Per capire da dove viene la nostra Chiesa e per cogliere il vertiginoso cammino percorso, bisogna partire dall’indipendenza dell’Algeria e dall’estate del 1962 che vide gli europei nativi d’Algeria, chiamati in modo un po’ peggiorativo i “pieds noirs”, partire per la Francia come si parte in esilio. La Chiesa europea, paragonabile a tutte le Chiese d’Europa dell’epoca, aveva vissuto. Ma la sua storia non era finita qui!
Fu infatti durante l’estate del 1962 che il cardinale Duval, arcivescovo di Algeri, molto impegnato a favore di un’Algeria indipendente, lanciò un appello ai suoi sacerdoti, religiosi e religiose, a rimanere in Algeria per partecipare alla costruzione dell’Algeria indipendente, in particolare mantenendo aperti dispensari e scuole. Possiamo facilmente immaginare quanto questo gesto possa essere stato doloroso e incomprensibile per il popolo cristiano che lasciava la sua terra natale mentre il suo pastore decideva di restare.
Eppure fu un gesto profetico, al quale il Concilio Vaticano II avrebbe dato sostanza teologica negli anni a venire. Sì, aveva senso che Cristo fosse presente nella sua Chiesa, anche senza un popolo cristiano, in mezzo ad un popolo musulmano. Così, all’inizio dell’anno scolastico 1962, tutte le scuole erano aperte per accogliere i bambini algerini, come i dispensari per curare i malati. Anche se è passato molto tempo, rimane ancora traccia di questa testimonianza nella memoria collettiva.
La Chiesa d’Algeria, pur non avendo origine da un’antica minoranza cristiana come le Chiese del Medio Oriente (il Nordafrica è una delle rare parti del mondo in cui la Chiesa è scomparsa per secoli), non è mai stata una Chiesa senza popolo. Innanzitutto perché è sempre stata al servizio di una comunità cristiana a volte ridotta alla sua espressione più semplice, ma anche perché si è sentita inviata al popolo algerino nella sua diversità. Anche se considerata come un’entità straniera, la Chiesa cattolica d’Algeria non può pensarsi se non come la Chiesa di un popolo, sebbene non cristiano.
A questo popolo non ha mai smesso di rendersi presente e di mettersi al suo servizio attraverso scuole e dispensari, fino alla nazionalizzazione negli anni 1975 e 1976 del settore sanitario e dell’istruzione. In quel momento, la Chiesa subì un’ulteriore considerevole perdita di statuto e di ragion d’essere. Ma nemmeno questa fu la fine della sua storia algerina! Ha saputo infatti rendersi presente alla società attraverso iniziative di ogni tipo, biblioteche, laboratori d’artigianato femminile, attenzione al mondo della disabilità, e mille iniziative lasciate alla creatività di ciascuno. A vista umana, questa presenza può sembrare irrisoria, e quantitativamente lo è. Ma, anche se a partire dall’indipendenza dell’Algeria la storia della Chiesa può essere letta come una perdita d’influenza, per non dire di potere, essa fa esperienza che la sua testimonianza ha ancora più peso.
Ciononostante, la Chiesa stessa si pone regolarmente la domanda sul “perché” della sua presenza. Una domanda molto più provocante e più arricchente di quella sul “come”, ben più comune per la Chiesa di fronte alle sfide pastorali da affrontare. La domanda sul perché non trova una risposta, o meglio, ne trova molteplici, senza che alcuna possa esaudirla completamente. Gran parte della potenza evangelica della nostra Chiesa impotente risiede in questa domanda senza risposta umana definitiva. Per me, l’unica vera risposta sta nell’accettazione di una parte di non-sapere sulla fede dell’altro, e nella convinzione che una parte della verità su Dio mi sfuggirà sempre. È la convinzione espressa perfettamente da Mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano assassinato il 1° agosto 1996: “Nessuno possiede Dio, nessuno possiede la verità, e io ho bisogno della verità dell’altro”.
Una Chiesa presa nel tumulto
È questa Chiesa “senza perché”, che è stata coinvolta nel tumulto degli anni ‘90. Di fronte al pericolo, al quale erano particolarmente esposti perché cristiani, stranieri e spesso impegnati in luoghi di precarietà, i membri della Chiesa hanno semplicemente continuato a vivere la loro umile vita quotidiana, di monaci, di bibliotecari, d’insegnanti, di maestre di cucito, di vescovi. Tra l’8 maggio 1994 e il 1° agosto 1996, diciannove di loro hanno perso la vita, ma tutti l’hanno rischiata. La forza della loro testimonianza sta nell’aver scelto di condividere la sorte dei loro amici, dei loro vicini e di tutto il popolo algerino. Quasi 200.000 persone hanno trovato la morte in quegli anni, tra cui più di un centinaio di imam.
Dopo qualche esitazione, è stata presa la decisione di avviare il processo diocesano di beatificazione o per i diciannove insieme o per nessuno. Questa scelta, unanime, voleva mettere in risalto la testimonianza di una Chiesa nel suo insieme, piuttosto che quella delle singole persone. Diciannove persone hanno perso la vita, ma tutti i membri della Chiesa hanno rischiato la loro ogni giorno per anni. Papa Francesco, sconvolgendo tutte le previsioni, ha accelerato notevolmente i tempi e la beatificazione è stata celebrata ad Orano l’8 dicembre 2018, vent’anni dopo i fatti, disegnando, secondo le sue stesse parole, “un grande segno di fraternità nel cielo d’Algeria a destinazione del mondo intero”.
La Chiesa d’Algeria dagli anni 2000 ad oggi
La nostra Chiesa in Algeria, dall’indipendenza del Paese fino agli anni 2000, è stata una Chiesa militante, composta essenzialmente da religiosi, religiose e sacerdoti, tutti impegnati al servizio della società in uno spirito di non proselitismo. Nonostante il suo impegno per la società, dobbiamo riconoscere che questa Chiesa quasi senza popolo era una Chiesa di “professionisti” della religione in cui un piccolo numero di laici aveva poche possibilità di far sentire la propria voce.
Dagli anni 2000, la composizione sociologica della nostra Chiesa è cambiata in modo significativo. Si è notevolmente internazionalizzata, a partire dai religiosi e dalle religiose delle congregazioni già presenti e con l’arrivo di nuove congregazioni, generalmente sub-sahariane. Il più piccolo dei nostri raduni diocesani riunisce almeno una trentina di nazionalità. A questa internazionalizzazione si è aggiunto l’arrivo di laici subsahariani, studenti borsisti o migranti, e un piccolo numero di cristiani algerini. Gli uni e gli altri, inizialmente accolti in seno alla Chiesa, ne sono diventati rapidamente le nuove pietre vive e strutturanti. Nominato pastore della diocesi di Algeri durante la fase diocesana del sinodo sulla sinodalità, sono stato testimone del desiderio di maggiore impegno e di maggiore condivisione delle responsabilità, con l’inevitabile choc culturale che questo comporta.
Da questo “far memoria” della storia recente della nostra Chiesa, si può ritenere che la perdita di ogni potere, fino al martirio di diciannove dei suoi membri, non ha indebolito la forza della sua testimonianza o il senso della sua presenza. La debolezza e la fragilità non sono ostacoli all’annuncio del Vangelo, ne sono il portavoce. Ed anche che la fraternità è più forte della differenza religiosa. I beati d’Algeria non sono stati uccisi dai musulmani, ma con e in solidarietà d’una moltitudine di musulmani. Per loro hanno rischiato e dato la vita perché con loro avevano vissuto, amato, come fedeli discepoli di Cristo.