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Il superamento della violenza, la pace e la “coltura” del giardino

Nel corso del XX secolo abbiamo affrontato guerre assolutamente disumane e ne siamo usciti, ma ciò non implica che la situazione in cui ci siamo poi ritrovati a vivere possa essere definita una situazione di pace. La vita prosegue nelle condizioni proprie dei periodi di tregua, in cui le norme di vita del tempo di guerra restano incise nei cuori, intessute nella logica della quotidianità e per questo riscontrabili anche nelle decisioni politiche di livello più alto.

L’ombra della guerra è familiare al nostro mondo e nella società contemporanea, che si preoccupa solo di garantire sicurezza e ha assunto il binomio di “sicurezza e stabilità” a sua nuova ideologia, resta sempre a portata di mano: la guerra è così sempre preventivabile come “violenza legittima”, una storia vecchia come il mondo. Quest’ombra di guerra oggi si è distesa sull’Ucraina, la Siria ne è oppressa da anni. Ci sono troppi interessi avidi e troppe paure disinteressate in quelle improrogabili decisioni politiche che vengono prese rimanendo dentro un ordine di idee tipico dei regimi di guerra. È proprio per questo che è indispensabile riflettere su un altro ordine di esistenza, accogliendo l’assioma di papa Francesco: «Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza».

Com’è possibile un ordine del mondo che sia giusto, fraterno, e che permetta di «consentire una vita degna a tutti gli esseri umani, dai più anziani ai bambini ancora nel grembo materno, non solo ai cittadini dei Paesi membri del G20, ma a ogni abitante della Terra, persino a coloro che si trovano nelle situazioni sociali più difficili o nei luoghi più sperduti»?

È una domanda eterna, ma è anche impressionantemente nuova: è come se ci fosse qualcosa che ci impedisce di guardarla in faccia direttamente, come se ci fosse una difficoltà che non viene estirpata alla radice, che ci fa chiudere gli occhi e ci porta continuamente a scivolare nel fragile stato di tregua. Il filosofo francese Emmanuel Lévinas faceva dipendere questa difficoltà dal nostro tentativo di fondare la pace sulla politica, scongiurando la guerra attraverso la neutralizzazione dell’Altro che attuiamo collocandolo solo ai margini di quanto è propriamente nostro. L’evento catastrofico della guerra egli lo vede come il denudarsi della realtà di una violenza che consiste «non tanto nel ferire e annientare quanto nel dividere persone legate tra loro che vengono così costrette ad assumere ruoli a loro estranei, a rinunciare alle circostanze e perfino alla propria sostanza». «La guerra crea un ordine di cose tale da fagocitare totalmente la persona umana.» Quella «drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte», che il Papa ci chiede di guardare in faccia direttamente senza voltare lo sguardo dall’altra parte nel prendere le decisioni politiche, è il risultato di questa divisione. La paura dell’Altro nutre l’ordine anonimo della guerra, ma è anche ciò che determina la politica della tregua che ne consegue. È per questo motivo che la pace che nasce dalle guerre è così illusoria. Per questo le ferite mortali restano insanate. Per questo «la violenza non porta mai alla pace, condizione necessaria per lo sviluppo». O ancora, con le parole di Lévinas: «La pace negli imperi nati sulle guerre si mantiene con la guerra. Non restituisce a degli esseri ormai estranei l’identità perduta. È necessario tornare a un rapporto autentico e primordiale con l’essere».

Qual è questo principio di una pace autentica da cui papa Francesco ci invita a prendere le mosse e che Lévinas testimonia nella sua filosofia dell’Altro? Al di fuori di una totalità della guerra e della violenza di tipo eracliteo, esiste un’escatologia della pace che strappa «gli uomini dalla sottomissione alla storia e al futuro» e li invita, li esorta «alla piena responsabilità personale». Per concepire la pace è necessaria «una concezione dell’esistenza che oltrepassi i confini della storia, che presupponga l’esistenza di persone contemporaneamente inserite nell’essere e che possiedano i tratti di personalità in grado di rispondere della propria vita – per cui già adulte –, e quindi capaci di parlare a nome proprio e non di ripetere parole anonime dettate loro dalla storia. La pace nasce da questa capacità di parlare. La visione escatologica squarcia la totalità delle guerre e degli imperi in cui gli uomini restano muti». Nel complessissimo mondo contemporaneo, straripante di guerre e conflitti, l’alternativa è tragicamente semplice: si tratterà sempre o di cercare di armonizzare le nostre paure con l’aiuto dell’ordine anonimo della guerra – che ci promette di applicare la “legittima violenza” affinché una sicurezza maggiore sia garantita – o di superare il mutismo e la sordità delle ideologie per riscoprire un mondo che è rivolto alla libertà e alla responsabilità dell’uomo, un mondo la cui bellezza è in grado di strappare le radici di un ordine di esistenza anonimo, un mondo che non è in attesa di “soldati”, ma di “coltivatori”. 

 

La bellezza del mondo

La guerra è sempre terribile e dopo ogni guerra sentiamo immancabilmente le voci dei molti testimoni che ne gridano la disumanità. Ma sarà impossibile riuscire a superare un modo di pensare guerrafondaio, se non ci diventerà chiaro il suo fascino, quel fascino che ha portato al fronte innumerevoli intellettuali, persone che cercavano, celato sotto i falsi strati del quotidiano, qualcosa di realmente autentico. La bellezza della guerra si è sempre retta sulla tensione a voler essere assennati in mezzo all’ingenuità generale di opinioni narcotizzate, sul desiderio di saper distinguere il dolore dalla sofferenza, di non consolarsi con i discorsi sul progresso e la stabilità e conservare invece la memoria dell’afflizione, rimanendo aperti a quelle forze della storia che – come un uragano – spazzano via le casette di cartone degli uomini nella speranza di riuscire a stordire e addormentare la realtà con la retorica moralista. Lévinas vedeva un nesso chiaro tra la totalità della guerra e il fatto che questa «non si limita a essere una delle prove più dure per la morale, ma la rende addirittura ridicola. L’arte del prevedere la guerra e la capacità di vincerla con tutti i mezzi a disposizione (la politica) diventano esercizi per la ragione. La politica si contrappone alla morale come la filosofia all’ingenuità».

La bellezza della guerra è sempre legata a quella dell’assennatezza, che nelle catastrofi del XX secolo è diventata assennatezza della disperazione. La poetessa russa Ol’ga Sedakova legge così l’esito del secolo scorso: «Pensatori, scrittori, pubblicisti, artisti, talvolta anche i teologi, parlano oggi di “assennatezza della disperazione”, della necessità di “lasciare ogni speranza” per fare esperienza diretta della realtà – un’esperienza “traumatica” – e, conseguentemente, della vera, “adulta”, saggezza. L’idea di un’assenza di speranza eroica (che si è gradualmente insediata nel quotidiano e nell’ordinario) non è sorta dal nulla… Dell’azione terapeutica del rifiuto della speranza troviamo traccia negli appunti dei prigionieri dei lager, dei nostri e di quelli nazisti… I regimi di terrore hanno vita più facile con chi si concede di sperare in qualcosa».

In questo passaggio dalla filosofia della guerra all’escatologia della pace Lévinas pone a spartiacque tra l’ingenuità della morale e l’assennatezza della politica, una decisione rischiosa, coraggiosa e responsabile, la scelta per l’accettazione dell’Altro, una scelta indipendente da qualsivoglia condizione di reciprocità: «Io sono responsabile dell’Altro anche quando mi arreca noia o danno». Egli sostiene che nella vita quotidiana noi siamo abitualmente cauti e diffidenti verso gli estranei e portiamo avanti con mezzi pacifici una nostra piccola guerra, che si fonda sulle regole della reciprocità e del mettersi d’accordo; diventeremo invece uomini di pace solo quando decideremo di essere vulnerabili davanti al volto dell’Altro, solo quando tra le cose del Mondo ci decideremo a riconoscere quel volto nella sua infinita alterità. La soglia di un simile ordinamento di pace che dipende dalla persona è quel fare un passo incontro all’Altro che definisce la pratica dell’ospitalità radicale e si nutre della fiducia come fondamento del consenso sociale. La bellezza a-storica della pace oltrepassa i confini dell’assennatezza politica che prevede sempre nuove minacce di guerra e si manifesta nel tentativo di scoprire il volto della storia. Un’operazione che ha come condizioni la vulnerabilità, l’ospitalità e la fiducia.

Non potremo uscire da un sistema sostanzialmente di guerra solo maledicendolo e piangendo la sua disumanità. Occorre contrapporre all’assennata bellezza della guerra quella coraggiosa della pace. E qui non si tratta tanto di dichiarazioni o distinzioni logiche quanto della dura scuola dell’educarsi a questa bellezza, una scuola che va – controcorrente – incontro all’inaudita novità evangelica. A questa scuola urgono oggi grandi maestri. Tra loro la Sedakova annovera Dante come maestro di una speranza che «ci strappa da quello stato di sorda, chiusa e in qualche misura comoda sfiducia che sempre ci attrae, come per una legge di “morte termica”», «ci strappa dall’abitudine, da una vita senza origine, dalla dimenticanza dell’origine». In Dante la speranza è contrapposta all’abitudine intesa come forma di disperazione. Radicata in un’origine di pace, la speranza coltiva la bellezza del mondo. Nel nostro cercare di istaurare un ordine sociale di pace abbiamo bisogno dell’antica ed eternamente nuova arte di Adamo, di quel “coltivare il giardino” che dalla divisione militaristica tra natura e cultura porta alla comprensione originaria della cultura come coltivazione del creato. È proprio in questo coltivare che potremo vedere come l’ospitalità dell’Altro si trasforma da una decisione etica nell’inizio di una nuova e pacifica socializzazione che vada oltre la guerra e la tregua.

 

Coltivare il giardino

La società contemporanea, orientatasi al raggiungimento della sicurezza che è diventata la suprema priorità politica, è condannata a connettere la cultura a un sistema di filtri atti a difendere le persone dalle forze della natura e dalle catastrofi di ogni tipo. In una tale società siamo sempre spinti ad opporci: dobbiamo opporci assennatamente alle sfide della realtà, come se questa non celasse in sé altro che qualcosa di minaccioso. Così, tutte le opere che intraprendiamo devono avere breve durata, perché le minacce sono sempre improvvise e occorre quindi non lasciarsi ipnotizzare da rischiosi progetti a lungo termine. Una società che usa il calcolo dei rischi come sua procedura politica di base è una società col fiato corto, incapace di percorrere un cammino lungo. Per un’esistenza pacifica è necessario un respiro ampio, è necessario sperare che la realtà abbia in sé non solo sfide minacciose, ma anche un invito che chiede la risposta dell’uomo. L’ordine della pace presuppone una cultura intesa come capacità di sentire l’invito dell’Altro e di rispondervi. Due culture, due responsabilità. La responsabilità come difesa e la responsabilità come prontezza a rispondere. Occorre che questo secondo tipo di responsabilità, nel suo nesso con la speranza, ci diventi familiare. Il tempo della speranza è quello di opere che oltrepassano il limitare di una vita umana. Lo può scoprire un uomo che, come Gaudí, può affermare di non preoccuparsi del destino che avrà la sua cattedrale quando lui sarà morto, perché il suo Committente non ha fretta ed è semplicemente paziente. Il tempo della pace è definito da questo Committente. Davanti al Suo sguardo tutte le cose del mondo rivelano la loro novità e la freschezza dell’invito «sia!». Occorre qualcuno che veda questa novità, che senta questo richiamo e brami il suo realizzarsi. Occorre un nuovo protagonista della storia che veda non solo il piccolo bisogno politico del difendersi ma anche, con le parole di papa Francesco, «quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data». E se «le guerre costituiscono il rifiuto pratico» di raggiungerle, il porvi attenzione nasce non da buone intenzioni ma dal lavoro quotidiano del coltivare, della lavorazione di quei semi, nuovi e pacifici, che non abbiamo gettato noi nel terreno del reale, ma che invocano la nostra partecipazione, che ci chiedono di fare la nostra parte.

Ogni epoca parla con la lingua della sua cultura, traendo da tutto lo strumentario delle arti e dei mestieri a sua disposizione ciò che è in grado di realizzare meglio la sua speranza. Nel deserto delle performance e delle installazioni della contemporary art, che portano il marchio di fabbrica della fugacità della società del rischio, la riscoperta della cultura della pace a cui ci richiama papa Francesco significa un ritorno all’arte antica ma sempre viva della coltivazione del giardino. È l’arte di una nuova socializzazione in cui se da una parte si riuniscono tutte le arti, le scienze e i mestieri – dall’architettura e la poesia fino alla botanica e la meteorologia –, dall’altra, si tratta di uno slancio sintetico che dev’essere compiuto nella suprema umiltà davanti ai germogli di qualcosa di nuovo che si può solo servire, senza fare calcoli, senza impossessarsene, ma sperando. Questi “coltivatori”, che non cercano il proprio e lavorano il giardino del mondo nei deserti e tra le rovine lasciate dalle guerre, dovranno essere riconosciuti come operatori di pace.

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