Intervista al celebre architetto sul n. 4 di “Nuova Atlantide”

Per una vera rigenerazione urbana. Intervista a Stefano Boeri

  • DIC 2021

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Con 4 milioni di edifici obsoleti non basta il “superbonus”. Urge una “sostituzione edilizia”: creare spazi vivibili di socialità, incentivare l’housing sociale, riconvertire il patrimonio pubblico incentivando il privato. E ancora: lavorare sul concetto di borgo e di rione per arrivare alla “metropoli arcipelago”

In Italia abbiamo 4 milioni di edifici obsoleti (su un totale di 14 milioni di case), totalmente superati. Urge una politica di sostituzione edilizia. Per un cambio di passo e di qualità della vita radicale. E questo senza intaccare il nostro patrimonio storico. Fin qui è mancato il coraggio e il superbonus è solo un’iniziativa tampone. Ci si fa belli con la narrazione focalizzata sugli interventi bandiera. Significativi, ma che però incidono poco. Occorre allargare l’orizzonte. Numerosi i fronti da aprire: quello della rigenerazione del patrimonio pubblico, anche con risorse provenienti dal privato; quello degli spazi pubblici, soprattutto dopo il lockdown. E, finalmente, un impegno concreto nell’housing sociale come da anni avviene all’estero. Dialogo tra Giuseppe Frangi, giornalista, e Stefano Boeri, architetto, presidente di Triennale Milano e docente di urbanistica al Politecnico di Milano

GF: Partiamo dai dati espressi da queste tabelle (Sole 24Ore, Infodata su Eurostat) che mi sembrano molto indicativi. Ci dicono che dal punto di vista dell’edilizia privata, il rinnovamento delle due principali città italiane procede a passi di piombo. Nel decennio 1961-1970 a Milano erano stati costruiti 360.121 edifici e a Roma 403.096. Dal 2006 in poi questi numeri si sono assottigliati: poco più di 57mila abitazioni a Milano e 59mila a Roma. Questo significa che oggi, anche se si costruisce meglio e in modo sostenibile, in realtà si incide poco.
La nuova edilizia rischia di essere una bella bandiera piantata in mezzo a uno scenario disastroso?

SB: Questi numeri sono importantissimi perché documentano il fatto che la grande maggioranza degli edifici nel nostro Paese è stata costruita tra il 1950 e alla fine degli anni Ottanta. Si calcola un numero di circa 4 milioni di edifici, totalmente desueti, obsoleti come disegno, come funzione, come efficacia. Pensiamo poi a tutto il patrimonio di uffici costruiti negli anni Sessanta/Settanta che oggi non sono più utilizzabili perché seguono la logica delle stanzette, dei corridoi, con pochi servizi. Per questo il tema vero che oggi nessuno ha il coraggio di affrontare è quello della sostituzione edilizia. Noi avremmo la possibilità di attuare cambiamenti radicali senza attaccare il patrimonio storico. Stiamo infatti parlando di edifici nella stragrande maggioranza dei casi mediocri, irrazionali, degradati, che generano grande spreco energetico. La sostituzione sarebbe un’operazione formidabile, dal punto di vista della rigenerazione urbana vera; si potrebbero cambiare pezzi interi delle città italiane. Invece, succede che chi oggi chi butta giù un edificio di questo tipo e ne fa uno più bello con energie rinnovabili e sostenibili, totalmente adatto, deve pagare una seconda volta gli oneri di urbanizzazione. Questo significa che l’urgenza della sostituzione edilizia purtroppo non è mai entrata nelle logiche delle politiche sulla casa.

Il superbonus 110% non intercetta il problema?
Il 110% è un tampone, è una risposta che segue una logica riparativa. Non sono di per sé contrario, ma certamente è una manovra che non coglie il centro del problema. Infatti, il degrado e l’obsolescenza non si manifestano solo dal punto di vista impiantistico o sulle facciate: sono strutturali e quindi il 110% non basta a risovere la condizione di questi edifici. È un concetto che continuo a difendere in tutte le sedi. Ne ho parlato all’Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili), l’ho ripetuto quando sono andato agli Stati generali organizzati dal governo italiano. Negli altri Paesi la sostituzione, la demolizione, è una pratica molto più spinta. È vero che in Italia abbiamo un patrimonio storico che va evidentemente salvaguardato, però è anche vero che, come i numeri che abbiamo visto dimostrano, la gran parte di quello che abbiamo costruito è stato fatto in anni rispetto ai quali non c’è un tema di salvaguardia incondizionata. C’è piuttosto il tema di una salvaguardia mirata a una piccola minoranza edifici di valore.

A volte però si coltiva una narrazione che fa pensare a un rinnovamento in atto molto più radicale. In realtà siamo di fronte a pochi edifici bandiera, significativi ma che, in rapporto alla totalità, incidono davvero poco. Lo dico a te che sei certamente un architetto in prima linea su questa nuova progettualità…
Sono d’accordissimo. Noi oggi abbiamo degli interventi “bandiera”, il Bosco Verticale è un esempio classico. L’aspetto interessante di questo intervento è il fatto di essere realizzato secondo una logica sostitutiva, perché costruito al posto di altri edifici degradati, tra i quali anche uno significativo per la sua destinazione: era la Stecca che raccoglieva i laboratori di una rete di artisti, artigiani e di operatori del mondo dei centri sociali. Una realtà molto vivace e, devo dire, che quello è stato un caso anche per me doloroso da gestire. Alla fine l’abbiamo risolto con un’operazione di sostituzione edilizia e con la costruzione di una struttura nuova nelle immediate vicinanze. È stata fatta la nuova “stecchetta”. Come ho detto, è stata un’operazione difficile, però – alla fine – credo che il risultato sia assolutamente vantaggioso per la città e per le comunità che usano quegli spazi. Tornando alla domanda, devo ammettere che alcune delle nuove architetture, tra le quali anche il Bosco Verticale, vengono effettivamente usate per far credere che con pochi interventi si riesca a rigenerare il tessuto urbano. Invece il problema è molto più strutturale e non è solamente con il riuso che si può pensare di risolverlo. La retorica attorno al tema del riuso forse andrebbe guardata con un occhio un po’ più critico e realistico. Davvero, ci vuole più coraggio.

Manfredi Catella, l’imprenditore edile founder e CEO di Coima, che ha guidato la vasta operazione di Porta Nuova a Milano, in una recente intervista ha anche sollevato il tema del patrimonio dell’edilizia pubblica. Si tratta di 350 milioni di metri quadri di proprietà della pubblica amministrazione. Uno studio condotto dai ricercatori di Coima dice che la rigenerazione di poco più di un terzo di questo patrimonio pubblico – stiamo parlando per intenderci di caserme, strutture sanitarie fatiscenti, scuole, snodi ferroviari in disuso per circa 130 milioni di metri quadri — produrrebbe un taglio del 15% della C02 e 300 mila nuovi occupati all’anno per dieci anni. Il problema sono le risorse. Nel privato è il mercato a garantirle. Nel pubblico come si potrebbe intervenire?
Intanto va detto che nel PNRR c’è un investimento che permetterà la costruzione di 194 scuole in Italia. In più, c’è un intervento enorme per ristrutturare le scuole esistenti, gli asili e rifare le palestre. Si tratta di finanziamenti assolutamente importanti. È evidente che, anche in questo caso, il tema è lo stesso: se ti limiti a ristrutturare le scuole che sono state pensate con una logica assolutamente fuori tempo, non fai l’operazione giusta, anche se ci sono degli esempi molto belli, come le due scuole medie ristrutturate a Torino con un intervento promosso dalla Fondazione Agnelli e dalla Compagnia di San Paolo, secondo la logica di una scuola contemporanea dove non sono più tanto le classi nel senso fisico a definire gli spazi della didattica. È stata introdotta molta flessibilità e anche una modularità di spazi: è qualcosa di più che ristrutturare semplicemente una scuola.

La logica è quella di interventi di risorse private che permettono interventi sul patrimonio pubblico. Può essere una strada?
Assolutamente sì. Dopodiché bisogna ammettere che il project managing che era stato pensato proprio per avviare operazioni come queste, ha avuto in Italia un grado di efficienza molto basso. Ci si deve chiedere perché, visto che in fondo quella era la strada maestra. Il privato interviene, investe e in cambio ha la possibilità di ricavare un reddito di attività. C’è un problema di burocrazia, anche se è un po’ noioso continuare a ripetercelo. Però è chiaro che, diversamente dal pubblico, il privato ha bisogno di tempi certi, di un quadro normativo preciso, che non si presta a essere continuamente messo in discussione dai singoli operatori del mondo normativo che intervengono in fasi successive. Quella credo sia la ragione principale. La seconda ragione è che manca nelle città italiane una visione chiara di dove si voglia andare. Penso che anche a Milano ci sia una criticità di visione, e lo dico in modo autocritico. Per esempio, ancora oggi si parla della caserma Mascheroni, della Magenta, si parla di quella in via Forze Armate che è uno spazio gigantesco: tutte strutture sulle quali non c’è un’idea. E senza un’idea i privati non sono incentivati a intervenire. Dove l’idea c’è stata, pensiamo alla Cattolica e alla nuova destinazione della caserma Sant’Ambrogio, le cose, magari con tempi non eccezionali, stanno andando avanti.

Il privato, in compenso, ha saputo imprimere una spinta, anche con proposte di idee innovative per la risistemazione di aree…
Alcuni grandi gruppi privati hanno dimostrato di essere in grado di costruire una visione che abbia anche un carattere di utilità sociale per la collettività. Faccio un esempio tra tutti, che conosco bene. Le grandi multinazionali del lusso francesi hanno ormai colonizzato pezzi del nostro patrimonio museale ed espositivo: pensiamo a Venezia. A Milano, alla Triennale, oggi abbiamo uno spazio gestito con Cartier, un gruppo con il quale abbiamo impostato un rapporto che si sviluppa in otto anni in un modo che giudico molto positivo. Si avverte il potere, l’autorevolezza ma soprattutto la qualità nella visione, che tiene conto di una responsabilità verso la collettività. Questi gruppi esteri arrivano portando risorse e sanno giocare progetti vincenti in una situazione che spesso è dominata dalla confusione e dalla mancanza di visioni alternative. Burocrazia e mancanza di visione si tengono a braccetto. Non so quale sia la causa e quale la conseguenza: il modo migliore per non produrre una visione è costruire questa sorta di negoziabilità continua.

Un altro tema cruciale è il ripensamento degli spazi pubblici. La pandemia e il lockdown hanno acceso una sensibilità nuova rispetto al tema. Che cambiamenti sono in atto?
È un tema indubbiamente molto interessante. Sicuramente quello a cui assistiamo a Milano e anche in molte città italiane è un effetto “onda”. Dopo aver provato cosa significa rimanere compressi dentro le mura di casa, finalmente abbiamo potuto riconquistare lo spazio pubblico, andando oltre i confini tradizionali, pensiamo, ad esempio, ai déhors che hanno invaso i marciapiedi. Ma anche su questo tema bisognerebbe essere più coraggiosi, ad esempio si dovrebbe pensare alla sostituzione dei parcheggi con spazi pubblici vivibili, con il verde. Bisognerebbe fare uno sforzo nella direzione di un sistema di mobilità molto diverso.
Ho provato a ragionare in diverse situazioni su questa visione di una città che funzioni come un arcipelago, come tante isole dotate di autosufficienza rispetto ai servizi al cittadino. Questo permette che al loro interno ci siano soprattutto spazi pedonali ciclabili, con un sistema di mobilità fluida che si accompagna anche a questi grandi sistemi di verde nel segno della biodiversità. La metropoli-arcipelago è secondo me la sfida dei prossimi anni.

Questa “onda” di riconquista di spazi condivisi ha anche conseguenza nel modo con cui si concepiranno le case?
Ci sono piccoli segnali in questa direzione. Ad esempio a Tirana, dove stiamo costruendo dei complessi abitativi, ci è stata fatta la richiesta di tetti che siano abitabili; abbiamo progettato dei tetti collegati tra loro con dei ponti, creando sistemi di connessione. Il tetto è, inoltre, uno spazio potenzialmente verde, dove puoi anche immaginare di replicare in modo diverso la vita comunemente legata ai cortili; essi diventano una forma di spazio semipubblico o semiprivato dove i residenti, i condomini, ma anche i loro ospiti, possono collaborare, piantare un orto, creare spazi per bambini, e così via.
Per me i tetti sono, in assoluto, uno degli spazi più interessanti; ovviamente tetti verdi, perché devono essere anche ombreggiati. È vero che c’è una domanda generale di avere più balconi; le logge e le terrazze sono oggi sempre più richieste. Nel periodo del lockdown si è ragionato molto sul mettere a punto nelle case delle sorte di verande, cioè degli spazi intermedi tra il pianerottolo e l’appartamento privato, destinabili in caso di necessità a stanze protette. Si tratta di idee tutte da sperimentare, che si sono eclissate subito, una volta finita la pressione dell’emergenza.

Lo spazio pubblico si allarga, ma subisce anche meccanismi di controllo molto più rigidi. È una contraddizione?
È un fenomeno che mi inquieta abbastanza. In Italia è ancora su livelli blandi, ma a Londra ho visto che il livello di controllo – ad esempio attraverso le telecamere – ha raggiunto livelli incredibili. Di fatto in questo modo si riduce proprio la dimensione pubblica che deve essere uno spazio anche “imprevedibile”. Se si riduce l’imprevedibilità, si riduce lo specifico pubblico, lo si trasforma in uno spazio collettivo codificato. Diventa un centro commerciale, uno stadio, un luogo dove ci sono delle funzioni ammesse e delle funzioni non ammesse, quindi non è più pubblico nel senso proprio del termine. Noi veniamo da una storia di spazi pubblici, grazie al modello delle piazze italiane, che rappresentano un tesoro da preservare.

Un altro tema che resta sempre nelle agende delle intenzioni ma che non si trasforma mai in azioni concrete è quello dell’housing sociale. È destinato a restare per sempre marginale?
In altri Paesi il tema dell’housing sociale ha sfondato, da noi invece no. Eppure riguarda, come destinatari potenziali, i due terzi della popolazione urbana, cioè quella fetta di abitanti che hanno un reddito che non consente loro di accedere alle offerte del libero mercato. È un modello che vede in campo i privati, che però a fronte di introiti minori non hanno agevolazioni incentivanti. Si torna al tema di poco fa: la committenza pubblica oggi non è più semplicemente misurabile nello spazio dell’operazione “pubblica” in senso stretto; questa committenza significa anche visione. Se si vive in una città dove si destina all’edilizia sovvenzionata, all’housing sociale, una quota importante di interventi e si fissa questo come criterio vincolante, è chiaro che poi il privato è incentivato a intervenire e il pubblico è obbligato a garantire condizioni che rendano realistici gli interventi. Esempi ce ne sono, come il quartiere di Figino a Milano, un caso veramente interessante di cui nessuno si interessa. Si parla di Cascina Merlata, perché è più spettacolare, con i suoi grattacieli, invece Figino, secondo me, è un piccolo modello. Vi si trova una riproposizione del concetto di borgo, ma realizzato con un’architettura contemporanea. Il concetto di comunità è stato tenuto presente fin dall’inizio nella progettazione; hanno messo una biblioteca al centro ed è un luogo molto vivibile, che all’inizio è stato guardato con diffidenza ma che oggi raccoglie molta soddisfazione da parte di chi ci abita.

So che tu sei stato coinvolto nell’elaborazione di un masterplan per Padova. Che idee porterai?
Credo che si in questo caso si debba lavorare sul concetto di rione. Stiamo cercando di riconoscere in ogni rione l’originaria traccia di un luogo centrale che a volte è una parrocchia, a volte una strada con una quantità di servizi molto importante, a volte è una piccola piazza. Padova è una città che da questo punto di vista ha una qualità formidabile: la rete delle parrocchie, dei patronati, ha un ruolo centrale nella città. Ho avuto un dialogo con il vescovo di Padova Claudio Cipolla che mi parlava dei tantissimi spazi, non solo di culto ma anche sociali, che la diocesi possiede. Per dare un’idea, ci sono ben 150 campetti da calcio. Naturalmente una delle cose che gli ho detto è che, essendoci un problema di risorse serio, si deve lavorare molto sul coordinamento, per esempio di tutti questi spazi dedicati allo sport, che ha una valenza sociale grandissima e può essere anche una fonte di reddito. Il privato lo sa bene… Per questo è necessario investire su figure come quelle degli allenatori, che hanno un ruolo molto più importante di quello che si pensa e che loro stesso pensano; sono a tutti gli effetti degli educatori. Quando si cominciano a chiudere i campi sportivi si soffoca una modalità di integrazione. Il calcio dilettantistico a Padova, ma non solo, è una rete straordinaria di integrazione. Per quanto a volte non sia esente da aspetti di fanatismo, però mette all’opera un mondo di adolescenti che si incontrano pur appartenendo a classi diverse, a culture diverse. È una ricchezza.

Padova è un affascinante microcosmo. Se passiamo alla scala del macrocosmo è inevitabile parlare della Cina, Paese che tu conosci bene e nel quale lavori. Che tendenze registri a livello di edilizia urbana?
La Cina è alle prese con problemi come quello dell’inurbamento, che ha dimensioni impressionanti, dovuto alle migrazioni interne; ogni anno 14 milioni di abitanti delle campagne arrivano in città. In pratica è come se ogni anno nascesse una nuova Pechino. Tutto questo poi ha prodotto anche una bolla speculativa in quanto si è costruito in maniera assolutamente superiore rispetto alla domanda effettiva. Il fallimento del gigante Evergrande è la conseguenza di questo. La generazione dei giovani cinesi, inoltre, è molto sciovinista a livello culturale; tra loro si respira un nazionalismo fortissimo, che porta a ignorare ciò che arriva dall’Occidente. Quindi la Cina sta strutturandosi e sta stabilizzandosi in una dimensione molto chiusa, anche se ci sono pezzi della Cina che sono avanzatissimi.
Un po’ di anni fa con Slow Food abbiamo fatto un lavoro nei villaggi agricoli cinesi per cercare di capire come si potesse arginare l’abbandono delle campagne. Abbiamo formulato 100 casi di studio insieme al governo cinese e, anche in quel caso, siamo arrivati alla proposta che per radicare le persone era importante investire sulla scuola, su una biblioteca, su un museo, che consolidasse una dimensione di “fiducia agricola”. Alla fine non è scaturito quasi niente perché non c’è ancora una sufficiente sensibilità su questi temi; anche se il vero aspetto preoccupante è la mancanza di un’attenzione sui temi dei diritti. La stessa libertà di espressione purtroppo è considerata una questione del tutto secondaria anche dai cinesi più avanzati.

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