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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 39 (2017)

La lunga marcia della popolazione mondiale e le sfide che ci attendono

L’Africa subsahariana ha più di mezzo miliardo di persone in età lavorativa, che raddoppieranno in trent’anni. Si impongono misure straordinarie sia per il loro sostentamento, sia per non essere travolti da una massa priva di prospettive

1. Alcuni capisaldi La popolazione mondiale, dopo millenni di crescita molto lenta perché contrastata da diversi fattori sistematici e saltuari che la frenavano, raggiunse il primo miliardo intorno al 1804, il secondo quasi un secolo e un quarto più tardi, nel 1927, il terzo dopo solo trentatré anni, nel 1960, nonostante gli sconvolgimenti dovuti alla Seconda guerra mondiale. Nel 1975, dopo quindici anni, superava i quattro miliardi e, da allora in poi, ha scalato un gradino da un miliardo all’incirca ogni dodici anni (Figura 1)1. La crescita esponenziale sembra scongiurata, ma quella lineare ha ancora un passo molto sostenuto (Livi Bacci, 2011).

Figura 1

Gli abitanti del pianeta sono stimati oggi in 7,5 miliardi. Le previsioni per il futuro, calcolate dalla Population Division delle Nazioni Unite, danno per il 2050 una popolazione mondiale compresa tra gli 8,7 e i 10,8 miliardi; a fine secolo potrebbe contare tra i 7,3 e i 16,6 miliardi, a seconda di quando e di quanto varieranno la fecondità e la mortalità nelle diverse popolazioni (Figura 2).

Il 19% della popolazione mondiale vive oggi in Paesi ad alto reddito medio pro-capite, il 32% in quelli a reddito medio-alto, il 40% in quelli a reddito medio-basso e il restante 9% sta nei Paesi a basso reddito, quasi tutti nel Sud del pianeta: pertanto, la popolazione mondiale si divide oggi all’incirca a metà in quanto a residenza in Paesi ricchi o poveri2. A classificazione costante, solo trentasette anni fa, nel 1980, risultava invece distribuita per il 60% nei Paesi oggi più fortunati o a reddito medio-alto e per il 40% in quelli a reddito basso o medio-basso.
 

Figura 2

La popolazione è dunque cresciuta molto più rapidamente là dove le condizioni di vita sono più difficili. In prospettiva, nonostante ipotesi di migrazioni riequilibratici anche consistenti, già a metà di questo secolo solo il 16% della popolazione mondiale vivrà nei sessantasette Paesi oggi più ricchi, mentre la quota di popolazione nei ventotto Paesi oggi a più basso reddito pro-capite salirà dal 9% al 14%. Da ciò si deduce che la rapida crescita demografica costituisce ancora oggi uno degli aspetti più importanti del problema del sottosviluppo.

2. I fattori della crescita
Nella prima parte del secolo scorso fu elaborata la teoria della “Transizione demografica” (Landry, 1934; Davis, 1943; Notestein, 1945) che descriveva quanto era avvenuto e stava ancora avvenendo nei Paesi avanzati: una riduzione progressiva della mortalità presto seguita dalla riduzione della fecondità, così da contenere in un breve periodo la crescita rapida della popolazione per fattori naturali. Entrambi i fenomeni erano favoriti, se non generati, dall’industrializzazione, dalla parallela crescita socio-economica e dal conseguente modificarsi degli stili di vita. Nella seconda metà del secolo, però, alcuni efficaci mezzi di lotta alla mortalità (specie a quella da malattie infettive) sono stati introdotti nei Paesi arretrati con significativi effetti sulla sopravvivenza, in particolare dei neonati e dei bambini,3 i quali sono così potuti arrivare all’età adulta. La fecondità in quei Paesi è rimasta invece ancora per decenni su livelli molto elevati (5-7 figli per donna, in media, nel corso della vita riproduttiva). In quei Paesi, infatti, era insufficiente quel progresso economico, sociale e culturale capace di modificare i tradizionali comportamenti nuziali e riproduttivi. Inoltre, nonostante i precoci allarmi sulla “esplosione demografica” in corso, fin dalla prima Conferenza mondiale sulla popolazione organizzata sotto l’egida dell’ONU (Bucarest, 1974) si realizzò, pur con motivazioni diverse, una singolare alleanza tra i Paesi comunisti, una larga parte del Terzo mondo e alcuni Paesi a maggioranza cattolica, capeggiati dal Vaticano, contraria all’adozione di politiche demografiche attive e globali (Mauldin et al., 1974; Miró, 1977). In pratica, il “piano d’azione” che fu approvato dall’assemblea dei delegati subordinava la riduzione della crescita della popolazione allo sviluppo economico delle nazioni e rimetteva ai singoli governi l’eventuale adozione di politiche di popolazione e di controllo delle nascite.
Il risultato della combinazione tra rapido calo della mortalità (specie infantile) e invarianza della fecondità è stato che in molti Paesi arretrati quelle generazioni salvate dalla morte precoce, una volta arrivate in età adulta hanno adottato per anni livelli riproduttivi elevati, così da generare un ampio numero di figli, i quali a loro volta sono andati ad aumentare la popolazione sia nell’immediato, sia con la propria prole negli anni successivi, proprio per il meccanismo moltiplicativo qui accennato.
In contrasto con ciò, alcuni grandi Paesi in via di sviluppo hanno poi attuato – improvvisamente e con fermezza – forme di controllo della fecondità assai restrittive (la Cina con la “politica del figlio unico”) o coattive (l’India con la pratica della sterilizzazione), che hanno però portato a comportamenti esecrabili (come aborti selettivi e possibili infanticidi delle figlie femmine) e a notevoli squilibri demografici per genere e per classi di età, che si stanno ripercuotendo sulle loro dinamiche demografiche attuali e future.

3. Il rallentamento della crescita e le sue conseguenze
Sul finire del secolo scorso, tuttavia, in gran parte dei Paesi in via di sviluppo si è avviato un calo della fecondità a partire soprattutto dalle popolazioni urbane, per cui sono ormai solo quattordici i Paesi (quasi tutti nell’Africa sub-sahariana) con livelli riproduttivi superiori a cinque figli per donna. Nel contempo, nella quasi totalità dei Paesi più sviluppati e di quelli a più rapido progresso economico sono stati adottati schemi riproduttivi al di sotto del livello di sostituzione tra le generazioni (2,1 figli per donna) così che, una volta esaurito in essi il moltiplicatore demografico sopra descritto, la loro popolazione comincia a decrescere per l’eccedenza del numero dei morti su quello dei nati, come sta già avvenendo da qualche anno in Italia.
Anche in questo caso il fenomeno è cumulativo, perché una popolazione che non si autoriproduce a sufficienza è destinata a invecchiare in breve tempo per il prevalere numerico delle generazioni nate quando la fecondità era ancora elevata, mentre le nuove generazioni saranno sempre più ridotte e, se la fecondità non aumenta, produrranno sempre meno figli. Questi fenomeni risultano tanto più marcati quanto più forte e più rapido è stato il passaggio dall’alta alla bassa fecondità.
L’invecchiamento della popolazione è al momento un problema di prima grandezza in molte società più avanzate, le quali hanno in genere strumenti e mezzi per affrontarlo. Il fenomeno, però, sta già investendo, e rapidamente, Paesi non attrezzati per farvi fronte (Figura 3).

 

Figura 3

Quella dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento numerico della popolazione anziana è una delle sfide più difficili a livello mondiale: per affrontarla sono necessarie adeguate strutture (ad esempio sanitarie) e istituti (ad esempio previdenziali), ma soprattutto richiede modifiche profonde nella considerazione e nel ruolo degli anziani nella società (ad esempio, politiche di Active ageing), in parallelo con il miglioramento delle loro condizioni di salute e con l’aumento delle loro residue potenzialità lavorative in sistemi produttivi sempre meno faticosi.

Figura 4

4. I contrasti e i possibili riequilibri
Queste dinamiche demografiche così differenziate nei tempi e nei livelli producono effetti rilevanti anche sull’ammontare e sulla distribuzione della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) nelle varie parti del mondo, provocandovi surplus e carenze alle quali va data puntuale risposta sia creando adeguate occasioni di lavoro là dove quella popolazione sta crescendo più rapidamente, sia richiamando attraverso le migrazioni i lavoratori eventualmente carenti nei Paesi in cui la popolazione in età lavorativa sta riducendosi. L’evoluzione in corso è mostrata in Figura 4, dalla quale è evidente che il potenziale di lavoro si sta rapidamente spostando nei Paesi che sono adesso a reddito pro-capite basso e medio-basso, mentre gli altri e soprattutto quelli a reddito medio-alto subiranno nei prossimi anni una contrazione della loro popolazione in età lavorativa.
Le emergenze di sopravvivenza che spingono gran parte dei flussi migratori che stanno investendo l’Europa (ma anche gli USA) ci hanno fatto perdere di vista la funzione di riequilibrio demografico ed economico che le migrazioni possono svolgere e che, pur tra mille vincoli internazionali e notevoli sofferenze personali, hanno svolto nelle massicce migrazioni del secolo scorso tra le nazioni oggi più avanzate. Dall’altra parte, la perdurante crisi economica e la trasformazione dei modi del lavoro stanno occultando (specie in alcuni Paesi tra cui l’Italia) il crescente problema della diminuzione e dell’invecchiamento della forza lavoro potenziale. Recuperare gli immigrati e i richiedenti asilo a funzioni produttive, integrandoli di fatto nelle nostre società, potrebbe fornire un’utile spinta sia alle nostre economie, sia alle dinamiche della popolazione che abita nei nostri Paesi; inoltre, ciò aiuterebbe a stemperare l’allarme che quei flussi generano perché visti come incontrollati e non finalizzati.
È tuttavia necessario rendersi conto che i numeri in gioco sono tali da non poter essere affrontati con le sole migrazioni internazionali. Già la sola Africa subsahariana ha attualmente più di mezzo miliardo di persone in età lavorativa, che raddoppieranno in soli trent’anni. Si impongono, quindi, misure straordinarie non solo per il sostentamento di quelle popolazioni, ma per spostare l’asse dell’economia e della produzione verso il Sud del mondo, quantomeno se non vogliamo venire travolti da una massa di persone prive di risorse, di lavoro e di prospettive.

1.  I dati precedenti al 1950 provengono da stime riportate in United Nations (1955), “World Population from Year 0 to Stabilization”, in The World at Six Billion, 1999, p. 5 (V. http://www.un.org/esa/population/publications/sixbillion/sixbillion.htm); quelli successivi sono tratti dalle stime e dalle proiezioni United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2015), World Population Prospects: The 2015 Revision, acquisite via website da https://esa.un.org/unpd/wpp/.

2.  La classificazione è basata sulle stime del PIL fatte dalla Banca Mondiale nel 2014: sono 67 i Paesi ad alto reddito annuo pro-capite (uguale o maggiore di $ 12,746), 51 medio-alto ($ 4,125 – 12,746), 49 medio-basso ($ 4,125 – 1,045) e 28 al di sotto di quest’ultimo limite. V. http://c.ymcdn.com/sites/www.ishrworld.org/resource/resmgr/Docs/GNIPC_20....

3.  Nella media dei Paesi meno sviluppati la mortalità prima dei 5 anni fu dimezzata in trent’anni, tra il 1950 e il 1980, ed è stata di nuovo dimezzata nei trent’anni successivi, pur rimanendo su un livello otto volte superiore alla media dei Paesi più sviluppati.

Riferimenti bibliografici
Davis K. (a cura di) (1943), “World population in transition”, Annals of the American Academy of Political and Social Science, V. 237.
Landry A. (1934), La révolution démographique, Paris.
Livi Bacci M. (2011), Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, Bologna.
Mauldin W.P., Choucri N., Notestein F.W., Teitelbaum M. (1974), “A report on Bucharest. The World Population Conference and the Population Tribune, August 1974”, Studies in Family Planning, 5(12), pp. 357-395.
Miró C.A. (1977), “The World Population Plan of Action: A Political Instrument Whose Potential Has Not Been Realized”, Population and Development Review, V. 3, No. 4, pp. 421-442.
Notestein F.W. (1945), “Population: The long view”, in T. Schultz (a cura di), Food for the World, Chicago.

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