzazione: “Il processo intenzionale di integrazione di una dimensione internazionale, interculturale o globale nelle finalità, nelle funzioni e nell’erogazione dell’istruzione post-secondaria, al fine di migliorare la qualità dell’istruzione e della ricerca per tutti gli studenti e il personale e di dare un contributo significativo alla società” (de Wit et al, 2015).

Questa definizione dà una direzione normativa al processo, sottolineando che tale processo non avviene automaticamente, ma deve essere intenzionale; che non è un obiettivo in sé, ma deve contribuire al miglioramento della qualità; che non dovrebbe essere solo un vantaggio riservato a una piccola élite di studenti e studiosi in mobilità, ma andare a beneficio di tutti e, infine, che dovrebbe anche andare a beneficio della società.

Sebbene la critica alla nozione di internazionalizzazione come bene commerciabile competitivo ed esclusivo sia stata ampiamente riconosciuta e concetti come “internazionalizzazione a casa”, “internazionalizzazione del curriculum”, “internazionalizzazione per la società”, “internazionalizzazione umanistica”, “apprendimento globale per tutti” abbiano trovato ampio supporto in relazioni, documenti, dichiarazioni e persino in politica, la realtà dell’internazionalizzazione come prodotto commerciabile è ancora fortemente prevalente. Valori tradizionali come la cooperazione, la pace e la comprensione reciproca, lo sviluppo del capitale umano e la solidarietà sono stati messi in secondo piano, mentre le università si battono per la concorrenza, il reddito e la reputazione/marchio.

Dopo la pandemia, i governi e gli enti di istruzione superiore del Nord globale cercano disperatamente di tornare alla “vecchia normalità” di prima del 2020, senza considerare che il contesto economico, socio-culturale e politico è cambiato radicalmente. Un ritorno alla vecchia normalità non solo è impossibile, ma non è nemmeno auspicabile, viste le sfide globali che dobbiamo affrontare.

I movimenti nazionalisti-populisti, i divieti di immigrazione, gli attacchi alla libertà accademica, le proteste antiglobaliste, le tensioni geopolitiche con la Russia e la Cina e, in Europa, le tendenze anti-integrazione (Brexit), potrebbero avere implicazioni negative per l’internazionalizzazione. Allo stesso tempo, si assiste a un allontanamento dall’internazionalizzazione come concetto puramente occidentale e a una richiesta di decolonizzazione nel Sud globale. La digitalizzazione dell’istruzione superiore, una necessità imposta dalla pandemia, pone sfide (disparità di accesso, impatto negativo sul benessere degli studenti) e opportunità (riduzione della mobilità fisica di studenti, personale e amministratori, apprendimento internazionale collaborativo online o scambio virtuale).

È troppo presto per dire quali saranno le conseguenze dirette di questi sviluppi ma, molto probabilmente, cambieranno e/o accelereranno i modelli di mobilità, autonomia e libertà accademica, privatizzazione e commercializzazione, nonché altre dimensioni chiave dell’istruzione terziaria globale. Allo stesso modo, grazie all’interconnessione delle nostre società ed economie, i disastri naturali e i rischi sanitari hanno sempre più una portata globale, con un impatto sull’istruzione superiore e sugli sforzi di internazionalizzazione. L’attuale epidemia da Covid-19 ne è un chiaro esempio.

Sfide e opportunità per il futuro

L’internazionalizzazione nell’istruzione superiore sta entrando in una nuova fase. Il passaggio dall’internazionalizzazione all’estero – fortemente incentrata su una piccola élite di studenti, docenti, amministratori e programmi in mobilità – all’internazionalizzazione in patria per tutti i membri della comunità accademica, è diventato più urgente che mai, sicuramente dopo la pandemia da Covid-19. Rendere l’internazionalizzazione più carbon neutral, aumentare il contributo dell’internazionalizzazione alla società e collegare la sfera globale a quella locale sono degli imperativi, ma queste prospettive sono offuscate da nubi oscure. Ne affrontiamo due: la fuga dei cervelli e la geopolitica/cartolarizzazione.

Fuga di cervelli

Nel 1965 c’erano circa 250.000 studenti in mobilità globale, un numero che oggi è cresciuto fino a 5,6 milioni. Allo stesso tempo, cominciavano a emergere aspetti più ampi della globalizzazione, tra cui la mobilità del lavoro. Molti analisti ed educatori, soprattutto sulla sinistra dello spettro politico, incominciarono a criticare le economie avanzate dell’Europa e del Nord America, accusandole di attirare professionisti di talento dai Paesi a basso reddito, molti dei quali erano usciti da poco dal dominio coloniale. Il termine “fuga di cervelli” è stato usato per definire questo movimento.

Nel corso del tempo si è parlato meno di fuga dei cervelli, anche se un numero massiccio di professionisti, ricercatori e altre persone con un alto livello di istruzione provenienti da quello che oggi è noto come il Sud globale, si è trasferito in Europa, Australasia e Nord America. Un numero crescente di persone si è recato all’estero per ricevere un’istruzione avanzata e non è più tornato, mentre altri sono stati assunti direttamente nel Sud globale da università e industrie dopo la laurea nel loro Paese d’origine.

Nel XXI secolo, ciò che un tempo veniva etichettato come fuga di cervelli è visto come un normale modello di mobilità globale, anche se il risultato rimane profondamente problematico per i Paesi di origine. Altri termini, come brain gain [guadagno di cervelli] e brain circulation [circolazione di cervelli], implicano che la mobilità di studenti, studiosi e ricercatori può avere dimensioni positive. Questi concetti sono legati alla commercializzazione e all’orientamento al mercato dell’istruzione internazionale e presuppongono che le esigenze delle economie in via di sviluppo siano irrilevanti. Si riflettono anche nelle politiche dei governi del Nord globale, che hanno esteso il tasso di permanenza degli studenti internazionali per rafforzare il numero di lavoratori qualificati che contribuiscono alle loro economie e compensare l’invecchiamento delle loro società. Nel 2009, il tasso di permanenza medio dell’OCSE era del 25%, e negli anni successivi è aumentato notevolmente. Studi sui Paesi scandinavi e sui Paesi Bassi indicano percentuali comprese tra il 40 e il 60%. Altri studi mostrano che il 70% o più dei dottori di ricerca provenienti da Cina e India che conseguono un dottorato negli Stati Uniti vi rimangono.

È certamente vero che gli individui traggono vantaggi notevoli dalla mobilità e fanno carriera in Paesi che offrono una remunerazione superiore a quella dei loro Paesi d’origine. In alcuni casi, le competenze apprese all’estero non potrebbero essere facilmente trasferite in patria e chi ritorna non è sempre gradito. È anche vero che molti laureati continuano a conseguire titoli di studio avanzati e/o intraprendono carriere che li portano in diversi altri Paesi. Inoltre, c’è una crescente attenzione al ruolo delle diaspore e al loro potenziale contributo allo sviluppo economico e sociale nei Paesi d’origine.

La nuova politica di immigrazione della Commissione Europea propone l’immigrazione legale di manodopera qualificata da Egitto, Marocco e Tunisia attraverso i cosiddetti “Talent Partnerships”. Anche altri Paesi, tra cui Bangladesh, Nigeria, Pakistan e Senegal, sono destinati a tali partenariati.

A seguito della guerra, ora c’è un crescente bacino di rifugiati qualificati e di talento provenienti dall’Ucraina. Le autorità dell’UE non la chiamano “fuga di cervelli”, ma “guadagno di cervelli”, perché ciò comprenderà anche la cooperazione allo sviluppo. Allo stesso tempo, questo progetto fa parte della posizione aggressiva dell’UE per prevenire l’immigrazione illegale dai suoi confini. Il Talent Partnerships è stato lanciato l’11 giugno 2021, con la dichiarazione del Commissario Johansson: “Abbiamo bisogno di migrazione legale: la popolazione europea in età lavorativa si sta riducendo e molti settori chiave, come la sanità e l’agricoltura, devono far fronte a carenze di competenze. I Talent Partnerships contribuiranno a far incontrare le competenze di chi desidera lavorare in Europa con le esigenze del mercato del lavoro. I Talent Partnerships daranno inoltre all’Europa un ottimo strumento per lavorare insieme ai nostri Paesi partner su tutti gli aspetti della migrazione, cosa che finora è mancata”.

La Commissione Europea – che non è l’unica in questa competizione per i talenti, ma vi sono anche il Regno Unito, l’Australia, il Canada, il Giappone, la Corea e gli Stati Uniti – afferma che il suo programma di partnership per i talenti porterà a un guadagno di cervelli. Ma i programmi di sviluppo delle capacità sono sempre più orientati a favorire il Nord globale, preparando i talenti del Sud per l’impiego nel Nord – l’obiettivo principale della politica dell’UE. È innegabile che l’istruzione e la formazione delle risorse umane a livello locale, piuttosto che la loro dislocazione, abbiano un valore enorme. Tuttavia, a fronte delle notevoli esigenze del Sud globale, le risorse finanziarie messe a disposizione dai governi del Nord globale e dall’UE sono largamente insufficienti e il bisogno di talenti è molto più grande. L’Africa, in particolare, è diventata un campo di battaglia in cui i Paesi occidentali, la Cina e la Russia competono per il dominio dell’accesso e del drenaggio dei talenti.

Geopolitica e cartolarizzazione. Una nuova guerra fredda?

L’invasione della Russia in Ucraina, l’aumento delle tensioni globali tra la Cina e il mondo occidentale e gli attacchi a livello mondiale alla libertà accademica stanno creando una nuova guerra fredda, ma in condizioni ancora più instabili. L’impatto sull’istruzione superiore è innegabile. Da un lato, queste mutate condizioni richiedono una maggiore collaborazione accademica, ma allo stesso tempo determinano una maggiore cartolarizzazione e uno sguardo verso l’interno.

Temiamo che uno dei risultati collaterali della guerra della Russia contro l’Ucraina sia la perdita di razionalità di alcuni segmenti della comunità accademica in Nord America e in Europa. Sosteniamo che l’impegno con i colleghi russi – e la conoscenza della Russia – sia importante. Affermiamo che: “Stiamo entrando in una nuova fase di isolamento e di ricerca di un’identità nazionale dal punto di vista politico e istituzionale, ma ciò che è stato costruito in decenni di legami accademici personali e di sviluppo della conoscenza non dovrebbe essere completamente gettato via, per il futuro dell’istruzione superiore russa e del resto del mondo”. E concludiamo: “Certo, bisogna prendere precauzioni e boicottare le istituzioni governative di ogni genere, ma senza che ne siano vittime gli accademici russi che si oppongono al regime. Costoro hanno bisogno del nostro sostegno e della nostra collaborazione, pari all’unanime sostegno che dobbiamo fornire al sistema di istruzione superiore e alla comunità in Ucraina”. (Altbach e de Wit, 2022)

In una recente intervista rilasciata a Times Higher Education, Simon Marginson ha affermato che “è necessario ‘risvegliare la coscienza’ della comunità scientifica sulle conseguenze di una maggiore cartolarizzazione”. La sua preoccupazione si concentra in particolare sulla collaborazione accademica con la Cina e sul ruolo dei governi nel controllarla. Secondo Marginson, se non si interviene, c’è il rischio concreto che il sistema scientifico globale aperto costruito negli ultimi vent’anni sia in pericolo. Secondo Marginson, “la scienza globale in quanto tale è in pericolo se i governi nazionali possono sovradeterminare le normali relazioni di collaborazione e plasmare il modello delle decisioni scientifiche”.

Conclusione

L’internazionalizzazione è un processo in costante evoluzione, che cambia in risposta agli ambienti locali, nazionali, regionali e globali. Le attuali tendenze globali sembrano essere più radicali rispetto al passato e richiedono un’attenzione e una cooperazione internazionale più forti che mai. Per l’istruzione superiore italiana, così come altrove, è necessario un approccio più strategico all’internazionalizzazione, meno incentrato sulla mobilità e più sull’apprendimento globale per tutti e sulla collaborazione accademica internazionale. L’internazionalizzazione è un agente di cambiamento necessario per modernizzare l’istruzione superiore e stimolare il suo contributo alle sfide globali che dobbiamo affrontare: non l’isolamento e lo sguardo verso l’interno, ma l’impegno globale è la base di un approccio innovativo.

 

Riferimenti bibliografici

P.G. Altbach e H. de Wit (2022), Competing for talent on the battlefield of the Global South, in University World News, n. 691, 7 maggio 2022.

P.G. Altbach e H. de Wit (2022), In the mad rush to disengage, we join in Putin’s extremism, in University World News, n. 686, 2 aprile 2022.

S. Baker (2022), Marginson: push back on “securitization” to save global science, in Times Higher Education, 21 giugno 2022.

P.G. Altbach e H. de Wit (2021), “70 years of Internationalization in Tertiary Education: changes, challenges and perspectives”, in Hilligje van ‘t Land, Andreas Corcoran, Diana Iancu (a cura di), The Promise of Higher Education: Essays in Honour of 70 years of IAU, Parte II: Facilitare la cooperazione internazionale, Palgrave McMillan/Springer Nature, pp. 115-122.

H. de Wit, F. Hunter, L. Howard e E. Egron Polak (a cura di) (2015), Internationalisation of Higher Education, Parlamento europeo, Direzione generale delle Politiche interne, Bruxelles.

Philip G. Altbach è Professore di ricerca e Distinguished Fellow presso il Center for International Higher Education del Boston College, dove dal 1994 al 2015 è stato Monan University Professor. Hans de Wit è Distinguished Fellow e Professore emerito di Practice in International Higher Education del “Center for International Higher Education” (CIHE) del Boston College.

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