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ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 44 (2018)

Il diritto del lavoro oltre il mercato

  • NOV 2018
  • Lorenzo Zoppoli

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I giuslavoristi dovrebbero far tesoro dell’occasione offerta dalla lunga intervista sul lavoro di Papa Francesco pubblicata da Il Sole 24 Ore del 7 settembre 2018: è infatti l’ideale per approfondire la discussione sulla funzione del diritto del lavoro.

Sono anni ormai che ci sentiamo ripetere che le regole sui rapporti di lavoro devono il più possibile tener conto delle dinamiche di mercato, soprattutto mettendo in condizione le imprese di essere competitive. Sono parole talmente usuali che sembrano assolutamente naturali. E poco stupisce se a esse fa seguito un’altra affermazione sui lavoratori – da tempo in voga nella teorica del neo-liberismo economico – che ne costituisce quasi un corollario: “il lavoratore deve sentirsi in debito perché ha un lavoro”.2

Soprattutto il corollario sconcerta il giuslavorista memore delle nozioni fondamentali dell’ordinamento che non può non domandarsi: “ma l’art. 4 della Costituzione del 1948 non riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro?” Le due prospettazioni sono antitetiche: se il lavoro è un diritto del cittadino come può mettere il lavoratore nella condizione di sentirsi “in debito” in quanto “ammesso” a lavorare? La risposta sta nell’abbracciare senza troppe remore la logica del mercato: se il lavoro è un bene che scarseggia, il lavoratore non va tanto considerato parte di un contratto – dal quale nascono, certo, anche diritti oltre che doveri – bensì destinatario di un’occasione per farsi apprezzare e, magari, ricompensare. Il lavoro è una concessione di chi lo acquista e organizza, cioè l’imprenditore. Al centro del mercato c’è dunque l’impresa e verso l’impresa nessuno può vantare il diritto di lavorare. Da qui il passo è breve per affermare che se l’imprenditore “ammette” il lavoratore nella sua impresa, questi non può certo vantare dei diritti, dovendosi sentire perennemente “in debito”. Su un piano strettamente logico questo ragionamento rende antitetici il mercato del lavoro e i diritti del lavoro. E poco importa se di mezzo c’è una Costituzione che riconosce molteplici diritti ai lavoratori e, anzi, riconosce addirittura il diritto al lavoro come diritto fondamentale, come ha ribadito di recente anche la Corte costituzionale con l’importante sentenza n. 194 del 2018. Tra la dura realtà dell’economia e il fantastico (o fantasioso) mondo del diritto non può che prevalere la prima.

L’intervista di Papa Francesco al Sole 24 Ore complica però notevolmente il quadro tratteggiato, aiutando il giuslavorista disorientato. Il Papa ci ricorda infatti che la “questione lavoro” va oltre l’economia e oltre anche il diritto. Ricollegandosi a un risalente e profondo insegnamento dei suoi predecessori – dalla Rerum novarum di Leone XIII3 alla Populorum progressio di Paolo VI4 – Papa Francesco ricorda che “dietro ogni attività c’è una persona umana, […] non esiste attività che non abbia origine dall’uomo”. Anche le attività economiche devono dunque mettere al centro l’uomo e la sua dignità: “ed è il lavoro che conferisce dignità all’uomo non il denaro”. Se si parte dal denaro – ovvero dalla finanza invece che dall’economia reale – si sbaglia dunque gravemente.

Si sbaglia però – per Bergoglio – anche se si antepone il sussidio al salario, perché “i sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano”. Mentre “lavorare ha un alto significato spirituale in quanto è il modo con il quale noi diamo continuità alla creazione rispettandola e prendendocene cura”.

Così Papa Francesco ci ripropone un’antropologia cattolica a tutto tondo, non certo nuova ma profondamente intrisa dal principio lavoristico, su cui non si addensa alcun dubbio (tanto da far pensare a un’analisi anacronistica: ma il Papa ha già decisamente contestato questa critica nell’enciclica Laudato si’ del 2018). Con massima coerenza, il pensiero di Bergoglio si spinge fino a delineare, seppur in sintesi, quale impresa e quale salario questa antropologia comportino. L’impresa non deve perseguire solo il profitto, ma deve dare “un forte contributo affinché il lavoro conservi la sua dignità riconoscendo che l’uomo è la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri… Gioverebbe molto a un’azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidarietà, etica, giustizia, dignità, sostenibilità, significati sono contenuti che arricchiscono il pensiero e la capacità operativa”. Quanto al salario il Papa afferma: non può essere solo frutto del consenso delle parti – che “non basta a garantire la giustizia del contratto” – e della libera concorrenza – “generatrice di dittatura economica”. Su questo punto l’insegnamento di Bergoglio è assai deciso: “la libertà degli scambi non è equa se non subordinatamente alla giustizia sociale”.

Dalla dimensione etico-religiosa riproposta dalla odierna riflessione pontificia emerge dunque che i maggiori rischi di stravolgimento vengono dalle libertà economiche che possono degenerare in dittatura economica e, soprattutto, finanziaria, privando l’uomo della sua dignità. E questo è un avvertimento che, ormai, va oltre ogni tempo, spazio e sviluppo tecnologico: insomma è a prova di qualsiasi esigenza di modernizzazione, globalizzazione, digitalizzazione.

Se, dunque, si vuole evitare la degenerazione dell’umano, privato della sua dignità, c’è un ruolo per lo Stato e uno per le imprese: il primo deve promuovere in ogni modo il lavoro, evitando che la risorsa umana sia trattata come “scarto”; le seconde non devono perseguire solo il profitto. Entrambe queste finalità disegnano a sufficienza la funzione “sistematica” di un moderno diritto del lavoro.

A questo punto e su questa base mi piacerebbe approfondire il discorso tecnicogiuridico. Ma non è questa la sede. Non posso però non segnalare alcune questioni problematiche di fondo che affaticano il giuslavorista di questi tempi, tempi in cui, paradossalmente, lo studioso, se ha una speciale sensibilità etico-valoriale, non viene percepito come gnomico.

La prima è: su chi può far leva una visione etica del diritto del lavoro in un’epoca di debolezza o confusione delle forze politiche e sociali che storicamente – anche se magari inconsapevolmente o contaminandola con altre dottrine – hanno dato gambe alla dottrina sociale della Chiesa? Purtroppo la risposta è che – pur essendoci ancora dei riferimenti, soprattutto nei sindacati, che per mestiere devono tutelare i lavoratori – un soggetto politico o sociale orientato da una dottrina sociale neoumanistica occorrerebbe farlo (ri)nascere. È molto difficile e richiede un grande impegno teorico e pratico. Al punto che ci si può chiedere se valga la pena dedicarsi a questo impegno. L’unica risposta che mi viene in mente non è tecnica e la devo a Leonardo Boff: “Tutto vale la pena se l’anima non è piccola”.

La seconda questione riguarda l’impresa: come si può incidere sull’impresa, evitando che persegua solo il profitto e non sia un’“impresa irresponsabile” (altra citazione da un gran libro di Gallino del 2005)5 ? Qui Papa Francesco ci dà un potente aiuto, con l’esortazione a sostenere “un’etica amica della persona” nel sistema delle imprese. Questa etica “tende al superamento della distinzione rigida tra le realtà votate al guadagno e quelle improntate non all’esclusivo meccanismo dei profitti, lasciando un ampio spazio ad attività che costituiscono e ampliano il cosiddetto terzo settore […]. La stessa diversità delle forme istituzionali di impresa genera un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo”. La chiave dunque sta “nelle forme istituzionali di impresa”: in sintesi, nell’intervista, meglio l’impresa sociale rispetto alla società per azioni multinazionale. Si può concordare, ma sapendo che alla forma deve corrispondere la sostanza nella gestione dell’impresa e che nel campo del diritto commerciale di rado nomina sunt consequentia rerum. Anche la recente riforma italiana dell’impresa sociale, pur rafforzando il terzo settore, non aiuta a superare quella “distinzione rigida” di cui parla Bergoglio. Anzi rischia ancor più che in passato di riempire il terzo settore di un “falso volontariato” sfruttato e poco efficiente, riducendo la competitività dell’impresa sociale o basandola su una sorta di “dumping settoriale”.6 Occorrerebbe piuttosto promuovere nel cuore delle imprese di mercato una partecipazione agli organi di gestione delle forze sociali portatrici di una visione responsabile nell’uso della risorsa umana (e di quella ambientale).

La terza questione riguarda infine il salario. Ritengo del tutto condivisibile sottrarre alla pura autonomia contrattuale privata la determinazione del salario in nome della giustizia sociale. Da circa trent’anni sostengo infatti che il salario, come disciplinato dall’art. 36 Cost., ha anzitutto la natura giuridica di “obbligazione sociale”. Però occorrerebbe anche ricordare che il salario deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, perché anche questo risponde ad un principio di giustizia contrattuale e commutativa. Sotto questo aspetto la giustizia sociale non collide con la “logica meritocratica”, anzi può coniugarsi con criteri di riconoscimento del lavoro che valorizzino tanto la dignità del lavoro ben fatto quanto la salute (o competitività) dell’impresa. In altra occasione7 il Papa ha ritenuto la logica meritocratica veicolo di snaturamento competitivo del lavoro e dell’impresa (“un errore antropologico e cristiano, è anche un errore economico”). Nell’intervista al Sole 24 Ore questo concetto non si rinviene. Mi pare preferibile, perché, pur auspicando in ogni modo che la tutela del lavoro vada molto oltre il mercato, penso che un moderno diritto del lavoro con un’elevata sensibilità sociale durerebbe poco se pretendesse di regolare il lavoro ignorandone la produttività e mettendo così l’impresa fuori dal mercato.

NOTE
1 Da ultimo si veda G. Santoro Passarelli, La funzione del diritto del lavoro, in RIDL, 2018, I, pp. 339 ss.)
2 Si veda, criticamente, L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
3 Rerum Novarum, Lettera enciclica di S.S. Leone XIII, 15 maggio 1891.
4 Populorum progressio, Lettera enciclica di Sua Santità Paolo P.P. VI, 25 marzo 1967.
5 L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005
6 Ho appronfondito la questione in Volontariato e diritti dei lavoratori tra Jobs Act e codice del terzo settore, in U.M. Olivieri, L. Zoppoli, Dono lavoro volontariato, Milella, Lecce 2018).
7 Incontro con il mondo del lavoro, Discorso del Santo Padre, Stabilimento Ilva, Genova, 27 maggio 2017.

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