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ARTICOLO | Il Tema di “Atlantide” n. 20 (2010)

Identità e riconoscimento: perché la rete è un luogo

La società del nostro tempo è stata definita in molti modi – società della conoscenza, dell’informazione, post-moderna, globalizzata – ma un tratto centrale è l’importanza che vi hanno assunto le nuove tecnologie della comunicazione: ambiente sociale e ambiente mediale sono le due dimensioni del “mondo” in cui viviamo.

Così espressioni come on line, virtuale, telematico, multimediale, sono ormai entrate pienamente a far parte dell’orizzonte di significati e del linguaggio ordinario della vita quotidiana, per quanto siano ancora ben lontane dal riscuotere un unanime consenso tra gli studiosi e vengano interpretate in modi diversi.

In ogni caso, nel considerare questi come tutti i fenomeni umani e sociali, credo debbano essere applicati due criteri di conoscenza. Il primo, più propriamente sociologico, è il rifiuto della ricorrente tentazione (riduzionismo) a ricondurre la complessità del fenomeno umano ad alcuni fattori che pretenderebbero di spiegarlo interamente, tralasciando o dichiarando irrilevanti tutti gli altri, con il risultato di fare dell’essere umano che agisce socialmente un manichino dai movimenti meccanici e una pallida figura dalla quale non traspira alcuna realtà vitale.

Uno, ad esempio, è il modello per cui l’agire individuale è essenzialmente definito dai ruoli sociali; un altro quello che riconosce nel perseguimento dell’interesse l’unico “vero” movente dell’azione. Al rifiuto di questi modelli riduttivi, frutto di schemi ideologici, occorre però affiancare un’altra intelligenza, che non appartiene a una particolare scienza dell’uomo, ma esprime, per così dire, un principio antropologico universale.

È il tentativo di cogliere e mettere in luce nelle più diverse espressioni della vita sociale le esigenze, le evidenze e le premure fondamentali (ultimate concerns secondo Margaret Archer) che si pongono all’origine di ogni agire e relazione umana. O, per dirla in altri termini, far emergere l’umano nel sociale.

Alla luce di questi criteri cercherò di considerare quattro dimensioni dell’esperienza umana/sociale che sono state variamente richiamate a proposito delle relazioni in rete e che, pur nella profonda ambivalenza che sempre contraddistingue tutte le forme sociali, lasciano intravedere quel “desiderio di cose grandi” che alimenta l’agire (inter-agire) umano.

Sull’identità

Tra le espressioni più ricorrenti per descrivere l’esperienza individuale in rete vi sono “persona on-line”, “sé virtuali”, “identità telematiche” ecc. Nell’interazione infatti le persone “presentano” sé stesse, dichiarano apertamente o lasciano intendere “chi sono” e come vogliono essere considerate, ad esempio attraverso le home page personali, i profili, i nickname (soprannomi e pseudonimi).

Vari autori, riprendendo una espressione di Erving Goffman, hanno osservato che questa presentazione di sé assume i caratteri di un processo di idealizzazione. Rispetto alla propria identità di lungo periodo relativamente stabile e costruita nel tempo, l’individuo può e cerca di esibire una “identità-in-situazione” che appare come una immagine idealizzata, una risposta di adattamento più o meno “creativo” alle caratteristiche, vincoli e opportunità della situazione e alle aspettative degli interlocutori, come accade ad esempio per l’adolescente che “rivela” nelle interazioni in rete con i coetanei aspetti e parti di sé che nasconde agli adulti.

Tale processo di idealizzazione, in realtà, avviene normalmente anche in tutte le relazioni della vita quotidiana nelle quali ognuno di noi cerca di offrire l’immagine di sé più vantaggiosa, più apprezzabile e accettabile dagli altri alla luce dei valori sociali più accreditati. Questa immagine dunque è sempre l’esito di un complesso e talvolta problematico rapporto tra l’adattamento alle aspettative degli altri nella situazione in cui si comunica e si agisce e la percezione “autentica” di sé e le sue più profonde identificazioni (ciò che io sono per me stesso).

Vari studiosi hanno messo anche in luce il fatto che il “disimpegno” tipico di molte relazioni in rete aumenti il rischio e la tentazione di offrire un’immagine di sé distaccata dalla realtà, una maschera dietro la quale si nasconde o si abbellisce il proprio vero volto, un’identità fittizia, secondo l’idea tipica di Jean Baudillard della realtà virtuale come simulacro che si sostituisce e risucchia “energia” alla vita reale. Sappiamo anche dei rischi di opportunismo e di inganno connessi all’esibizione di identità “artificiali”.

Se, dunque, non mancano aspetti negativi e patologici dell’idealizzazione, non si deve ignorare però un altro aspetto che attiene in modo profondo al nostro senso dell’io. L’identità di ognuno di noi è costituita dal convergere di tre dimensioni/elementi che stanno tra loro in un equilibrio più o meno stabile e armonico: l’identità composta dal senso irriducibile del nostro io, il senso dell’unicità e autenticità del proprio sé e dei suoi vissuti; l’insieme delle interazioni con gli altri importanti con i quali ci si riconosce più profondamente, quell’identità dialogica che ci ha formato fin dalla prima educazione familiare e che si ricostruisce continuamente nelle relazioni più intime e significative; infine l’identità che deriva dallo status sociale, dalla collocazione nella struttura della società e dai ruoli collegati a tale posizione.

Nelle relazioni sociali spesso quella che vale maggiormente è l’identità dei ruoli consolidati. Ciò vale non solo nei rapporti formali o con estranei, ma anche con le persone alle quali siamo legati da una lunga storia di familiarità e consuetudine. La nostra comprensione degli altri e le relazioni con essi sono sempre guidate da un processo di “tipizzazione” per cui l’altro viene visto o come “esecutore” di comportamenti di cui già conosciamo modi ed esiti o come esponente e membro di una categoria o di un tipo sociale (un inglese, uno studente, un cattolico ecc.).

In genere però queste tipizzazioni vengono sfidate e messe alla prova nella relazione personale diretta con l’altro in carne e ossa, che consente di superare la tipizzazione nella direzione della scoperta (o ri-scoperta) della sua unicità e specificità (e anche della nostra) come di un individuo così e così che ci può “sorprendere” nonostante tutto ciò che già sappiamo o crediamo di sapere di lui.

Analogamente, nella presentazione idealizzata di sé in rete, perfino nella produzione di identità fittizie, non emerge forse l’esigenza profonda, più o meno consapevole, di istaurare relazioni nelle quali non valga soprattutto il peso di un rapporto già dato, già scontato, già raccontato? Non si esprime un desiderio di incontro con l’altro in cui tutto possa cominciare nuovamente, senza stereotipi, incrostazioni e pregiudizi? Un bisogno di dar vita a relazioni che non siano già pre-giudicate, di un nuovo inizio nel quale il senso della propria unicità e autenticità personale possa emergere, letteralmente “rivelarsi”, così come quello dell’altro?

Sul bisogno di riconoscimento

Molte espressioni dell’esperienza in rete, dai blog personali ai profili, possono essere lette come una ricerca della visibilità. Ciò è stato espresso da alcuni autori come un vero e proprio bisogno di visibilità o, in negativo, come paura della invisibilità.

Questo bisogno si esprime oggi spesso in forme estreme e aberranti: il protagonismo indiscriminato e ottenuto a tutti i costi, l’esibizione pubblica di ciò che è più intimo e personale, le identità spettacolarizzate vissute sulla ribalta dei media o in analogia alla ribalta dei media. Si tratta di manifestazioni, a cui i più giovani sembrano particolarmente sensibili, di una cultura narcisistica, per usare le parole di Christopher Lasch, sulla quale prospera tutta un’industria dell’identità, un vero e proprio marketing della self representation.

Ma in tutto ciò, sebbene talora in forma distorta, si intravede una esigenza fondamentale presente in tutti: il bisogno di riconoscimento, che gli altri ti dicano “tu”, ti riconoscano come un “tu”. Non è necessario ricorrere alla filosofia, alla psicologia o alla sociologia, che certo ci offrono molte conferme, per scoprire – giacché si tratta di una evidenza elementare – che l’esigenza del riconoscimento del proprio “io” da parte di un “tu” è il problema fondamentale della vita di relazione, della vita umana.

È il bisogno di non essere “uno qualunque”, ma di essere guardato, considerato, stimato dagli altri. Un bisogno dell’uomo di ogni tempo, ma che oggi diventa forse più acuto e urgente poiché viviamo in una società di massa e burocratizzata dove facilmente si è concepiti come individui senza qualità, a una dimensione. Naturalmente, come ogni desiderio profondo, anche il desiderio di riconoscimento e di accoglienza può contenere una perversione interna cioè strutturarsi come una pretesa nei confronti dell’altro e quindi intrinsecamente violenta: non mi accogli, allora io ti ripago con la mia ostilità o il mio risentimento.

Lo psichiatra Ronald Laing, riprendendo un’idea di William James, ha osservato acutamente che non c’è condizione peggiore di quella di chi è assolutamente libero in un mondo in cui nessuno si accorge di lui. Perfettamente libero in un vuoto di relazioni.

Questo bisogno di riconoscimento ha una sua espressione “attiva” nel desiderio di essere protagonista, di un protagonismo positivo che, quando non riesce a esprimersi, si manifesta anche in forme deformate e aberranti. Un desiderio più forte, più intenso, più struggente nell’adolescenza e nella giovinezza, per cui potremmo dire che questo è il vero e proprio “ideale” della giovinezza.

Sull’amicizia e l’ospitalità

Spesso si parla delle relazioni in rete in termini di amicizia. Molte parole e concetti di Internet hanno a che fare con l’universo semantico dell’amicizia e dell’ospitalità (ospite, home page, visitatore ecc.), tanto che a vari osservatori non è sfuggita la presenza di una vera e propria retorica dell’amicizia.

Per questo forse è utile considerare brevemente che cosa caratterizza l’amicizia come relazione sociale, non come semplice atteggiamento o sentimento morale. Innanzitutto l’amicizia è una relazione basata sul riconoscimento reciproco. È un rapporto intersoggettivo che implica sincerità, stima, fiducia, attenzione ai bisogni, capacità di immedesimarsi nell’altro, cura e aiuto reciproco. In secondo luogo è un legame non casuale nel quale è fondamentale l’aspetto elettivo, cioè la libera scelta di instaurare un rapporto che implica prossimità e fiducia.

Questo tratto della libera scelta assume un particolare rilievo nella società moderna e trova nella “libertà della rete” una significativa espressione. Infine l’amicizia, in quanto relazione, presenta sia un aspetto di legame sociale, riferito alle caratteristiche concrete dei soggetti in relazione e al contesto storico-sociale del loro agire, sia un aspetto di riferimento simbolico, legato alla condivisione consapevole di significati e alla loro comunicazione. In tal senso il riferimento non è solo dei soggetti tra loro, ma anche una comune direzione, una comune tensione verso qualcosa che assume per essi un valore, verso una “concezione del desiderabile” (l’amicizia ha sempre perciò, in qualche misura, il carattere di una “comunità di ideale”).

Se questi sono i caratteri costitutivi dell’amicizia, certo non possono sfuggire i limiti di molte forme di “amicizia” in rete e delle retoriche che le accompagnano. Da un lato, “amicizia” in social networks come Facebook o MySpace indica semplicemente la possibilità di connettere due o più profili e renderli “visibili” agli altri. Quindi la pura connettività o la potenzialità del rapporto è già amicizia.

Si tratta di una versione “debole” e disimpegnata della relazione amicale, che già è stata descritta efficacemente sessant’anni fa, assai prima di Internet, da David Riesman in La folla solitaria: «Il confine tra il familiare e l’estraneo è abbattuto e la persona eterodiretta è, in un certo senso, a casa dovunque e in nessun luogo, capace com’è di una intimità rapida, anche se talvolta superficiale, con e verso chiunque». In altri termini, la semplice possibilità di comunicare costituisce il terreno per relazioni di familiarità, per cui i media diventano il tramite di un legame sociale diffuso e di una “prossimità culturale” indifferenziata.

Accanto a questa prima versione di amicizia in rete, ve n’è una seconda rappresentata dalla relazione tra persone che formano comunità on line basate su interessi comuni, le cosiddette “comunità di interesse”. Si tratta della versione telematica della “specializzazione dell’amicizia”, un tratto proprio della differenziazione sociale e della individualizzazione della società moderna.

È l’idea che non sia più possibile un rapporto amicale totalizzante ed esclusivo, ma siano possibili solo tante amicizie “segmentarie” e parziali basate sulla condivisione di interessi specifici, attività, gusti, opinioni, per cui con uno si parla di sport, con un altro di educazione dei figli, con un altro di religione, di politica ecc. Qui si profila un secondo rischio, per certi aspetti opposto al precedente: il rischio di comunità di amicizia e interesse basate solo sul riconoscimento del simile, una amicizia “endogamica” che produce un effetto di selettività sugli incontri possibili in rete.

Un terzo aspetto, messo in luce da autori come Susan Sontag, Ignatieff o Boltanski è una vera e propria “impossibilità” costitutiva dell’amicizia in rete o attraverso i media, giacché l’amicizia non è solo un reciproco riconoscimento, ma più radicalmente una responsabilità reciproca che è possibile solo dove l’altro è “presente”, dove cioè non c’è solo un riferimento intenzionale e simbolico, ma un legame effettivo, concreto e “impegnativo” con l’altro.

Pur con questi limiti comunicativi, la rete è comunque il luogo di esperienze e relazioni profondamente significative per le persone che vi sono coinvolte e queste relazioni non sono confinate in un mondo a parte, alieno rispetto alle relazioni “reali” della vita quotidiana, ma con queste ultime sono profondamente intrecciate. Il problema dell’amicizia in rete, non diversamente dalle relazioni della vita quotidiana, riguarda dunque il fine della relazione e la qualità della conversazione, che si realizza nello scambio comunicativo.

a) La rete consente innanzitutto il mantenimento e il rafforzamento di rapporti già esistenti che vengono integrati, arricchiti, intensificati consentendo di superare l’improbabilità della distanza spaziale o temporale. Si determina in questo caso una continuità e una complementarità tra relazioni in presenza e relazioni a distanza, tra off line e on line. Il legame con un caro amico che abita in un’altra città e che alimento attraverso le relazioni mediate al telefono o tramite Internet è per me più significativo e “reale” di quello “in presenza” con il fruttivendolo o il giornalaio per i quali nutro comunque un sentimento di simpatia e che vedo tutti i giorni.

b) Ma un’amicizia, e in generale una relazione, può anche nascere, mantenersi e rafforzarsi in rete senza trasformarsi mai in una amicizia nel mondo della vita quotidiana, ad esempio per impossibilità materiali, pur assumendo un carattere di autenticità e vera confidenza con la condivisione di idee, passioni, entusiasmi, ansie, che possono assumere un particolare valore.

c) Infine in rete possono sorgere legami di amicizia “virtuale” così solidi e promettenti da poter essere trasferiti nel mondo reale, che si trasformano in relazioni di vita quotidiana “reale”.

Esistono anche ormai numerose ricerche che mostrano come, assai concretamente, l’amicizia che si costruisce (anche) attraverso il web, può costituire un “capitale sociale”, cioè un patrimonio di relazioni su cui si può contare per rispondere a bisogni e problemi della vita “reale”. In secondo luogo sono anche numerose le esperienze di amicizie “operative” in rete, cioè forme di collaborazione a una azione comune, a un impegno o un’impresa comune, dalle dimensioni più immediate del file sharing o degli user generated contents, fino alla mobilitazione in situazioni di emergenza come catastrofi umanitarie dove il valore della solidarietà e della “responsabilità” comune assume caratteri non troppo diversi da quelli dell’azione diretta.

Sulla credibilità e l’autorevolezza

Nella rete digitale si affermano relazioni interattive, orizzontali, circolari che trovano la loro più evidente espressione nei cosiddetti media partecipativi o social networks. Con essi si è definitivamente affermata la metafora (e la retorica) della rete come “piazza”, cioè di uno spazio libero e “aperto” nel quale sono possibili i più diversi incontri solo in parte predeterminati e predeterminabili. La piazza telematica è quindi il luogo in cui trovano spazio tutte le opinioni senza particolari gerarchie o priorità, senza che nessuna possa arrogare per sé un primato che non emerga dalla discussione e dal confronto.

Tutte sono poste potenzialmente sullo stesso piano. Si esprime qui anche la dimensione politica della “sfera pubblica mediata” come luogo di confronto e aggregazione democratica. In corrispondenza di ciò si afferma l’idea complementare del tramonto dei vecchi sistemi di relazioni comunicative centralizzate, uni-direzionali e a-simmetriche del passato, cioè le relazioni proprie dei tradizionali mass media, che rispondevano in primo luogo ai valori e agli interessi di chi ne deteneva la proprietà o il controllo.

L’affermarsi di queste relazioni non è ovviamente un semplice “effetto” delle tecnologie, ma risponde a un bisogno sociale diffuso legato a processi strutturali e culturali profondi quali la crescente importanza delle comunità elettive su quelle ascritte e il processo di individualizzazione e democratizzazione della società, che queste nuove tecnologie comunicative accompagnano, promuovono e a cui conferiscono una forma determinata.

In ogni caso, queste trasformazioni, che trovano in Internet e nei social networks un fattore propulsivo e una importante esemplificazione, hanno profonde implicazioni anche sul concetto stesso di credibilità e autorevolezza nelle relazioni sociali.

Nel passato la credibilità si basava soprattutto su rapporti verticali e asimmetrici, per cui risultava credibile chi occupava uno status, una posizione superiore in termini di quantità di risorse – cioè di autorità, di potere o di sapere – di cui disponeva e che gli venivano senz’altro riconosciute. Era una credibilità fondata sulla differenza. L’asimmetria, la differenza di status e di risorse generava credibilità, nel senso di un riconoscimento del giusto titolo di chi occupava il ruolo superiore a insegnare, comunicare, decidere.

Oggi le cose sono molto cambiate e in molti ambiti e relazioni sociali si è affermato un secondo tipo di credibilità: una credibilità potremmo dire “orizzontale”, basata sull’uguaglianza, su una relazione tra pari. In moltissime decisioni e scelte le persone non si affidano alla leadership d’opinione verticale rappresentata da soggetti dotati di potere o status superiore o da esperti, ma si affidano a una leadership orizzontale, di persone appartenenti allo stesso strato sociale e ambiente di vita. In altri termini, la credibilità (e con essa l’influenza) tende in misura crescente a fluire lungo linee sociali definite dall’amicizia, dalla comunanza di interessi e di opinioni, per cui la fonte delle nostre decisioni e scelte personali non sono i superiori (comunque definiti in termini di potere, prestigio, conoscenza ecc.), ma più facilmente coloro che sono vicini a noi e pari a noi, secondo i caratteri propri di una relazione comunitaria di conoscenza e di affidamento personale.

L’affermarsi di questo secondo tipo di credibilità ha una implicazione assai importante: la credibilità e il prestigio conferiti dal ricoprire un certo ruolo non sono più sufficienti a garantire l’ascolto, che il destinatario sia disposto ad ascoltare e a confrontarsi con il contenuto di ciò che viene detto. Il politico non è più credibile in quanto politico, il funzionario pubblico in quanto funzionario, l’insegnante in quanto insegnante, il giornalista in quanto giornalista.

Non è la credibilità del ruolo, cioè il patrimonio consolidato di credibilità e il prestigio associati a un determinato ruolo, a garantire la credibilità di chi lo detiene, ma la credibilità nel ruolo, cioè il modo in cui ognuno personalmente interpreta quel ruolo, lo rende credibile mettendo in gioco la propria competenza, la propria passione, il proprio impegno, in una parola, la propria umanità.

Conclusione: la rete è un luogo?

C’è una assunzione implicita in molte analisi e critiche “culturali” della rete, secondo cui essa, per usare una famosa espressione di Marc Augé, è un «non luogo». È l’idea persistente di una dicotomia tra il “reale” delle relazioni della vita quotidiana e il “virtuale” della rete, dove virtuale indica una realtà di secondo ordine, dotata di uno statuto “relazionale” inferiore e di una minore dignità rispetto al mondo delle relazioni faccia a faccia, quando non del tutto fittizia e simulacrale.

Questa idea è insostenibile e sbagliata poiché dove due uomini si incontrano e si riconoscono, anche solo su un particolare o un accento minimo della loro umanità, quello è un “luogo”. È il luogo di una relazione umana.

La rete è un luogo perché in essa si giocano le identità personali e di ruolo, con tutta la complessità che la presentazione del sé assume nelle relazioni quotidiane come nelle relazioni on line. È un luogo dove si generano, si rafforzano, si riparano relazioni che si intrecciano in vario modo con le relazioni del mondo della vita quotidiana. È un luogo nel quale e attraverso il quale i soggetti individuali e collettivi coordinano la loro azione, prendono decisioni, agiscono nella e sulla realtà.

Il punto decisivo allora non è la semplice possibilità delle relazioni in rete, i vincoli e le potenzialità che essa offre (che certo andranno comunque considerati e analizzati dalle scienze psico-sociali), ma la qualità della relazione che si crea tra le persone e la qualità della conversazione che esse intrattengono. Il primo aspetto riguarda il tipo di legame tra le persone; il secondo il suo contenuto, ciò che ci si scambia nella relazione.

Ancora una volta è questione di desideri e di scopi, o per usare il linguaggio della rete, di una ipotesi di rotta nella “navigazione”. Infatti «nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuole approdare» (Seneca)

 

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